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La mano è la macchina da presa più perfetta che esista in natura. Lo è non solo per la sua presa di precisione (che è stata la prima caratteristica che ha distinto l’uomo dal resto degli esseri viventi), ma anche perché il contatto della mano con l’oggetto preso proietta una sua immagine nel buio del cervello. Questa proiezione scatena connessioni con altre immagini: è la capacità dell’uomo di immaginare e di formulare progetti. L’uomo è quindi naturalmente portato a pensare cinematograficamente e a creare con il lavoro delle mani. Tutto questo processo viene ripreso nell’ultimo film di D’Anolfi e Parenti, Spira Mirabilis, presentato a Bari durante la quinta edizione di “Registi fuori dagli scheRmi”, con ospite Massimo D’Anolfi.


Vorremmo partire dalle parole dell’indiano d’America poste al centro del film, che sembrano quasi avere valore programmatico, come se fossero una traccia da seguire per il vostro lavoro. L’indiano dice che gli uomini bianchi sono senza occhi e senza orecchie. Proseguendo, insinua un paragone con la civiltà indiana e dice: se osservi un pioppo ti può insegnare, attraverso le stagioni dell’anno, come condurre la tua vita. È un insegnamento che noi occidentali effettivamente abbiamo disimparato, per noi un albero è un albero, e non ha nulla da insegnarci. L’osservazione e l’ascolto hanno un ruolo fondamentale nel vostro lavoro: come fare a mettere in relazione il vostro cinema con uomini che non hanno gli strumenti, ovvero occhi e orecchi, per poterlo interpretare?

Noi crediamo che bisogna cercare nuove strade per raccontare. Noi lo facciamo attraverso il cinema, altri attraverso la scrittura, la pittura, la musica. Noi crediamo che esista realmente una minoranza resistente, non una minoranza identificabile con una comunità, piuttosto una minoranza sentimentale, composta da persone connesse tra loro da un comune sentire. Noi crediamo che bisogna smetterla con l’oppressione di questa connessione e riconciliarsi con il mistero. Non esistono le cose già date, le cose richiedono fatica: quando decidi di leggere I fratelli Karamazov o L’uomo senza qualità sai che andrai ad affrontare un percorso faticoso che ti porterà via due o tre settimane della tua vita. Intraprendi questo percorso perché sai che ti darà tanto, ma sai anche che dovrai a tua volta dare tanto. In letteratura questo scambio è accettato, mentre nel cinema spesso no – nel cinema inteso da pseudo giornalisti o pseudo critici come mero intrattenimento o identificazione. Un film che richiede, se non fatica, almeno impegno fa paura. Noi di questo non abbiamo paura, noi crediamo che le persone debbano impegnarsi, essere attive, avere uno sguardo critico.

Al tempo stesso riteniamo Spira Mirabilis sia un film semplice, molto chiaro, senza nulla da interpretare. Per noi il documentario non è la realtà, noi attingiamo alla realtà, trasfiguriamo la realtà, ci nutriamo della realtà. Se proprio vogliamo trovare un senso, è un film dove tutti fabbricano qualcosa.
Nei nostri lavori precedenti abbiamo sempre messo in scena un conflitto, quello tra l’uomo e le istituzioni, tra l’uomo e il potere. Con Spira Mirabilis abbiamo tentato di fare una cosa assolutamente anticinematografica, eliminare il conflitto – sebbene siamo consapevoli che l’atto di filmare sia un atto violento. È un film a misura d’uomo, che cerca di riconciliarsi con l’umano e che nasce dopo Materia oscura. Noi iniziamo un film dove finiamo il precedente e cerchiamo di metterli in continuità e in conflitto l’uno con l’altro. Come nell’ultima scena di Materia oscura, girata di notte, si vedono dei missili che illuminano il cielo e il mare e che si inabissano nelle acque apparentemente incontaminate della Sardegna, così nella prima di Spira Mirabilis, sempre girata di notte, si vedono lampi in lontananza, altri fuochi in cielo, e una donna sacra che racconta a sua nipote una cosmogonia in lakota (una lingua dei nativi americani, ndr).

Dopo Materia oscura, che è un film sulla cecità dell’uomo e sulla sua tendenza a distruggere le cose, volevamo farne un altro che guardasse alla parte creativa dell’umano. Dopo un film sulla morte, ne abbiamo fatto uno sull’immortalità, intesa come tentativo di lasciare qualcosa dopo di sé attraverso la ricerca, il lavoro e il lavorio sulle cose. Per noi è evidente l’idea di infinito che c’è nella costruzione di una cattedrale fatta di pietra come nella costruzione di uno strumento musicale che suona grazie all’aria intrappolata al suo interno, come è evidente nel fuoco della resistenza di una micro comunità che si oppone allo sterminio o nell’acqua in cui infinitamente risorgono microrganismi... Se qualcuno non riesce a vedere queste cose, per noi evidenti, non è un problema nostro.

Prima dicevi che l’atto di riprendere con la telecamera è un atto violento. Vi ponete dei limiti quando girate un film?

Citiamo sempre due aneddoti di Kieslowski, uno connesso all’altro. Nel 1979 alla stazione ferroviaria di Varsavia compaiono degli armadietti per il deposito dei bagagli. Kieslowski nota che le persone provenienti dalla campagna restano un po’ basite e impacciate dinanzi a questi armadietti creando a volte dei piccoli siparietti comici. Allora posiziona la camera in un punto lontano dagli armadietti e la lascia accesa a filmare per ore, nell’attesa che la scenetta buffa accada. Una sera, dopo alcuni giorni di riprese, tornando a casa trova tutto in subbuglio: qualcuno ha trafugato le pizze di pellicola. C’è ancora il regime comunista in Polonia e lui è abituato ad avere a che fare con la censura, ma per quel film ha ottenuto tutti i permessi e non capisce cosa possa essere accaduto. L’indomani viene prelevato dalla polizia e condotto in commissariato e lì scopre il motivo della perquisizione: in uno degli armadietti della stazione è stata ritrovata una valigia con al suo interno un cadavere tagliato a pezzi. Il solo pensiero che una persona, per quanto colpevole di un delitto mostruoso, potesse andare in galera per una sua immagine, mette in crisi Kieslowski, che pensa addirittura di non fare più cinema documentario.

