altUn cinema in divenire, quello di Xander Robin, tanto nel processo di creazione, quanto nelle immagini che si stampano sulla pellicola: i corpi dei personaggi come involucri fragili, portati alla continua metamorfosi dai loro stessi disturbi compulsivi.
Complice la costellata strada della mutazione e della corruzione del corpo (dalla scena cyberpunk alla New Wave newyorkese), vien da chiedersi se è lecito credere che il cinema sia anche questo: un ininterrotto movimento metamorfico dell’immagine che persiste.
Incontriamo il regista Xander Robin in occasione della rassegna barese “Registi fuori dagli sche(r)mi”.


Parliamo di ossessioni. Are We Not Cats è il tuo primo film. Avevi già girato diversi corti che sono incentrati sulle stesse ossessioni mentali e su come si riflettono in malattie del corpo. La domanda è: perché hai deciso di tradurre questo tipo di ossessioni in un modo cinematografico?

Partiamo dal fatto che io sono ipocondriaco. Sono proprio stato cresciuto, educato così. Ovviamente ho cercato di non esserlo, di liberarmi di questa cosa, ma credo che da qui fino ai prossimi anni continuerò ad occuparmi di tutte queste ossessioni, di storie legate al corpo e ai cambiamenti del corpo. Diciamo che i cambiamenti del corpo sono un po’ la mia ossessione. Non è che io consapevolmente abbia deciso di fare un film sulle ossessioni. Ho cominciato a pensare a trasformare questa cosa in qualcosa di visivo e gli stessi personaggi non hanno l’obbiettivo di affermare la presenza della loro ossessione. Più che di ‘ossessione’ parlerei di ‘comportamenti compulsivi’: mi piace più il termine ‘disturbo compulsivo’ che ‘ossessione’. Quando si inizia a fare un film, c’è il desiderio di fare un film. Quindi il primo pensiero non è l’ossessione, quanto piuttosto il chiedersi quali immagini mettere nel film. Poi ho cominciato a scrivere delle mie cose. Io avevo dei disturbi: mi tiravo i capelli e li mangiucchiavo e ho cominciato a metterlo all’interno del film e a fare delle ricerche e ho notato che questa è una tematica che non è mai stata affrontata nei film. Forse non dovrebbe essere mai affrontata in un film, ma mi piace proprio questo: affrontare tabù. E quindi ho deciso di scrivere di questa mia esperienza personale. Certo, ho scritto anche di altre cose, ma questa esperienza è forse la prima immagine che ho avuto del film. La seconda è quella della storia d’amore. Avevo in mente l’immagine vivida di queste due persone, l’una di fronte all’altra che si amano tirandosi vicendevolmente i capelli. Questo è stato prima di 5 anni fa e son dovuto stare attento perché l’idea cominciava a prendere forma e non potevo divulgarla.

Per questo hai cominciato a fare i cortometraggi prima?

Tutti i cortometraggi e quindi tutta la preparazione del lungometraggio avviene prima dei 5 anni fa, quindi anche il cortometraggio che porta lo stesso nome è temporalmente antecedente. Quando io ho girato i corti ho cercato di non intellettualizzare troppo. Io ero posseduto e ho girato i corti come mi venivano, in maniera istintiva. C’è un corto, The Virgin Herod, il primo che ho girato con l’attore predominante che poi sarà protagonista degli altri. Non aveva a che vedere con i capelli ma con l’ansia, l’ossessione. Unghie, pelle…

Ci sono dei capelli che escono da sotto la porta…

Sì, ci sono sempre capelli. Quella è stata l’unica volta in cui quasi mi è venuto da vomitare perché vivevo nel posto in cui ho girato il film e sono andato in diversi barbieri a raccogliere capelli. Poi li ho messi insieme in una lenza che muovevo in diverse direzioni davanti alla telecamera.
In questo corto preparatorio c’ètutta la parte fisica, corporea e c’è anche quella d’amore, tematiche che ritornano.
Poi ho cominciato a scrivere la sceneggiatura che corrisponde alla seconda parte del film proprio, quando mi sono trasferito a New York. Quando mi sono trasferito ero confuso, non ero sicuro che questa sceneggiatura si potesse trasformare in un lungometraggio e mi è venuta un’idea nella gestione delle location (perché io volevo usare come location proprio quel magazzino in cui poi ho girato gran parte del film) riguardo a come si evolve il film. Il cortometraggioomonimo è una specie di test, non l’avevo neanche pensato per il pubblico. Era semplicemente un banco di prova per gli attori, il direttore della fotografia… un modo per sperimentare gli aspetti anche tecnici che poi avrei voluto mettere nel lungometraggio. Questo è stato il passaggio che mi ha portato a scrivere e iniziare il lungometraggio.

