La prima sequenza-manifesto de Il Cratere è una esplicita dichiarazione d’intenti.
Abbiamo una ragazzina di tredici anni, Sharon Caroccia, intenta a ripassare ad alta voce una lezione sul “verismo”, mentre contemporaneamente esegue, con fare svogliato e meccanico, i movimenti di una coreografia. Uso emozionale della macchina a mano, messa a fuoco stretta sulla protagonista, parole e gesti che tradiscono aspirazioni e desideri in conflitto.

 
Si tratta solo di poche inquadrature e di una manciata di battute, che tuttavia contengono in nuce alcuni dei tratti essenziali del film. La descrizione del movimento letterario dell’Ottocento, in primis, serve a Silvia Luzi e Luca Bellino, cineasti chiaramente provenienti dal documentario, per affermare la poetica e l’estetica del loro fare cinema: il Verismo – afferma Sharon allo specchio, col suo spiccato accento partenopeo – “racconta della realtà e di com’è fatta. Ha una caratteristica: non dà giudizi. Si raccontano sofferenze e sacrifici, vincitori e vinti perché chi nasce vincitore rimane vincitore e chi nasce povero rimane povero”. Andando avanti, la ragazza ripete anche una lezione sul realismo francese, forma letteraria in cui si pone l’accento sull’analisi dei luoghi, prediligendo - come nel cinema di Luzi e Bellino - il reale al romanzato. Il reale, appunto. È la densità concreta del vivere, infatti, la materia alla quale i registi attingono, provocando un corto circuito aperto tra verità e finzione: attori non-attori che interpretano se stessi, inseriti nel loro ambiente per raccontare le loro storie, utilizzando la lingua corrente del vissuto quotidiano.

Il cratere è un film cucito addosso ai suoi protagonisti: Sharon e Rosario, il padre-Pigmalione che riconosce nel talento della figlia una “miniera d’oro” e per questo sogna di trasformarla in una diva del neomelodico. Senza accorgersi che Sharon vorrebbe invece per sé una vita normale. La scuola, le amiche. Niente giudizi, però. Perché la deriva di Rosario, perso nel tunnel di un’allucinazione, non avviene certo per crudeltà gratuita, ma piuttosto per il desiderio di garantire un futuro alla famiglia. Il moto di un uomo generosamente disponibile al sacrificio, che pretende in cambio uno spirito di abnegazione che non gli è dovuto. Sofferenze e sacrifici, vincitori e vinti. Appunto.

Luzi e Bellino descrivono i fatti e la verità di un milieu popolare: una famiglia numerosa in un interno angusto dell’hinterland napoletano, ai piedi del Vesuvio che non vedremo mai, impegnata a sbarcare il lunario girando i luna park e le fiere regalando pupazzi di peluche a chi pesca il numero fortunato alla lotteria. È in questo contesto che si inserisce il racconto, la fiction, il romanzo: una storia di ossessione e fallimento, una parabola sospesa tra il desiderio di riscatto e la perdita della ragione. Poco a poco Rosario Caroccia si smarrisce in una forma di delirio, alienato al punto di non riuscire più a vedere la figlia se non attraverso l’immagine trasmessa dal dispositivo di riproduzione: il telefonino con cui la riprende durante la sua esibizione canora in televisione, le registrazioni accuratamente archiviate e duplicate in formato dvd, il footage che testimonia - come ulteriore inserto di realtà nella finzione - la maniacale dedizione di un padre verso una creatura destinata fin da piccolissima a incarnare un sogno, le telecamere di sorveglianza che la spiano giorno e notte, in qualsiasi angolo dell’abitazione. Quella che Rosario ha davanti agli occhi, non è più sua figlia, ma una proiezione. E in quella stessa proiezione, il sogno è destinato a naufragare, perso forse per sempre in un anelito di libertà.


Articolo tratto dal catalogo della Settimana Internazionale della Critica - Mostra di Venezia