Della morte, non dell'amore
Luigi Abiusi

Più che nei suoi film precedenti il Paul Thomas Anderson del Filo nascosto sembra dedicarsi alla contemplazione della malattia, quindi a quello che, alla fine, è in sé la malattia, cioè la proiezione della morte, ora effettuata sulle pareti a fiori, nel contesto liberty di una decadenza ormai orfana di ogni estenuazione, ogni lirismo. E le musiche da camera (Brahms, Faurè, Schubert) sono il sostegno di questa fotosintesi inversa (altrove parlavo di “alienazione da camera”), per cui la luce di proiezione appassisce, decompone quei fiori sul muro anziché farli gemmare, esalanti così una putrescenza che intacca la pellicola, proprio la sua epidermide, l'atmosfera del film, ora ingiallita, illividita come la carne sfatta di un cadavere.

Quindi non la morte biologicamente, umanamente intesa, ma quella cinematografica, morte della materia cinematografica (non delle possibilità di fare cinema, ma proprio della sua sostanza nel momento in cui, ancora una volta, ci si mette dietro la macchina da presa), questo sembra essere il fulcro del film, il perno intorno a cui ruota un disamore diffuso verso i personaggi andersoniani da parte del loro creatore, il quale li guarda da una certa distanza, con una certa pena: mi viene in mente il dimenarsi ridicolo e penoso dei protagonisti di Boogie Nights, le loro smorfie di dolore (ma un dolore completamente svuotato di senso), le loro movenze inconsapevoli, ottuse di marionette. È lo sguardo algido del nichilismo passivo in cui oggi sono implicati altri registi che pure restano dei grandi osservatori e affrescatori di "plastiche esteriori": uno su tutti Pablo Larrain il cui cinema così ingiallito, così tumido (come lo erano le salme abbandonate in terra in Post mortem) pare escludere a priori ogni possibilità di sussulto, di poesia, anche solo nell'affermare la nullità del tutto. Sarebbe interessante il paragone con la letteratura, ma richiederebbe tempo e spazio che ora non abbiamo; ma chi ricordi certe pagine sfolgoranti di rude luce di Faulkner o la descrizione di un tramonto africano nel Viaggio al termine della notte, o anche solo la «solitudine della campagna apparita» al termine della Cognizione del dolore, potrebbe farsene un'idea che ammetta un qualche riempimento, un qualche sentimento del nulla.



Delle cose nascoste

Valentina dell'Aquila

«Severin si alzò e indicò la pelliccia con cui Tiziano rivestì la sua Dea»
L.S.M.

La follia resta la questione più sovversiva che si possa porre al giorno d'oggi, diceva Philippe Sollers. Pensava al destinatario di un'opera (nel suo caso letteraria) come a una eventuale madre: i vari lettori sono altrettante madri, o per dirla alla Barthes, quando si dà da leggere qualcosa, in fondo lo si dà da leggere alla propria madre. E la madre vuole il suo folle, vuole del folle.
Il feticismo di Phantom Thread alla realtà preferisce un simbolico che è un fantasma, il materno. L'immagine si struttura sulla punta del fantasma, nell'allucinazione di un linguaggio imperioso, codificato, geometrico. E questa realtà perfetta di Reynolds (Daniel Day Lewis), fatta di ossessive certezze e ruoli, limiti e regole; questa forma organizzata di un sé che ripete e oppone alla catastrofe della variante, il supplizio di un nauseante e immutato adesso; oggetti, cose, collocazioni… La candida difesa del masochismo dalla sua caduta nel reale. E l’amore…gioia di servire, virtuosa dedizione dell’esser premuto sotto un piede: "Io ti voglio completamente inerme, indifeso, tenero, aperto; al tuo fianco devi avere solo me e ti voglio poi di nuovo forte".
La gelida civetteria, il marmoreo incanto, il fluente fruscio dei tessuti, i lucenti abiti che scendono fino ai piedi, il candido incarnato, Alma: un Raffaello, la donna “che adoro, di cui ho paura, dinnanzi alla quale fuggo”. La dovizia materna di sarte tra abiti e pizzi, e, ancora, racconta Anderson, la loro ricerca del“filo fantasma” (da cui il titolo: quella spettrale maledizione delle sarte vittoriane, la sensazione persecutrice di cucire compulsivamente e ripetere i movimenti del cucito, pur avendo terminato il lavoro); Il Filo Nascosto: i messaggi, i nomi, le ciocche tra i tessuti.
Tra fantasmi febbrili, occhi vampireschi e una fame animale (“hungry boy”, dirà Alma), Reynolds Woodcock incarna la morbosa fascinazione del patriarcato, della colonizzazione dell’altro, tra assoggettamenti e resistenze, la macchina dispotica: lamenta e tesse tra guaine di raso, l’edipico fascino del possesso: ora segue e domina silenzioso la sua serva-musa inseducente assenza, ora bisbiglia qualcosa annoiato, borbotta con disgusto, rifiuta e lamenta o cerca sua madre nelle febbri avvelenate: “è come se tornasse bambino, quando è così è tenero, aperto”: torna alla vita intrauterina, rinnova la cosiddetta scena primaria, quell’immagine di terrore e fascinazione del rapporto incestuoso madre-figlio (Reynolds-Alma, Reylonds-Cyril). Le immagini del sonno, della malattia, del delirio febbrile, del vellutato deliquio, sembrano prestarsi e funzionare come forme di questo rassicurante e ristoratore vivere intrauterino, un sentirsi dormire, riposare nell’erotico di una febbre, per citare Artaud: la sanie, il salace della sanie dove il corpo uterino riposa nell’utero della sua malattia.
La casa come un sepolcro di sofferenze, e il passato, un fantasma così vicino (per citare Rebecca di Du Maurier, a cui lo stesso Anderson dice di ispirarsi). Reynolds con le mani eleganti, la sua maschera scolpita, fredda e formale… Eppure in Rebecca si arriva a un momento in cui occorre fare i conti col proprio demone, sconfiggere il tormento che pungola. Forse con Alma? Bellissima nella sua goffaggine da cameriera impacciata e il suo tentativo di risultare gradita, la tenerezza sadica nell’osservarla frustrata (“Mi sento come se ti stessi cercando da molto tempo” le dirà Reynolds all’indomani del loro primo incontro)… O forse Cyril? La sorella-matrigna-mater, così rassicurante dopotutto (come quella ciocca di capelli materni cucita tra il bavero e il cuore)…
In Reynolds c’è un po’ di tutto questo: i precedenti Freddie e Sportello, nell’argomento psicotico-edipico, nelle precipitazioni paranoico-narcisitiche, repressive, il sadismo sublimato, trattenuto, ‘in potenza’, l’amore (reazionario) come balsamo per la nevrosi. Parafrasando L’Anti Edipo: l’immagine modello di Alma madre-fidanzata-amante-sposa-santa-puttana-principessa-cameriera-ricca-povera è, persino nella sua inversione e sostituzione, il canale entro cui scorre il flusso stesso di Edipo.