Poi c’è una cosa importante che entra in gioco a New York. C’è come una simmetria: il film comincia in maniera disperata e poi c’è la storia romantica che invece porta un cambiamento. La stessa cosa è trasmessa dallo spazio. Si comincia dalla disperazione, d’inverno, a New York, con il freddo, la neve, gli spazi ostili che trasmettono questa idea di solitudine e ostilità. Mentre – ed e la parte più costruita –quando avviene l’incontro fra i due personaggi, l’atmosfera si scalda: entrano in gioco i colori caldi e un décor molto prezioso che sembra stare a significare che loro trovano il modo di proteggersi rispetto a quell’ostilità che c’è fuori.
Inoltre al freddo, a ciò che è ostile, corrisponde l’universo delle macchine. Invece agli interni e ai colori caldi, l’amore, la musica, le luci della disco. Il contrasto netto continua su vari punti di vista.

Questa dicotomia fra ambiente interno ed esterno riflette le azioni dei personaggi, in particolare la disperazione del protagonista, il fare tutto il possibile, disperatamente, per ottenere una vita migliore. Questo si riflette nell’ambiente. La cosa più importante per me era proprio focalizzarsi su come i personaggi facessero del loro meglio per poi fare in modo che l’amore sbocciasse, per avere amore nella loro vita e quindi la storia d’amore che ne è la conseguenza e quindi anche gli interni. Più che ai personaggi o allo sviluppo della storia d’amore, mi interessava molto di più cosa i personaggi facessero per arrivare al punto culminante. Anche la parte un po’ più cruenta, forse è ancora più sensuale e romantica della storia d’amore in sé e per sé perché più che in un rapporto sessuale vedo in quest’operazione chirurgica una sublimazione del rapporto d’amore.

È proprio un penetrarsi nelle viscere.

Sì, è proprio così. Dà più soddisfazione delle scene viste prima. È il vero momento di penetrazione.

Penso, inoltre, sia la scena a partire dalla quale si giunge alla soluzione del film perché, estratta la massa di capelli intrappolata nello stomaco,le ultime scene sembrano quasi in equilibrio: l’albero tranciato,a metà fra il crollare e il restare in vita, un capello trattenuto nelle mani della protagonista e poi la massa che prima era intrappolata nello stomaco che diventa quasi una palla da discoteca.

Sì! Mi piace la tua interpretazione.

(Tornando al discorso su New York, ndr)

Abbiamo girato a New York, ma non è una New York riconoscibile, non c’è nessun elemento particolare. Abbiamo girato in aree industriali che probabilmente non si vedrebbero mai in un film. L’idea era proprio quella di non dare un’immagine rappresentativa del posto, quanto che lo spazio riflettesse le azioni dei protagonisti. Una specie di terra desolata.

Però c’è un senso iconografico della New York degli anni Settanta. Il film rimanda un po’ alla scena underground newyorkese. Ricordava a tutti la scena New Wave anni Ottanta.
Non è esattamente New York, ma c’è questa sensazione di cinema newyorkese indipendente. Tanto che appunto ci siamo interrogati sui tuoi punti di riferimento. Abbiamo convenuto che ci ricordava in molte cose Jarmusch per il décor prezioso. Quando penso ad Are We Not Cats, non so perché, penso ai vampiri, anche se i protagonisti non lo sono. Però il fatto di nutrirsi, di mangiarsi a vicenda mi fa pensare in qualche misura a Only Lovers Left Alive. Ma comunque proprio allo spirito indipendente di Jarmusch. Al fatto di essere veramente fuori dall’industria, di non pensare ad un pubblico quando fa un film, ma di metterci semplicemente una storia che gli pare interessante. E riguardo a New York: l’iconografia. C’è un’inquadratura che mi ha colpita in cui c’è Michael sotto un ponte di ferro, con il rosso della strada che pulsa, con il bavero del cappotto alzato. Mi ricorda tanto Taxi Driver e James Dean nell’iconica foto a New York. E in un’altra, con il maglione alzato mi ricorda iconograficamente James Dean. Insomma tutto questo, mescolato, mi dà un senso di New York e della scena indipendente del cinema.

