Il giuramento tra i fiori di crisantemo

Valentina Dell'Aquila

Ci ricorda una piattaforma videoludica L’immortale, con più livelli di scontro, più simulazioni che si vanno ad addensare in sfide di velocità e difficoltà con avversarsi del clan rivale (e non solo) sempre più acute e spadaccine, zombieficazioni sempre più striscianti; si vanno ad arricchire difese e armi e se ne perdono altre (le qualità fisiche ad esempio, la prestanza nella lotta, la percentuale di salute, etc).  L’abitante dell’infinito (è così che nel manga del 1993 di Hiroaki Samura viene definito Manji, nell’adattamento filmico interpretato da Takuya Kimura idolo degli SMAP), ex samurai nonché ronin dell’epoca feudale Tenmei dello shogunato Tokugawa 1783, dopo l’assassinio dei cento samurai, è infestato dal parassita kessenchu, sanguisuga che rigenera e riprogramma dopo ogni sfida il suo corpo eterno rendendo le sue ferite vulnerabili al dolore più estremo ma non alla morte.


Reduce del massacro della sua famiglia, la piccola Rin Asano, alla ricerca degli assassini del doju spadaccino degli Ittoryu di Kagehisa Anotsu, assolda e avvicina Manji l’immortale per macchinare la sua sanguinaria vendetta. “Quando fioriranno i crisantemi verrò da te, qualunque cosa accada”: questo è  L’appuntamento dei crisantemi di Ueda Akinari, racconto anche citato da Yukio Mishima nelle sue Lezioni, una leale promessa tra amici samurai, a ricordarci qui il fedele accordo tra Manji e la piccola Rin (sfocato ritratto di sua sorella Machi, uccisa dalla mano vendicativa di Shido Hasiyasu, leader della gang ronin Shinsen-gumi. -Personaggio, quello di Machi, maggiormente approfondito solo nel manga e nella serie animata di Mashimo. La ventenne Machi, moglie del poliziotto Saito Tatsumasa, perderà il senno e regredirà all’infanzia eterna dopo aver assistito alla decapitazione del marito da parte del fratello Manji, all’epoca ricercato per l’assassinio dei cento samurai).
Se nel manga la sessualizzazione di Rin è tale da renderla – a un certo punto - legata anche fisicamente all’immortale, Miike depura finalmente il romanticismo per dedicarsi alla lotta e alla solitudine di Manji, alla sua anomalia, a questo senso inaudito di eterno che pone fine a ogni finalità, allo sterminio del reale, della sua funzione se non in virtù della violenza, la vanificazione della possibilità, la sua sete di morte, di mortalità, all’eternamente eguale. Toni grotteschi delineano i buffi tentativi di combattimento della piccola Rin, così come annoiate si ripetono le sfide e i massacri, crescente invece è la nostalgia per i combattimenti di Hara-Kiri e 13 Assassini; la danza della violenza inaudita qui è talvolta un rapido susseguirsi di sfide fin troppo prevedibili e coreografiche che sì, meritano un laterale sguardo quando si tiran fuori le poderose armi e si infilano i meravigliosi costumi. Parafrasando Chris Desjardins, benchè il complesso emozionale, persino nelle immagini più estreme, sia decisamente sempre ben rappresentato in tutta la sua versatilità emozionale, come il fresco divertimento nel ri-presentare, ri-abbigliare, ri-disegnare personaggi popolarmente noti (vedi Yattaman, Zebraman, Le Bizzarre Avventure di JoJo,...), o nel passare in rassegna esistenze freak sempre più paradossali e sgangherate (es.Yakuza Apocalypse, etc), mi pare talvolta rara invece l’attenzione dedicata alla conoscenza singola dei personaggi: raffigurare la violenza anziché parlarne, raffigurarla nella sua sensibilità attraverso il suo sadico e “sporco senso di divertimento”.


