altIrene Dionisio, 30 anni, torinese. Nel suo curriculum, tra le altre cose, videoarte e documentari. A “Registi fuori dagli sche(R)mi” ha portato Le ultime cose, sua prima opera di finzione, che, dopo la Settimana Internazionale della Critica 2016 a Venezia, è riuscita a trovare anche piccoli sbocchi distributivi nelle sale. Un film di storie e vite che nel Banco dei pegni trovano il loro teatro; con gli oggetti impegnati, e la speranza di riscattarli, a comporre il sentimento dei personaggi. Un film che è provvisorio punto di arrivo di una ricerca che ha radici più lontane.


Titolo: Christopher Lasch. Come sopravvivere al capitalismo. Partirei da qui, dalla tua tesi di laurea in Filosofia estetica e sociale. Perché il capitalismo è senz’altro questione che nei tuoi film è presente: in modo più diretto, senz’altro, nel Le ultime cose, e per altre vie, più profonde, in opere precedenti come i documentari Sponde. Nel sicuro sole del Nord e La fabbrica è piena. Tragicommedia in otto atti.

La passione per il documentario è nata proprio durante il mio periodo di studi: ho iniziato a frequentare molti workshop, e alla fine, dopo la laurea, ho capito che le prospettive di una carriera accademica non mi interessavano. Sapevo di voler fare altro, e così è arrivato La fabbrica è piena, totalmente autoprodotto, con la Film Commission Torino Piemonte che è subentrata poi a film finito. Eravamo in tre: dalle sei alle dieci del mattino, prima di lavorare, e nei weekend, andavamo a girare in questa fabbrica che era stata la storica Fiat Grandi Motori, prossima alla demolizione. Sentivamo una grande urgenza di girare il film. Si trattava, inoltre, del luogo in cui avevano lavorato i miei genitori, si erano conosciuti lì. Capire cos’era diventato quel luogo era per me assolutamente interessante. Veniva chiamato “l’hotel”, perché praticamente tutti i migranti della città finivano lì: anche se nel film abbiamo solo tre personaggi rumeni, in realtà c’era una comunità più ampia, diverse etnie. Era un posto anche molto violento, un aspetto che non abbiamo voluto edulcorare, ma ci premeva soprattutto un’astrazione: una dimensione che partisse da un reale molto forte conducendo poi il film altrove, a un “Aspettando Godot”. In particolare, i dialoghi nonsense tra due personaggi, Mihai e Andrei, andavano a toccare molte cose, tanti significati, evidentemente agganciati a una dimensione storica. E dunque, un po’ attraverso gli archivi della fabbrica che fu, di un Novecento scomparso, un po’ attraverso le domande che abbiamo posto loro, legate soprattutto alla speranza, abbiamo cercato di muoverci narrativamente in un certo modo. Mihai, a un certo punto, cita un film come Zorba il greco che diventa quasi metafora di quella sorta di disfacimento che attanaglia questi personaggi. Quindi direi che La fabbrica è piena, per certi versi, ha a che fare con la filosofia della storia.

Pensavo al materiale d’archivio. Anche quelle immagini diventano altro, beckettiane anch’esse, in un certo senso.

Sì, c’è una nostalgia allo stesso tempo tenera, ma anche un po’ patetica del passato. Attualmente siamo proprio divisi, e non conosciamo una via di mezzo, credo, tra questa nostalgia e un presente che sembra annichilire ogni progettualità. Nel giro di quarant’anni, e sicuramente per una questione legata molto all’economia, le nostre prospettive e il nostro modo di concepire la Storia sono profondamente mutati. Tutto il lavoro di gestione dei capitoli e dell’utilizzo dei materiali di archivio de La fabbrica è piena è stato un po’ figlio di questa riflessione: che tipo di speranza esiste oggi e come è cambiata? Una domanda, dunque, sul come si è passati dalla promessa di un avvenire migliore – da chi prima nella fabbrica vedeva il luogo attraverso il quale avrebbe raggiunto un riscatto, un progresso – a un’assenza di orizzonte molto moderna. La dimensione dell’attesa ormai ci caratterizza tantissimo. Una questione, questa – come l’uomo si percepisce nel suo tempo, il suo stare nel proprio tempo – che torna molto anche in Sponde: anche lì i migranti, un po’ come noi tutti, sono alla ricerca di un orizzonte a cui tendere. Non sono marxista, però mi faccio delle domande che provengono da quella tradizione lì. E sto cercando delle risposte, che ancora non arrivano.

