Da che gli avventurosi pionieri del gruppo di Brighton e, una manciata di anni dopo, il giovane Griffith ebbero l'intuizione delle possibilità espressive della frammentazione; da che iniziarono a suddividere lo spazio unitario dell'immagine nelle sue molte inquadrature parziali, e il montaggio da mera pratica sommativa si è dischiuso nelle sue infinite possibilità di senso ed emozione, la questione fondamentale per cineasti e critici è diventata e sempre resterà quella della significazione cinematografica.

 La storia del cinema è anche la storia dell'individuazione e dell'utilizzo di quelle strategie d'uso degli strumenti linguistici caratteristici della settima arte, le qualità fotografiche e luministiche del fotogramma, quelle ritmiche e spazio-temporali del montaggio, che permettessero narrazioni sempre più complesse, e un grado crescente di penetrazione psicologica nel personaggio, di espansione emozionale di quella che altrimenti sarebbe un'algida esposizione documentaristica di un succedersi di eventi. Il senso e l'emozione si incorporano nella forma. Con l'aggiunta del suono (il colore nelle modalità primordiali della colorazione manuale, viraggio e mordenzatura, imbibizione, pochoir ecc. già esistevano) il cinema diventa una sorta di dispositivo organico vibratile, un perfetto strumento sensibile per la transcodifica percettiva di umori, pensieri ed emozioni in cromatismi e luci, ombre e tagli dell'immagine, primi piani e dettagli che diventano luoghi di materia densificata, di emozione sensorialmente leggibile.

Ne parlo perché è sfrucugliando alla rinfusa tra la cianfrusaglia di questo riflettere che mi è sorta la necessità di scrivere di The First Shot, l'esordio al lungo formato dei due di La Tomba del Tuffatore, (2016), Yan Cheng e Federico Francioni, che quest'anno a Pesaro guadagnano addirittura il Premio Miccichè per il miglior film.
Il fatto è che in questo documentario atipico, virato sull'espressionista (non in quanto a immaginario ma certamente in quanto a pregnanza significante della deformazione stilistica) ritrovo un bisogno di scoperta del linguaggio e un legame di necessità tra scelte stilistiche ed emersione del senso che mi ricorda, con le debite proporzioni (che Griffith sempre Griffith rimane), i film di quegli antichi pionieri, che sperimentavano le differenti soluzioni stilistiche in ragione delle rinnovate necessità narrative ed emozionali che il film nel suo evolversi poneva. E proprio come in quei tempi di esplorazioni del mezzo, in cui si scoprivano mano a mano le possibilità ottiche della pellicola e degli obiettivi e si fondavano le estetiche dell'immagine a partire dalle qualità fotochimiche e ottiche di questo o quel supporto, Federico e Yan creano una autonoma drammaturgia dell'iconico a partire da ben specifiche qualità di resa del mezzo tecnologico di cui si servono, l'I-phone, il Grande orwelliano Fratello mediatore d'ogni immagine, con le sue ben riconoscibili qualità di resa cromatica e luministica, di schiacciamento della profondità, “pixellatura”, e tutto il resto.

Credo che il valore più evidente di questo film sia l'evocazione, l'evocazione di una solitudine, di una lontananza apneica o di un isolamento, che dir si voglia, che non si ritrovano in nessuno degli elementi contenutistici del film, che non sono, o che sono solo in parte, promananti dalle parole dei tre giovani cinesi che vengono intervistati, o dalla “storia” in senso lato. Un surplus di emotività quasi indicibile, perché non riposa nel “cosa”, nel descrivibile della trama, del contenuto e delle chiare parole, ma nel “come”, nei modi della messa in immagine e in sequenza, nelle cromie e nelle sfocature. La struttura espositiva di per sé è volutamente piana: un soggiorno in Cina e tre interviste ad altrettanti giovani cinesi che raccontano le loro diverse strategie di eversione e resistenza umana nei confronti del sistema di controllo onnivoro che il governo ha allestito onde evitare ogni possibile rischio Tienammen a venire. La resistenza militante e informatica di Peng, l'isolamento intellettualista e un po' decadente di Liu Yixing, o la strategia della fuga di You Yiyi, che è scappata a studiare all'estero, sono solo tre degli infiniti percorsi di resilienza possibile scelti quasi per caso dall'obiettivo di Federico e Yan, che li incontra evitando le sottolineature drammatiche e l'effettistica emozionale marcata (intensi e drammatici primi piani, tagli di luce studiatamente enfatizzanti, dettagli delle labbra o degli occhi in coincidenza di parole particolarmente forti, et similia). Non c'è disperazione in questo film, come dicevo è più che altro questione di solitudini che non si incontrano, di raccontare un sentore che non è propriamente melanconia, ma che gli somiglia per esserne la declinazione alienata e megalopolitana, l'umore acqueo e bigio dell'isolamento e di un tempo aprospettico, che spira immobile. I lessemi manifestativi di questo senso di deriva sono di ordine squisitamente stilistico.