Filmografia

L'immortale, (Mugen no jûnin) (Takashi Miike, 2017)

La Bizarre Adventure di JoJo (JoJo no kimyô na bôken: Daiyamondo wa kudakenai - dai-isshô) (Takashi Miike (2017)

Yakuza Apocalypse (Gokudô daisenso) (Takashi Miike, 2015)

Hara Kiri: Death of a Samurai (Ichimei) (Takashi Miike 2011)

13 Assassini (Jûsan-nin no shikaku) (Takashi Miike, 2010)

Yattaman Il film (Yattâman) (Takashi Miike, 2009)

Zebraman (Takashi Miike, 2004)



Il sangue dell'immortale
Alesandro Cappabianca

Takeshi Miike prende il personaggio di Manji dai fumetti, dai manga di Hiroaki Samura, e lo fa diventare emblema dell'immortalità cinematografica. E' un ronin, se così si chiama un samurai ribelle senza padrone, ed è condannato a non poter mai morire. Ogni volta che giace mortalmente ferito, dopo uno scontro con decine di aggressori, e tutti restano a terra uccisi dalla sua spada invincibile, il suo sangue di rigenera, le ferite si rimarginano e lui si rialza, pronto a nuove avventure, a nuove prove, a nuove vendette. Destino delle creature cinematografiche, condannate a ripetere sempre gli stessi atti (ad ogni proiezione), dopo una morte apparente (alla fine di ogni proiezione).
 E' una condanna questa? Si, perché l'immortalità è inoculata nel corpo di Manji come un virus, portato da vermi che non succhiano il sangue, lo rigenerano, senza mai permetterne la dispersione totale. Insomma, Manji è immortale, ma non invulnerabile, e dunque, non potendo morire, è condannato a mille morti. a sopportare mille ferite mortali. In questo senso, non è una creatura cinematografica tipica - è priva di volume, è un'ombra, ma un'ombra piena di sangue, per quanto possa sembrare strano, come tutte le creature di Takesshi Miike. Ombre che hanno un corpo, o almeno un suo simulacro, tanto veridico da sprizzare sangue (o latte, come accadeva in Visitor Q). Le Ombre duellano in eterno, si uccidono mille volte con violenza, ma anche con grazia, con mille variazioni coreografiche, e mille volte si rigenerano, nell'eterna resurrezione del cinema. La ragazzina Rin Asaro, che ingaggia l'Immortale per una propria vendetta, è il doppio della sorella di Manji, uccisa a suo tempo - è la sua reincarnazione, la reincarnazione d'un corpo disincarnato. Nel cinema di Miike, gli Spettri sono sempre insanguinati. La danza è sempre una danza di morte, la morte ha la grazia d'una danza.



A rebel with a Cause
Mariangela Sansone

Nei miei film, la violenza non ha lo scopo di sconvolgere o sorprendere. Prende forma naturalmente durante il processo di lavorazione insieme a una certa dose di amore, fino al raggiungimento di un equilibrio. Ecco perché amore e violenza sono, per me, due facce della stessa medaglia
(Takashi Miike)


