Hintermann nel suo intervento scriveva di parole inadeguate per quanto diffuse, quantomeno inadeguate a dire il cinema (ammesso sia una questione di dizione, di definizione delle immagini e non invece un tentativo di approssimarvisi, di interpretarle, ruminarle, farsi ruminare da questa pasta di luce), citando l'aggettivo «derivativo», e da lì si interrogava sulla sussistenza, consistenza della critica.

Riprendendo il discorso da lì, e dalla correlazione stretta esistente tra le immagini e le parole che le dicono (le parole della critica), tale che il discorso sul cinema non può che essere accrescimento del precipitato iconografico del referente, viene in mente una costellazione di testi, espressioni, definizioni molto in voga di questi tempi che sembrano impoverire, certe volte proprio annullare il portato del lemma applicato al cinema (ma anche alla musica, alla letteratura, al teatro ecc.). Si tratta di parole avariate, cancerogene per il «corpo-cinema», come lo definisce anche Hintermann – un corpo libero, sfuggente –; tale da rendere qualsiasi film a cui le si applichino (e di cui ci si ritrova a leggere), qualcosa di stereotipo, obsoleto, banale (mancando di stratificare, nel caso, anche la pochezza del film), ma soprattutto la critica una congerie di luoghi comuni, triture sillabiche, tragicomico annullamento del senso. Proprio il suono – prima ancora del concetto che veicola –, l'immagine acustica di queste parole trite, che rimanda a sé in altre innumerevoli circostanze in cui il lemma ha crocchiato goffo e tetro nell'aria – e nello spazio della pagina – come un meccanismo sifulo azionato dalla molla della frase fatta e della penuria, dell'inedia del bacino lemmatico; evocano la sterile enumerazione (film-numero, film-quantità) piuttosto che l'enucleazione delle qualità.

A me viene in mente un'altra parola: «stiracchiata», usata a proposito (evidentemente, dal mio punto di vista, a sproposito) della scrittura di un film, di una sceneggiatura: si dice che è una sceneggiatura stiracchiata quella rabberciata, non stratificata, e così via. È lo stato delle parole, o di quel che resta delle parole – dopo l'ingiunzione «satirica» montaliana, per dire di uno dei modelli novecenteschi – nel contesto di certa critica, che non riescono più a scandire una stratificazione di senso e sembrano piuttosto adiacenti al nulla, al cacofonico o peggio allo scatologico. Quando invece tenore della parola e suo referente ideale sarebbe l'escatologico, anche nel senso della catastrofe che colpisce il segno; la gaia (nietzschiana), corrusca catastrofe insita in ogni piena manifestazione del segno, in ogni immagine cinematografica che si fa e immediatamente si disfa sotto i nostri occhi: penso a Campana, «nel giro del ritorno eterno vertiginoso l'immagine muore immediatamente». Ma non è solo una questione di parole, di lemmi: si tratta di parole inserite in un sistema sintattico consapevole, dentro lo spazio esteso in gangli, suture (o iati abissali), pause propri della sintassi, che è il presupposto del maturare del pensiero: parole e frasi suscitano il pensiero, non il contrario.

All'interno di questa concezione, il testo critico non è, non può essere ancillare rispetto a quello iconografico su cui disquisisce: è esso stesso testo espressivo, con la sua specifica forma entro i cui spazi e nel lasso di articolazioni lemmatiche, perifrastiche, periodali, anzi per via di questi spazi di sedimentazione, fibrillazione e concatenazione (di cui parla anche Deleuze già dal tempo di Differenza e ripetizione), in questo caso concatenazioni fonico-semantiche, il senso s'enfia, risuona, si «equivoca». È il senso del cinema a cui la parola si rivolge, non più spiegato, semmai inventato dal testo critico, che pure trova le ragioni, i modelli di questa invenzione proprio dentro il palinsesto linguistico, immaginifico del film: è il film che fornisce i prodromi, materiali, plastici, su cui la critica deve variare, inventare le verità del film. E allora sarà nell'orografia spuria della sintassi, sequenza di parole pastose e plastiche; nello stridere di arcaismi o di solecismi; nelle impennate foniche; nelle increspature improvvise, grumose della scrittura, che il testo avrà senso (avrà un'estetica) e ne darà in termini di plusvalore (un ultra-senso) al film e alla realtà, se è vero che il cinema è la lingua scritta della realtà (Pasolini) o detto altrimenti, «la via sulla quale passano in tutti i sensi le modificazioni che si propagano nell'immensità dell'universo» (Deleuze). E allora la sintassi del testo critico è la misura della distanza tra la parola e l'immagine: ma una sintassi cosciente, lavorata, cioè lasciata al lavorio delle parole che richiamano parole e così via. È in questa distanza – nello sfaglio, nello spazio di non corrispondenza tra i segni – e non nell'aderenza di una all'altra (in una pretesa di poter spiegare, definire l'ambiguo, transeunte essere dell'immagine in movimento), che risiede il significato ultimo (cioè provvisorio) del film e si mostra catastroficamente il senso delle cose.

Una prima versione di questo articolo è uscito sul Manifesto del 23 luglio 2024, all'interno di un'ampia indagine condotta dal quotidiano circa la critica cinematografica contemporanea.

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