Innanzi tutto una struttura espositiva che induce la rappresentazione immaginativa dell'isolamento. Gli unici brani parlati del film sono le interviste ai tre protagonisti,  e la struttura narrativa si accorpa nei tre blocchi corrispondenti. Questi tre momenti verbalizzati coincidono con le tre sole occorrenze in cui si manifesti la presenza umana ocularizzata e auricolarizzata in maniera primaria, con consistenza di presenza reale che “occupa” il nostro ascolto e la nostra visione come oggetto di attenzione specifica. Tutto il resto è attestazione della non-presenza megalopolitana, o della solitudine frinente dei campi. I nostri giovani registi al montaggio, in quella fase cioè in cui si definisce in maniera definitiva il tenore e la struttura della narrazione, scelgono di dissipare la continuità di questi frammenti a contenuto umanizzante, separandoli con lunghe pause, quasi a restituire un'idea di discontinuità della presenza, di non possibile com-presenza.

Tra un brano parlato e l'altro scorrono ellissi discontinue, di sospesa temporalità con scorci metropolitani ostinatamente immobili e deserti, lenti travelling della mdp sulle notturnità giallognole dei vicoli, buio, macerie, tramonti lividi di gas, gente intenta al non esistere quotidiano, o i campi silenti dell'ultimo episodio, momenti di pura afasia visiva, che alla parola parlata sostituiscono le forme varie del silenzio-assenza dell'uomo: il silenzio metropolitano abitato dai mille prodotti sonori del traffico e delle attività industriali o edilizie, in cui la sola forma della voce è quella incomunicante del vociare indecifrabile delle masse, e quel silenzio speciale che invece è dei campi solamente, abitato di friniti e gracidii lievi, dallo stormire delle spighe che si inchinano al vento. Queste pause in quell'attestazione di presenza dell'umano che si manifesta nella parola parlata e nell'immagine ravvicinata del corpo (le interviste si contrappongono agli “intermezzi” che le separano per l'uso di campi decisamente più ravvicinati) contribuiscono a restituire allo spettatore l'idea della separatezza, dell'isolamento di quelle presenze parlanti, di quei corpi separatamente spersi nel mare magnum della metropoli, in maniera ben più efficace di come lo avrebbe fatto un montaggio contiguo o alternato dei vari contributi, più funzionale a instillare l'idea di una continuità, o di una possibilità di relazione dialogica tra i diversi soggetti.
Francioni, tempestivamente interpellato via sms a riguardo non fa che confermare:

«se avessimo lavorato su una continuità la percezione sarebbe stata diversa; e anche su Yiyi (la protagonista dell'ultimo episodio, ndr.) l'idea era proprio di allontanarla e avvicinarla alla casa dei nonni. In modo un po' involontario, abbiamo preso un ritmo di lavoro con Yan Cheng per cui le fasi sono divise in modo abbastanza contraddittorio. Quando siamo sul campo cerchiamo delle possibili continuità, dialoghiamo con i nostri personaggi, lavoriamo sulla presenza, proviamo a raccontare le situazioni in modo completo - anche quando parliamo, per esempio, cerchiamo di non avere mai solo un'inquadratura. Poi in montaggio è l'esatto opposto, frammentiamo lo spazio, troviamo una distanza, e creiamo un discorso che c'era sempre stato, ma che sul campo non riusciamo a fare in modo troppo netto, precludendoci la possibilità di scoprire qualcosa di possibile.»

Va da sé poi che quando Federico allude a un «discorso che c'era sempre stato, ma che sul campo non riusciamo a fare in modo troppo netto» e che emerge col montaggio, col trattamento formalizzato della realtà,  ci indichi proprio quel surplus di senso a induzione stilistica che è la ragione prima di questo articolo e ancor più pertinente con la nostra ipotesi sembra il fatto di ancorarne la genesi a un procedimento stilistico e formalizzante come il montaggio.