Come sei arrivata a girare Sponde? Qui la tragedia dei morti in mare, trascinati dalle onde sulla spiaggia, la astrai, la sottrai, concentrandoti su due figure, due uomini divisi dal Mediterraneo, ma uniti dallo stesso gesto, quello che dà sepoltura ai corpi senza vita e senza nome. Ti sei addentrata, tra l’altro, in un universo – Lampedusa, i migranti – che era stato già ampiamente fagocitato dai telegiornali, dal racconto mediatico.

All’epoca avevo già iniziato a lavorare su Le ultime cose, era pronto il soggetto e mi avviavo a scrivere il trattamento. Parlo di cinque anni fa. A quel tempo stavo anche curando un corso sul documentario per alcuni studenti di un liceo: un giorno, una ragazza della classe mi mostrò il trafiletto di un giornale che raccontava dello scambio epistolare tra questo postino e scultore tunisino, Mohsen, e un becchino in pensione di Lampedusa, Vincenzo. Rimasi folgorata, e la storia continuò a ossessionarmi anche dopo. Alla fine decisi di partire per Lampedusa. E, paradossalmente, è stato poi più difficile girare lì che in Tunisia. Perché Lampedusa è davvero un luogo violentato, e quindi non appena ti presenti con la tua camera per girare sei già, in un certo senso, avvertito come una “minaccia”. Allora ho cercato una prospettiva molto intima, che mi facesse sentire eticamente corretta: sono stata perlopiù con Vincenzo; ovviamente ho conosciuto altre persone, mi sono messa in contatto con un collettivo politico molto attivo, Askavusa, presente anche nel documentario, ma nel complesso ho voluto essere molto discreta. Del resto, la solitudine di Vincenzo era simile a quella di Mohsen in Tunisia: avevano pochi rapporti con l’esterno, questo mi ha portato a stare molto con loro. E rispetto a La fabbrica è piena, che quasi si componeva durante le riprese, qui il montaggio è stato molto lungo, perché c’era tutto un discorso di equilibri, di rimandi che mi premeva molto mantenere. È sicuramente un film più costruito.

Mi interessa questo aspetto. Perché “costruito”?

Be’, c’è un motivo fondamentale alla base. Si tratta di un film che si svolge nel passato, le testimonianze sono la voce di qualcosa che è già avvenuta. Devo dire che già in scrittura il film aveva una sua composizione molto forte. Volevo un film molto sospeso, etereo, che si facesse guidare dalle immagini, già di per sé così evocative, già, per certi versi, narrazione implicita. Poi, tutto quel lavoro di messa in scena è stato rielaborato al montaggio. La composizione dei momenti legati alle lettere, i rimandi alle comunità di appartenenza di Mohsen e Vincenzo, i materiali d’archivio… Un lavoro enorme di organizzazione di questo sistema che sembrava un po’ a scatole cinesi. Se non ci avessero detto di chiudere il film, avremmo rischiato di continuare all’infinito.

Poi hai ripreso a lavorare su Le ultime cose.

