Della morte, non dell'amore
Luigi Abiusi
Più che nei suoi film precedenti il Paul Thomas Anderson del Filo nascosto sembra dedicarsi alla contemplazione della malattia, quindi a quello che, alla fine, è in sé la malattia, cioè la proiezione della morte, ora effettuata sulle pareti a fiori, nel contesto liberty di una decadenza ormai orfana di ogni estenuazione, ogni lirismo. E le musiche da camera (Brahms, Faurè, Schubert) sono il sostegno di questa fotosintesi inversa (altrove parlavo di “alienazione da camera”), per cui la luce di proiezione appassisce, decompone quei fiori sul muro anziché farli gemmare, esalanti così una putrescenza che intacca la pellicola, proprio la sua epidermide, l'atmosfera del film, ora ingiallita, illividita come la carne sfatta di un cadavere.