Anche certe modalità della messa in immagine contribuiscono ad accentuare la percezione nello spettatore del senso di isolamento dei protagonisti, bisognerà però a riguardo tenere distinti i primi due episodi, che hanno analoga struttura d'esposizione ed ambientazione metropolitana, dall'ultimo, quello che ha per protagonista Yiyi, l'unica ragazza, che invece si svolge nelle campagne della provincia dell'Hubey. Peng, nel primo brano, dopo aver seguito per un po' i lavori di demolizione  di un edificio è ritratto in una serie di figure intere, Totali e primi piani che lo mostrano nel silenzio della sua casa mentre fa le pulizie o accudisce i suoi gatti, cammina per strada o scrive degli appunti. Tutto avviene nella totale assenza di interazioni con altri individui e nel silenzio della casa, abitato unicamente dalle mille voci della metropoli, che filtrano da fuori, e dal soffio ipnotico e regolare del ventilatore.


Liu Yixing, secondo intervistato, osserva uno sky-line metropolitano in certi campi lunghi dipinti di blu-grigi notturni, in cui solo la notte risuona, oppure sonorizza alcune sequenze che proietta sui muri nel chiuso monacale del suo appartamento di grattacielo, in muti piani ravvicinati, primi e primissimi piani, guarda fuori da finestre irte grate verso un paesaggio di altre finestre identiche con uguali grate su palazzi identici al suo, suona la chitarra, guarda altri film sul muro. Di nuovo tutto si svolge in una sorta di vuoto acustico in cui solo i rumori della città e l'audio dei film che proietta sembrano abitare il mondo e di nuovo tutto succede nella mancanza di interazioni umanizzanti, di scambi emozionali. Devo ammettere che di solitudine assoluta non si possa parlare, nel senso che le due interviste, per come si svolgono, implicitano la presenza di un istanza ascoltatrice, gli intervistatori, presente nello stesso spazio, specialmente «Peng Haitao, il primo ragazzo» come sottolinea Federico: «parla esplicitamente con noi, ci dice “taglia, basta, non trascinatemi in questo stato” anche se noi per pudore preferiamo sempre escluderci dal campo» ed è innegabile che il film stesso sia nato da un'interazione umana profonda tra i due autori-registi e i personaggi:   «siamo entrati nella sua stanza, nella sua crisi e solitudine notturna (parlando ancora di Peng, ndr).

E per Liu Yixing non erano vere e proprie interviste, non dialogava con noi in scena, diciamo, ma noi eravamo con lui, abitavamo nello stesso spazio», quindi il radicamento profondo sta nella com-presenza e nell'interazione tra i soggetti, ma nonostante questo nel livello della messa in immagine si invera un senso di profonda solitudine che promana allo spettatore dai lunghi silenzi, in cui gli intervistatori si danno come semplice istanza osservatrice, oggettiva, e i personaggi sono colti nel solipsismo muto delle loro azioni quotidiane, dai lunghissimi campi di paesaggi metropolitani che inabitati sembrano perdersi all'orizzonte e, ovviamente, dal fatto che gli intervistati siano  le uniche presenze ad abitare tutte le inquadrature in interno.  
Quindi per quanto la connotazione non sia del tutto intenzionale, come chiarisce ancora Francioni: «le prime due conversazione, non direi che siano state fatte con l'intento di connotare i due personaggi nella loro solitudine. E' vero che non ci sono domande, ma la nostra presenza c'è, siamo lì con loro» l'esito per lo spettatore è quasi certo, perché salderà il senso di isolamento derivante dalla struttura espositiva “a blocchi”, che separa le presenze umane, con quello che gli proviene dai contenuti visivi, dai quadri sovraffollati solo di solitudine, in una rappresentazione dei personaggi in cui questi aspetti incomunicanti, di isolamento totale, risultano sottolineati, percepiti con più nettezza: «Peng Haitao rimane da solo nella sua crisi, col suo brodo bianco che gli ha preso tutto il pomeriggio, il gatto, e poco altro. E lo stesso si può dire per il secondo, che dice di voler restare lì e si dissolve nel fiume». 