Ed è stato un grosso lavoro di scrittura, qui, di sottrazione, un andare a scavare molto, ma era una cosa che volevo. Tendenzialmente la sceneggiatura italiana ti dice tutto dei personaggi, con dialoghi molto lunghi per dirti chi sono; a me interessava piuttosto schiacciare i miei personaggi sulle dinamiche del Banco dei pegni, come se fossero delle emanazioni. Volevo stilizzarli, e dunque anche la ricerca degli attori ha assunto una direzione precisa. Dovevano “semplicemente” essere in scena, punto. Da una parte, la scrittura è avvenuta in scena, soprattutto con i non attori, come avviene nel documentario; dall’altra, si è sviluppata con gli attori professionisti facendo improvvisazioni e prove, con modifiche costanti alla sceneggiatura. Ed è stata un’esperienza anche psicologicamente molto forte: il mio primo film di finzione e, dunque, una troupe molto più grande da dirigere; negli altri film avevo lavorato con tre persone, questa volta con quaranta. E il tempo, quando fai un film di finzione, è molto più “blindato”, proprio per questioni economiche, rispetto a quello del documentario. L’approccio che però ha guidato molto la scrittura si è mantenuto anche con le riprese: mi interessava un lavoro concettuale, astratto, sapendo che invece, rispetto a certi temi, spesso ci sia aspetta più uno stile “dardenniano”. Anche per questo ho scelto come direttrice della fotografia Caroline Champetier, persona che ha lavorato con Godard, Rivette, Carax, Akerman e tanti altri. Abbiamo pensato di lavorare su una regia precisa, con poche inquadrature. Tra l’altro prima parlavo di tempo “blindato”. Ecco, parallelamente, ho cercato di blindare la regia: e mi sono portata a casa, per così dire, quello che volevo, il risultato che mi interessava. Nel documentario, se non sei contento di alcune cose, ci puoi comunque ritornare; qui, invece, sarebbe stato impossibile, la responsabilità era maggiore.

E adesso, cosa farai?

Non lo so, ci sto pensando. Sicuramente c’è tanta voglia di continuare a fare documentari, ma al contempo di provare strade più ibride, quindi anche spostare più avanti la ricerca iniziata con Le ultime cose. Anche da un punto di vista produttivo, intendo: magari con piccole produzioni, più dilatate nel tempo, quello che un po’ riesce a fare Pietro Marcello. Riuscire a essere più padroni dell’aspetto produttivo è fondamentale.

Pietro Marcello. Altri nomi di registi che apprezzi? Tra l’altro, nei tuoi master di cinema, hai studiato con Marco Bellocchio, Alina Marazzi, Daniele Segre…

Direi che Segre, non tanto da un punto di vista formale o estetico, ma proprio su un piano esistenziale, è stato determinante: mi ha fatto capire che davvero volevo fare documentari. È anche un “provocatore”, una persona non facile, ma ti fa capire che, se vuoi fare una cosa, la devi volere in modo molto profondo. La fabbrica è piena è nata subito dopo il corso con lui. C’era anche Bellocchio, ma la sua era più che altro una supervisione artistica, con lezioni più teoriche, quindi come insegnante ha lasciato meno il segno. Alina Marazzi è stata fondamentale per il lavoro con gli archivi. Per quanto riguarda, invece, gli autori che più apprezzo, posso dirti senz’altro Lucrecia Martel, Pablo Larraín, ma ce ne sono tanti. Pietro Marcello lo adoro per la sua libertà. È riuscito a creare una sorta di corrente in Italia, è un innovatore. Sicuramente, poi, trovo straordinario Garrone. È un vero regista. Perché, nonostante la posizione conquistata, non è mai uguale a sé stesso, continua a sperimentare, a ricreare, a cercare forme nuove. Kubrick resta la vetta insuperabile, d’accordo, ma secondo me Garrone ha un po’ di quello spirito.


Filmografia :

La fabbrica è piena. Tragicommedia in otto atti (Irene Dionisio 2011)

Le ultime cose (Irene Dionisio 2016)

Sponde. Nel sicuro sole del Nord (Irene Dionisio 2015)

Zorba il greco (Alexis Zorbas) (Michael Cacoyannis 1964)