Roberto Silvestri

altZoommate su foto sbiadite e voce fuori campo. Esperti intervistati, cinegiornali di repertorio, raccordi sull’asse. La storia della Dc, lo scontro con De Gasperi. Il mistero dell’abbandono improvviso della politica nel 1958, la nascita della «piccola comunità monastica dell’Annunziata», il ritorno in campo, altrettanto sconvolgente, nella metà degli anni Ottanta, di un monaco-partigiano che difende, tra Craxi e Berlusconi, i principi della Costituzione italiana nata dalla Resistenza e dall’antifascismo popolare.

Un documentario ortodosso su Giuseppe Dossetti, padre della Costituzione, in stile BBC sarebbe fatto così. Marco Santarelli invece, tra i migliori cineasti italiani della nuova generazione, anche perché frequenta luoghi vivi di cultura come il carcere e le navi container, ha presentato Dustur («Costituzione») al recente festival di Torino, tenendo il suo argomento, questo «contenuto», il dossettismo, piuttosto nascosto, obliquo, lontano da sguardi indiscreti. Lo fa lievitare attraverso procedimenti formali sofisticati (home movies, filone carcerario, commedia scolastica, road movie mistico, reportage poetico anti-nazista ecc.…) e catturando con la telecamera digitale l’ascolto e il rispetto, anche quando non c’è condivisione di idee. Fino a farlo diventare scandalosamente altro. Fino a toccare il nervo scoperto del nostro dibattere di oggi su spiritualità orientale e occidentale, sharia, legge islamica, e jihad, giustizia sociale. Su Islam e democrazia, stato e religione (perché tenerli separati), incontro-scontro tra culture. Sui nostri valori e stili di vita messi in discussione dagli apocalittici dell’ISIS e da altri fondamentalismi integrati. Dante Alighieri e Abu al Baqua al Rundi, stessa lotta. E dunque sul senso da dare, da questa e quella parte del Mediterraneo (non c’è libertà senza saper declinare alla maniera arabo-ebraico-laico-cristiana la parola amore) a Dustur – che significa, in arabo, Costituzione.

Neo-Dustur, «Nuovo partito libero della Costituzione», era la formazione politica che guidò la Tunisia all’indipendenza del 1956 e, con Bourguiba, al laicismo, alla parità di diritti uomo-donna e al socialismo del partito unico, poi degenerato in forme sempre più autoritarie. «Neo-Destur» anche nell’Italia del Partito Della Nazione: le «riforme costituzionali» funzionali alla crescita e alla globalizzazione «sono trent’anni che il paese le aspetta», ripetono come macchinette i renziani: rieditando quei movimenti non sempre limpidi, attorno alla Costituzione repubblicana, che senza «sguardo vasto e rinnovamento etico saranno lettera morta», ammoniva don Dossetti da Monte Veglio.

Nel frattempo il mondo arabo ha conquistato una nuova e più avanzata costituzione grazie alla lotta del «quartetto tunisino per il dialogo e per la pace», che ha vinto il premio Nobel per la Pace 2015: dando un contributo islamico alla democrazia pluralista, non confessionale e che tutela le minoranze, soprattutto «i poveri, gli umili, i piccoli, i senza storia». E fu grazie al populismo progressista, dei dossettiani La Pira e a Mattei, che il dialogo tra Italia e società civile araba ci fu e fu fecondo.

Ma c’è un legame spirituale più profondo e militante che Santarelli sottolinea, scegliendo come protagonista del suo film Ignazio De Francesco, un monaco dossettiano, ex giornalista, oggi studioso di diritto islamico. Già. La separazione dalla politica, l’addio alla politica di Dossetti insomma, non fu contemplativo, ascetico, ma pratica politica dal basso, maggiore pienezza d’impegno nella historia mundi, a cominciare dai carcerati, gli ultimi degli ultimi, come ci racconta Mario Tronti nel capitolo «Uno sguardo sempre vasto» di Dello spirito libero. Unire la doppia eresia, «andalusa, sufi» e dossettiana, contro il falso spiritualismo degli integralismi pseudoreligiosi e pseudo-modernisti. Ecco il punto. «La primavera naturale arriva sempre, ma la primavera storica, se non la vogliamo, non viene». Il terreno comune sul quale si fonda questo film combattente è il concetto di libertà, negativo (dalle insidie del potere) e positivo (per una umana, egualitaria liberazione).