Come dicevo il terzo episodio quello che ha per protagonista la sola ragazza, è in parte diverso da questi primi due, per l'ambientazione campestre, innanzitutto: «l'idea era proprio di allontanarla da tutto e introdurla a quella dimensione separata che sono la campagna e la casa dei nonni» e per il fatto che Yiyi, così si chiama la protagonista, è raramente sola in campo, e instaura continue interazioni interpersonali con vari altri soggetti. La percezione dell'isolamento, in questo episodio, arriva allo spettatore più per via comportamentale, riguarda le sue reazioni durante queste interazioni, che non dal trattamento stilistico. I lunghi anni di permanenza all'estero sembrano aver prodotto in lei un'evoluzione delle forme del pensiero e dei riferimenti culturali che non permettono più una base di condivisione sufficiente a instaurare con familiari e parenti, che restano ancorati a un quadro valoriale di tipo locale e tradizionale, una comunicazione completa e una soddisfacente qualità delle interazioni :«per quanto riguarda Yiyi, sicuramente il dispositivo cambia, e quando la mettiamo in relazione con i suoi parenti è proprio per cercare di capire quanto sia cambiata ormai. Anche nel suo caso, ci fermavamo ogni tanto a ragionare, scambiare idee. Una sera, rientrando dal villaggio, ci siamo fermati in un piccolo posto sulla strada e abbiamo iniziato a parlare dell'esperienza vissuta. E' lì che ci ha detto l'ultima frase, sul futuro e il passato».

Continuando nel nostro percorso discorsivo che ricerca nelle deformazioni dello stile l'emersione del senso converrà parlare delle molte blurred pictures di The First Shot.  Molte sono le immagini sfocate, nebulose, appannate, o in qualche modo indefinite in questo film, vuoi per la bassa resa della definizione dell'Iphone in condizioni di scarsa luminosità, vuoi per l'uso studiato di lenti o filtri. Le statue in apertura, iper cromatizzate dalle luci rosse e blu, si danno all'occhio in tutta la sgranatezza della bassa definizione, e poco dopo le strabilianti immagini del temporale in slow motion su piazza Tienammen si dissolvono in una visione svaporante e nebbiosa, quasi onirica. Luci sfarfallanti e fuori fuoco animano il buio di iridescenti e indefiniti aloni, globi di baluginii multicolore, scie come fantasmi, a volte è la notte, che scorre sfocata e scolorita nelle giallastre immagini del cellulare, popolando lo schermo di incerte figure, di morfologie irriconoscibili che sfilano coi contorni slabbrati dal muoversi dell'obiettivo. C'è, sopratutto nelle scene in esterno che ritraggono la città della prima parte, nelle pause di assenza, come le abbiamo definite, una sorta di estetica di ottundimento della visione che rimanda per inferenza all'esistenza appannata, ottusa, dei protagonisti. Nel senso che poi per lo spettatore la somma di queste immagini imperfette, di un mondo non messo a fuoco lascerà il ricordo di una diffusa non definizione, di una opacità generale, che si associa facilmente alla condizione esistenziale  di “fuori fuoco permanente” dei giovani cinesi.

Nel secondo episodio,  la questione riguarda maggiormente la costruzione figurale del fotogramma. Qui le immagini si stagliano tutte con nettezza, e sfruttando proprio questa nitidezza delle linee, questa precisione del tratto, Yan e Federico costruiscono una significativa fenomenologia del visivo geometrico che, forse involontariamente, connota ulteriormente nel senso dell'isolamento. La scena è infatti ambientata ai piani alti di un grattacielo, nell'alloggio di  Liu Yixing le cui ampie finestre, interamente ripartite in rigorosi riquadri simmetrici da numerose sbarre a grata, danno su altri grattacieli simili, ugualmente ripartiti dalle finestrature in segmenti rettangolari. La figura del protagonista, comunque la si riprenda, appare sempre come stretta d'assedio da questo proliferare geometrico, sempre circondata da un affastellamento costringente di linee ortogonali che la inquadrano in ripartizioni  di spazio sempre più piccole. In alcune inquadrature guarda fuori dalla finestra sbarrata, come in cerca di spazio o di fuga, e ogni via d'accesso risulta sbarrata, nel senso letterale di “con le sbarre”, ingabbiata e ingabbiante, preclusa. Tutta un'estetica di controluce spettacolari e linee geometriche ippertrofiche che sembra uno spettacolo d'ombre cinesi. E di nuovo a partire da un fatto strettamente stilistico, da questo trattamento iperfigurale dell'immagine che geometricamente si ripartisce e si intrica internamente, Francioni e Cheng ottengono il risultato, non si sa quanto volontario, di sovrascrivere alla mera narrazione dell'intervista nel suo svolgersi un sovratesto emozionale e significante, che orienta il lettore verso la percezione, nuovamente, di un senso di prigionia, di isolamento ritornante nelle molteplici sbarre e grate che si frappongono alla libera visione. Ancora il senso che si concreta nella forma.