Qual è la consistenza del sangue, che corpo assume e qual è la sua anima? La liquidità ematica acquisisce forma quando sgorga da vendetta e ferocia, quando la densità della sua consistenza è torbida come la sofferenza che ne è l’origine. Grumoso e già rappreso, materia sedimentata, come alligna la vendetta che, con il fluire del tempo, si deposita e aumenta lo spessore dell’odio.
Per Miike Takashi il dolore è ciò che rimane, come viene sottolineato diverse volte durante il suo Audition. L’amore e il dolore sono inscindibili, il secondo è una promanazione del primo, ma coesistono, come due facce di una stessa medaglia, anche in questo suo ultimo lavoro, L’immortale, in cui l’alternanza tra vita e morte accompagna la continua danza tra amore e odio.
I bianchi si accendono di bagliori nebbiosi, privi di profondità, mentre il nero è un vinilico lancinante, cupo e corposo; seppur privo di colore, il sangue è un petrolio vivo che scorre dolorante. “Questo è l’inferno, è più facile se a scegliere se vivi o se muori è qualcun altro”.
Il passaggio dal bianco e nero iniziale al colore segna il superamento del limite estremo della morte per giungere alla vita eterna, un’immortalità che il protagonista della vicenda trascorre cercando di ricondurre l’entropia esistenziale ad un equilibrio, attraverso la vendetta.
Uno dei topoi del cinema miikiano è la centralità delle figure borderline, di coloro che vivono per scelta ai margini della società, con la ferma volontà di intraprendere strade solitarie, forse perché, in un eccesso di nichilismo, è proprio nella solitudine che l’essere umano è libero, nel bene e nel male. Pasolinianamente, “sono qui solo come un animale, senza nome: da nulla consacrato, non appartenente a nessuno, libero di una libertà che mi ha massacrato”, la libertà, sovente, disegna la mappatura della solitudine dell’eroe.
Come in Izo, la violenza è uno strumento che conduce, attraverso la morte, ripetuta e perpetrata, all’affrancazione dai fantasmi del passato e dai torti subiti. Manji dedica la sua immortalità alla morte, il suo corpo imperituro si fa martire per difendere la piccola Rin; soldato di ventura, ma anche padre, fratello maggiore e, forse, amante. Un eroe sfaccettato e contraddittorio che si immola per combattere una battaglia che non gli appartiene contro gli Itto-Ryu, una banda di samurai che hanno ucciso barbaramente i genitori della ragazza. Corpo immortale, martoriato, flagellato, ma destinato alla vita eterna, corpo politico dalla parte dei deboli contro la società, eppure lo scorrere filmico conduce verso una verità mutevole e gli stessi “cattivi” appaiono d’improvviso sotto una diversa luce, poiché ciò che appare non sempre è ciò che è, e la morte non riesce sempre a ristabilire gli equilibri.
Il cineasta giapponese, come già capitato con Ichi the Killer, Fudoh, Crows Zero, The Mole Song, solo per citarne alcuni, anche con L’immortale si adopera nella trasposizione cinematografica di un manga; pur rimanendo coerente alla caratterizzazione dell’opera originale di Hiroaki Samura, riesce nell’intento, non semplice, di  fondere il piano reale e quello fantastico con la libertà anarchica tipica dei suoi lavori.
Se da un lato i riferimenti corrono ad alcune opere di Kurosawa Akira, al Tsui Hark di Sette Spade, forse all’Hitokiri di Gosha Hideo, ma anche al precedente miikiano 13 Assassini, la costruzione filmica di questo centesimo lavoro del poliedrico e prolifico regista giapponese, non può non ricordare i musou games, videopassione dei gamers nipponici e non solo. Manji si scontra, attingendo in parte alle modalità della tradizione wuxiapian, con una miriade infinita ed estenuante di nemici dalle più strambe caratterizzazioni, in combattimenti all’ultimo sangue e all’ultimo respiro, con lo sguardo che si apre su campi larghi, spesso ripresi dall’alto, catturando lo spettacolo feroce della morte nel suo compiersi.
La vena gore che percorre questo centesimo film è velata, come accade in molte delle precedenti opere miikiane, ora in modo più smaccato ora più sottilmente, da un’ironia che alleggerisce i toni violenti della messa in scena e la ferocia immaginifica che distingue i suoi lavori.
La materia filmica di Miike Takashi è densa, magmatica e stratificata, si eleva fino al parossismo estremo di una violenza visiva deflagrante e il suo linguaggio cinematografico non può essere approcciato senza un minimo di preparazione, rischiando, altrimenti, di venire travolti dall’irruenza delle immagini. Anarchico e libero, il suo cinema si eleva oltre i generi e le classificazioni, mai uguale a se stesso, ogni sua opera è impreziosita dalla sua personalissima cifra stilistica. Il linguaggio filmico di Miike Takashi travolge i generi, producendo nuovi stilemi, funzionali ad una messa in scena sempre originale, destrutturando e fondendo tra loro le categorie.
La brusca alternanza tra i registri e i toni narrativi è del resto una costante caratteristica del cinema di Miike Takashi, fiero avversario delle classificazioni: “sia nella vita, come nel cinema, io penso che la concezione di ogni categoria sia assolutamente illusoria. Le categorie sono state inventate da qualcuno in un particolare momento, ma ciò non ha valore per me, lo trovo innaturale”*

*Intervista tratta dal dossier n.38, Il fantasma della libertà, Nocturno Cinema, pag 13, 2005.


Filmografia

Audition (オーディション Ōdishon) (Takashi Miike, 1999)

7 Spade (Qi jian) (Tsui Hark, 2005)

Ichi the Killer (殺し屋1 Koroshiya Ichi) (Takashi Miike, 2001)

Fudoh: The New Generation (極道戦国志 不動 Gokudō sengokushi - Fudō) (Takashi Miike, 1996)

The Mole Song: Undercover Agent Reiji (土竜の唄 潜入捜査官 REIJI, Mogura no uta – sennyu sosakan: Reiji) (Takashi Miike, 2013)

Hitokiri (人斬り)  (Hideo Gosha, 1969)

IZO (イゾウ IZŌ) (Takashi Miike, 2005)

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