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Quando la festa finisce, l’amore

Domenico Saracino

Quant’è strabiliante, quando sterrando tra le sinuosità fangose della memoria volatile in cui finiscono, vorticose, le ultime visioni, vi si ritrova – con quanto rinfrancamento poi – l’appiglio roccioso di un’immagine o di un suono che sopravvive allo sgretolio dell’oblio. Se ripenso a Phantom Thread, qualcosa di portentoso prende a riassemblarsi, pezzo per pezzo, dentro di me.
Quell’attacco. Il viso trasognato di Vicky Krieps, la voce morbida dell’innamorata, che è già predizione dei teneri buongiorno del primo incontro, della colazione fuori, in provincia, lontano dalle ipocrisie urbane, vicino al mare. Di creme, burro, uova in camicia e molli salsicce, stoffe ed organza. La capacità di lei, col semplice sguardo, d’evocare un amore sconvolgente, giganteggiante nel fuori campo; lo zampettio del pianoforte – a salire, e poi a scendere – di House of Woodcock. E poi il defluire elegante nell’arpeggio debussiano a rivelare il profilo dell’amato, il rumore dello spennellamento, come di setole e panna.
Ci vuole del talento profondo per annidarsi così nella mente di qualcuno, una padronanza assoluta, indiscutibile, della materia, perché si riesca ad imprimere così, sulla pelle dei sensi e della percezione, una creazione. E farla attecchire. Che poi, questo controllo formale, è ciò che plasma il film, da dentro, e che ha portato qualcuno a parlare di un atteggiamento di freddezza da parte dell’autore nei confronti dei propri personaggi; di distanziamento, di algido scrutare ciò che si è partorito. Nella segreta corrispondenza tra creatura e creatore, tra Paul Thomas Anderson e l’abile sarto (e, di riflesso, Daniel Day-Lewis), c’è in realtà un intento emozionante, che era già in The Master: verificarecome l’amore possa abbattere le carceri degli «interessi speciali», delle ossessioni egotizzanti in cui ci sotterriamo con le nostre stesse mani, senza neanche accorgercene, nella ricerca spasmodica delle nostre chimere.
Eccolo, infatti, l’amore. Che ferisce ma solo per (ri)fiorire sempre nuovo, che avvelena per guarire. Arriva quando un filtro da strega ci toglie ogni forza, l’energia che malversiamo, quand’essa si acquieta un po’, vinta dal sudore febbricitante del riposo forzato. Eccolo l’abbraccio intimo nel ballo, tra le policromie di esausti palloncini capitolati al suolo, dopo essersi cercati tra la folla urlante, quando ogni resistenza è vinta, la sala svuotata, la festa finita.


Bibliografia

Céline L.  Viaggio al termine della notte Corbaccio, Milano1932.

Du Maurier D. Rebecca, la prima moglie Il Saggiatore, Milano 1938.

Gadda C.E. La cognizione del dolore Einaudi, Torino 1963.
 

Filmografia

Boogie Nights (Paul Thomas Anderson, 1997).

Il filo nascosto (Paul Thomas Anderson, 2017).

Post Mortem (Pablo Larrain 2010)

The Master (Paul Thomas Anderson, 2012).

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