Interessante! Jarmusch...probabilmente per ispirazione, storia, personaggi e azione ci sono somiglianze. Ma per la grammatica filmica siamo molto differenti.
Fonte di ispirazione, per me, sono i primi tre film di Leos Carax, e in particolare tutti quelli che ha fatto con Denis Lavant. Il tipo di rapporto che Carax aveva con l’attore è un po’ quello che io ho instaurato con Michael. Magari Michael ha un po’ il fascino di James Dean di suo.
Altri punti di riferimento sono Jean-Yves Escoffier, direttore della fotografia, de Gli amanti delPont-Neuf, Lynne Ramsay, la regista di We Need to Talk About Kevin e Morvern Callar.
Per la grammatica filmica Abel Ferrara: mi ispiro soprattutto al Ferrara degli anni Ottanta e i primi anni Novanta. E forse anche Zulawski.

Hai visto molti film! Esistono due tipi di registi: i cinefili e quelli che non hanno mai visto nulla, per esempio Tsukamoto.

Sì, ne ho visti molti, pur ritenendomi ignorante in materia.

L’ultima domanda è sulla musica: come hai scelto i brani?

È stato abbastanza random. Buona parte delle tracce sono una coincidenza e comunque è stato tutto in divenire. Nel senso che anche poco prima dell’uscita del film abbiamo cambiato lievemente alcune cose. Poi in generale c’è un’influenza blues e un’influenza rock, ma è molto diversificata. Due terzi sono di colore, ma addirittura avremmo voluto prendere una traccia da una band giapponese. Quindi un ambiente musicale molto diversificato e colorato. Per esempio la canzone dei Funkadelic, che poi è la traccia della scena centrale, non avrebbe dovuto essere quella. Sapevo di volerla avere e di poterla mettere dal punto di vista dei diritti, ma inizialmente avrei voluto mettere una traccia più rock, poi un’altra dello stesso album dei Funkadelic, ma alla fine, proprio perché è uno dei miei album preferiti, ho deciso di mettere quella traccia. È una delle cose che mi piace di più, scegliere la colonna sonora, ma è sempre problematico per via dei diritti. Quindi tutto è andato avanti in maniera non programmata: non avevamo in mente una tracklist. È stato un divenire.

Che musica ascolti in generale?

Hip hop.

Non me l’aspettavo…

Adesso ascolto prevalentemente hip hop perché è ciò che di migliore c’è in America. È difficile che vengano fuori delle belle tracce rock. Ascolto anche buona parte della musica che c’è nel film, soprattutto quella un po’ più dolce e romantica, soprattutto Helene Smith.
Ho messo nel film tutta la musica che mi piace. È un processo di montaggio anche per la musica, perché man mano che si procede, uno sente, scarta, fa una selezione accurata. Non soltanto per i film, ma anche per la scrittura. Bisogna cercare la musica giusta non solo per l’immagine, ma anche per lo scritto.

Vuoi continuare sulla scia della scena indipendente?

Sì!

Quindi non andrai ad Hollywood?

Oh, no!

 

Traduzione a cura di Lara Maroccini


 

Filmografia

Are We Not Cats (Xander Robin 2016)

Gli amanti del Pont-Neuf (Les amants du Pont-Neuf) (Leos Carax 1991)

Only Lovers Left Alive (Jim Jarmusch 2013)

Morvern Callar (Lynne Ramsay 2002)

Taxi Driver (Martin Scorsese 1976)

We Need to Talk About Kevin (Lynne Ramsay 2011)

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