Poi c’è un altro aneddoto: Kieslowski fa un film su una giovane coppia che cerca una casa popolare in Polonia. Per avere una di queste case bisogna seguire una trafila burocratica abbastanza complicata, tant’è che questa coppia ha ricevuto già due rifiuti. Kieslowski continua a filmare la loro quotidianità finché arriva il momento in cui i due ragazzi possono tornare a chiedere una casa popolare per la terza volta: e ci riescono, ma ancora Kieslowski resta atterrito, perché sospetta che abbiano ottenuto la casa solo per la presenza, di nuovo, di una telecamera, come se i funzionari statali si siano sentiti costretti a dare un lieto fine al film che sta girando. Kieslowski si sente anche in colpa, perché pensa a tutti coloro che non può filmare e che non possono ottenere una casa.
Noi teniamo sempre a mente questi due aneddoti che ci mettono in guardia sul potere della telecamera; detto banalmente, cerchiamo sempre di dare dignità e bellezza (intesa non in senso estetizzante) alle persone che filmiamo.

altSpira Mirabilis sembra evocare un lavoro di ricerca di Warburg, Il rituale del serpente, dedicato ai riti degli indiani Hopi. I punti in comune con il film sono molti: le spire del serpente sono metafora della ciclicità della natura, la sua capacità di cambiar pelle è vista come simbolo della possibilità di rigenerazione; Warburg, poi, è da considerare forse il primo tra i più grandi montatori di fotogrammi, e il vostro film è in costante ricerca delle connessioni tra le immagini più disparate. E al termine del suo saggio Warburg individua nell’uomo bianco americano il grande distruttore della spiritualità, colui che ha domato con il serpente di rame di Edison (il cavo elettrico) il fulmine, serpente elettrico e simbolo della forza della natura: «la civiltà delle macchine distrugge ciò che la scienza naturale derivata dal mito aveva conquistato: lo spazio per la preghiera, poi trasformatosi in spazio per il pensiero» (Warburg, p. 66). In Spira Mirabilis, invece, i ricercatori scientifici (e penso anche ai due costruttori di strumenti musicali, in costante ricerca della vibrazione che meglio rispecchi il suono della vita) sono anche dei mistici: il cinema, invenzione della tecnica e dell’elettricità, diventa paradossalmente quello spazio del pensiero che manca nel tempo attuale?

Il mio primo rapporto con una telecamera è coinciso con il tentativo di distruggerla: il mezzo tecnico è solo uno strumento, la cosa fondamentale è l’uso che ne fai. Il cinema ha per noi un potenziale ancora inesplorato.
Ho avuto la fortuna di vivere a Napoli nei primi anni Novanta e ho lavorato nei laboratori di Antonio Neiwiller, un grande attore e artista napoletano, che ha scritto una cosa bellissima, una sorta di inno per un teatro clandestino in cui diceva che in questo eterno presente da imbecilli bisogna far convivere due aspetti, il mistero e la politica, perché il silenzio da solo è muto, la politica da sola è cieca. Il cinema a nostro avviso ha a che fare con il mistero, nonostante l’artificio: nel caso dei nativi americani è evidente, perché qualsiasi discorso fatto da Moses (il capo indiano del film) aveva una pregnanza, una forza, perché aveva conquistato la retorica. Quando guarda un albero e dice: «questa notte ci sarà un temporale e noi abbiamo paura, mentre gli uccellini su quell’albero non ne hanno», dice una verità, ovvero che il paesaggio è composto da tante cose e al suo centro non c’è l’uomo. L’uomo è uno degli elementi del paesaggio, ed ogni elemento è in connessione con l’altro. Noi cercavamo questo nel film: la riconciliazione dell’umano passa attraverso la consapevolezza che non esiste solo l’umano e la capacità di guardare oltre l’umano. Per far questo si ha a che fare per forza con il mistero.

E la politica?

Nei nostri film la politica c’è sempre, anche nel metodo con cui lavoriamo, ora sta emergendo l’artigianalità. Un altro elemento politico è che nei nostri film ci sono sempre una crepa, una rottura, che sono come delle rivolte allo stato delle cose. Alla fine di Spira Mirabilis le parole del capo indiano sono validissime per il futuro quando dice: «voi tutti ricordate Cavallo Pazzo come un grande combattente, ma io oggi non voglio celebrare quell’uomo, bensì quell’uomo che non avrebbe voluto combattere, che odiava la guerra». La vera felicità si avrà quando non ci si ricorderà delle generazioni precedenti, perché ci si ricorda principalmente delle guerre. E in più dice: «Io però voglio ricordare quell’uomo libero e coraggioso». Nella memoria, nella libertà e nel coraggio ci sono le tracce del film che vorremmo fare.

Sulla Resistenza?

Noi facciamo dei film sentimentali, con delle connessioni sentimentali: sentimento del tempo, della dignità. E quindi i gesti di resistenza ci hanno sempre affascinato.


Bibliografia

Warburg A. (1998): Il rituale del serpente, Adelphi edizioni, Milano


Film citati di Massimo D’Anolfi – Martina Parenti

Materia oscura (2013)

Spira Mirabilis (2016)