Così, nella biblioteca del carcere Dozza di Bologna, Ignazio chiama insegnanti e volontari per un seminario sulla Costituzione italiana in rapporto a quelle, dopo le primavere «per la libertà e per la democrazia», di Marocco, Tunisia e Egitto. Intervengono gli islamologi Caterina Bori e Paolo Branca, il giurista Bernardino Cocchianella, l’intellettuale marocchino Yassine Lafram, portavoce delle comunità bolognese (lo vediamo spesso in tv a dibattere con i Belpietro di turno), Gianluca Parolin, che insegna diritto al Cairo e, soprattutto, alcuni detenuti musulmani, anche ipnotizzati dall’integralismo («non ce lo voglio un apostata nella mia cella»), ma soprattutto normali, come Samad, Abdessamad Bannaq, ex trafficante di droga che faceva la bella vita tra un viaggio e l’altro, senza dare valore più a niente, né ai soldi né ai sentimenti, ma oggi è più «felice e libero» perché si è riappropriato della sua testa, non ha più droghe di ogni tipo a dominarlo, anche se lavora duramente come operaio a 800 euro al mese, studia sodo giurisprudenza e aspetta da un momento all’altro la «fine pena» e la libertà piena.

Tutti insieme mettono a punto, da dietro le sbarre, la costituzione ideale, dibattendo di democrazia formale e sostanziale, di istruzione come base di tutto, di pace (salam e shalom). E poi di insulti al Profeta, diritto di parola, eguaglianza, tolleranza, colpa e dolo, takfir, cioè incitazione all’odio (che forse le nostre leggi dovrebbe decidersi a meglio prevenire) e di diritto alla scomunica (nell’immaginario musulmano l’apostata è esageratamente malvisto). E soprattutto di proibizione del lavoro minorile e di diritto al lavoro: «Se non c’è, lo stato dovrebbe garantire, secondo la carta, il diritto al reddito di cittadinanza», fa capire Ignazio. Sharia non vuol dire medievalmente tagliare la mano al ladro, secondo la semplificazione wahabita letteralista e ipocrita: un signorotto saudita poligamo che sbevazza e va a puttane a Bangkok, ma non a Ryad, non commette alcun peccato… Maometto è certamente sconvolto da come una minoranza di sedicenti islamici maltratta le donne in suo nome. Intanto i carcerati vanno avanti e indietro, avanti e indietro, avanti e indietro, durante l’ora d’aria. Non basta la Gozzini. Quando le nostre carceri diventeranno almeno spazi liberi dentro le mura e non prigione dentro la prigione? Così sono trattati gli adepti dell’ISIS. Lavaggio di cervello. E si trasformano in bombe umane.

Dopo l’era del mockumentary, il documentario imbroglione che gioca a decostruire i meccanismi autoritari del documentario ortodosso, ecco un esempio riuscito di «cinema della realtà». Che vuol dire intensificare e far vibrare, come nella poesia, tutti i linguaggi che il cinema adopera, e non soltanto il procedimento basic dell’identificazione eroe-spettatore. Il problema è trasformare un film in «cuore sapiente». Esperienza erotica, non didattica.

Questo contributo è già apparso su «Alfabeta2»

 


 

La proiezione del film Dustur si terrà giovedì 4 maggio alle ore 20:30 presso il Cineporto di Bari (Lungomare Starita, 1).

Saranno presenti in sala il regista Marco Santarelli e Roberto Silvestri. Introdurrà Luigi Abiusi.

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