In molti descrivendo The First Shot parlano di «sospensione» o «tempo sospeso», di «dilatazione temporale» ecc., e in effetti la sensazione complessiva che trasmette è quella di una temporalità immobile, di un destino di questi giovani che non si avvicina e non si allontana, di un rallentamento dell'evolversi delle vite che ha qualcosa di innaturale. L'attenzione cade nuovamente sul livello stilistico-formale, che, come noto, ha “immani” poteri di dilatazione o restringimento della percezione di durata degli eventi e di creazione di dissimmetrie tra tempo reale, tempo diegetico e tempo percepito. La clamorosa scena del temporale si svolge tutta in una rallentatissima slow-motion, la traiettoria d'ogni più minuta goccia d'acqua, ogni minimo gesto dei molti corpi presenti in ogni inquadratura si svolge con una lentezza tendente all'immobile guadagnando un'espansione temporale di effetto epicizzante e spettacolare corroborato da quella sognante visione di vapori di cui dicevo poc'anzi (e che Francioni, aneddoto sapido, mi dice essere del tutto non programmata e dovuta all'appannamento casuale dell'obiettivo del telefonino con cui stavano riprendendo), la metropoli notturna si attarda enormemente a scorrere in travelling ipocinetici, sfila nei fotogrammi quasi immobile con le sue illuminazioni livide o lattiginose, e certi giochi fosforescenti delle insegne riprese dal fiume durano pochi attimi che non sembrano finire mai. Nella prima e seconda parte del film c'è una sorta di magniloquenza della lentezza, che principalmente riguarda gli scorci della metropoli, come a cristallizzarne il connaturato e frenetico brulicare, una ritornante vertigine di espansione del movimento nel tempo che enfatizza, rendendole leggibili grazie al rallentamento, le molteplici componenti cinetiche dei fotogrammi, in una sorta di balletto dinamico degli elementi di visione. Ma al cinema il movimento è tempo, durata, effettiva e percepita. Avviene così che il rallentamento dei tragitti cinetici, dei tempi di esecuzione dei movimenti, venga avvertito dagli spettatori in termini di percezione cronologica, e quindi come un rallentamento, una espansione della naturale durata del tempo, che poi è quanto andavamo cercando nella percezione diffusa che si ha di The First Shot, la sensazione di tempo sospeso di cui molti parlano.

Chiudiamo, come da prassi, ritornando sull'ipotesi inizialmente aperta e lasciata in sospeso, quella della relazionabilità tra senso e statuto tecnologico dei dispositivi utilizzati, forti delle consapevolezze maturate con l'analisi. Avendo squadernato, almeno in ipotesi e in parte,  l'universo d'immagine di The First Shot, possiamo capire quanto l'amato\odiato Iphone, adottato come mezzo di ripresa per la necessità carbonara del dover schivare qualsiasi solerte attenzione poliziesca, abbia nella genesi dei suoi aspetti strettamente, iconici un ruolo fondante. Suoi colori slavati e poco accesi riconoscibili nelle situazioni di ripresa a scarsa luminosità e i contrasti nettissimi con cui si stagliano dal nero le mille insegne e i neon colorati, che sono due coordinate del vedere che finiscono per diventare le cifre riconoscibili, le marche stilistiche che individuano la notturnità di questo film, una notte “color Iphone”. La stessa cosa può ripetersi per molti effetti di sfocatura, che dipendono dalla lentezza dei tempi di aggiustamento del fuoco automatico dello strumento, dalla sua scarsa capacità di definizione e contrasto nelle riprese buie omogenee e dalla poca capacità di calcolo che offre, che ovviamente si traduce in immagini dalla bassa definizione (almeno rispetto agli standard professionali), tutti difetti, secondo i puristi della “Crusca cinematografica”,  che invece Francioni e Yang rifunzionalizzano alla creazione di quell'impressione di sfocatezza ottundente delle vite dei protagonisti di cui abbiamo lungamente discusso in questo articolo. La potenza pittorica di certi fotogrammi dipende almeno in parte dalla possibilità di una loro lettura come superfici piane, disegni, che viene estremamente facilitata dalla scarsa capacità che ha il noto smartphone di rendere la profondità, la sua tipica immagine piatta. Tecnologia, emozione, stile.

Mi sembra infine, di avere motivato quella suggestione griffittiana e pionieristica che in apertura avevo attribuito a The First Shot,  e che certo in prima battuta sarà sembrata quantomeno incauta, di aver ritrovato in questo piccolo film quelle stesse ragioni di stretta necessarietà delle scelte espressive e quel legame di causalità tra livello tecnologico e livello stilistico del film, che si ritrova nelle opere storiche e sperimentali dei primi cineasti.


Filmografia

La Tomba Del Tuffatore, (Federico Francioni, Yan Cheng, 2016)

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