«Dentro il crepuscolo d’oro la bruna terra celando
Come una melodia:
D’ignota scena fanciulla sola
Come una melodia
Blu, su la riva dei colli ancora tremare una viola…
Illanguidiva la sera celeste sul mare:
Pure i dorati silenzii ad ora ad ora dell’ale
Varcaron lentamente in un azzurreggiare:…
Lontani tinti dei varii colori
Dai più lontani silenzii
Ne la celeste sera varcaron gli uccelli d’oro: la nave
Già cieca varcando battendo la tenebra
Coi nostri naufraghi cuori
Battendo la tenebra l’ale celeste sul mare».
(D. Campana)
Si vedeva una barca. In fondo era un rosso-blu che si fondeva nell’acqua, scene di Martin Eden tra gli occhi e le labbra, come un sipario di luce capovolta. Arrivava il Tempo lungo dell’Immagine, di deleuziana memoria, a “memoria” del ricordo, dello spettro del ricordo: cartina al tornasole di quello che resta, ancora; dinamica dell’iride che si svuota, si slabbra a (non) contenere quel tramonto, la sua fuga verso il fuoricampo, verso partenze che poi sono sempre stati ritorni: lì dove tutto sembra avere inizio, dove si attende che qualcuno parta, o arrivi. Nel mezzo di una pandemia globale fatta di virus e di armi, mentre arrivano da qualche parte, da terre violentate dall’altro lato di quel mare immagini vere di vite divelte, distrutte, – e mi domando a che valga questa resistenza di carta e di inchiostro, il virtuale di questo tentativo che faccio di scrivere di cinema, di scrivere, nonostante il sangue che si sparge – la sovrimpressione di quel tramonto d’acqua mi porta a Valerio Mieli, a quel suo film che sarebbe disperato se non fosse per il ritrovarsi, “alla fine”, dei due amanti distanti; ai bagagli di Camilla, avvolta nella sciarpa colorata a righe, prima di prendere il vaporetto per Venezia; ai riflessi in basso, nello specchio ridondante degli occhi.
Sicché si va, in questo contemporaneo emergere di immagini, insieme a lei, si sale sulla vecchia piccola imbarcazione: dalla parte opposta Silvestro sembra specchiarla, con uno scalda-collo molto simile, reggendo un “lume” d’albero dai piccoli, rossi cachi cascanti, così come la ragazza tiene in equilibrio un lume che somiglia ad un alberello, sottile nella luce che inizia a diventare più fioca, diventa sera. La laguna si accende di colori notturni, quasi anonima, quasi che nella marginalità di segni tangibili, riconoscibili, – la spartana abitazione dell’Arsenale ricollocata idealmente in un luogo non ben identificato, a metà tra le spiagge di Sant’Erasmo e San Pietro, poi i non-luoghi dell’ospedale, dell’aeroporto – fosse inscritta, proprio in virtù di tale discordanza, la centralità dei microcosmi dei protagonisti, attratti respinti ritrovati anche sullo sfondo di una città che poche volte si vede nella sua simbologia più nota (carrellate e campi lunghi sul Rialto, San Marco deserta, spoglia, il Pozzo di Campo San Giacomo dall’Orio con i muri scalcinati della Chiesa dietro la malinconia del protagonista, il suo sguardo perso nella ricerca di lei, tenuta lontana dalla paura di infinito): si immagina perlopiù attraverso porte di vetro, finestrini, squarci (così come in Identificazione di una donna, in cui Antonioni dà pure alle due solitudini dei protagonisti lo “spessore” della vista al di là di superfici specchiate, da cui filtrano mobilità luminose) fin dall’inizio, dal tratto di mare percorso sul vaporetto, guardando fuori, intorno, davanti a sé mentre nel medesimo tempo si è guardati, non visti.
Venezia come raccolta negli sguardi, il suo segreto di terra intimamente vissuta, espansa utopicamente nelle individualità dei due, calamite che invertono la polarità, estremi ricongiunti disgiunti e di nuovo insieme nella messa a fuoco di un obiettivo che utilizza modalità liriche di visione anche quando o, forse, soprattutto quando si tocca di più la distanza fra gli esseri: una lontananza talmente poco vera, però, da lasciar presagire un incontro prossimo, sebbene rimandato nel tempo, come quello testa a testa del ballo sulle note del pianoforte di Capossela, lontano dalla laguna questa volta ma che di essa ha ancora la dinamica del riconoscimento, dello specchio come misura dell’essere, del ritrovarsi nell’altro, dopo tanto non volere, respingersi, cercare di dimenticare.
Il fantasma del tempo, del ricordo, dell’amore è simile, solo per certi versi, soltanto dopo la presa di coscienza finale, a Il Casanova di Fellini, molto dopo la tempesta posticcia veneziana, della plastica del vento e delle onde che, oscuri presagi, annunciavano la meccanica dei sentimenti, lo svuotamento dell'uomo dalla linfa vitale, schiacciato dalla volontà di potenza che reiterava, ridicolizzava invece la vita, alla ricerca di una misura per non morire, prima di scoprirsi vecchi e soli; e rimanda a Visconti, quando fa giungere, in Morte a Venezia, Gustav von Aschenbah alla desolazione di un lido che già ha in sé i segni della fine, grigio plumbeo tutto intorno, nel campo lungo dell'approdo (ovunque alternanza di Eros e Thanatos, questa dualità latente nelle scene, avvolte dal silenzio, da un senso di asfissia, di pallido e funereo languore che ricorda l’Otello di Welles nelle riprese del Palazzo Ducale o del volo di colombe dal basso, oltre che, sempre dello stesso Visconti, Senso, perso il bagliore del Teatro La Fenice, nei passi “notturni” lungo i canali di una Venezia militarizzata, dal sestiere Cannaregio a Campo del Ghetto, che si incupiscono, ombre ad anticipare la tragedia imminente), dall’arrivo all’Hotel des Bains fino a quello stillicidio di visioni sulla spiaggia, nel bianco e celeste davanti a sé, a identificare, ancora, la vita, con lo sguardo stremato rivolto al giovane Tadzio, abbassate per sempre le palpebre dentro rivoli di sudore e di sangue.
«[…] L'acqua del lago era appena increspata; il riflesso di rame dell'antica reggia dei Sung si frantumava in riverberi scintillanti come foglie che galleggiano», così Calvino di Le città invisibili, e ancora: «- Le immagini della memoria, una volta fissate con le parole, si cancellano, - disse Polo. - Forse Venezia ho paura di perderla tutta in una volta, se ne parlo. O forse, parlando d'altre città, l'ho già perduta a poco a poco». Un po’ per volta, pezzo dopo pezzo si perdono i riflessi, le immagini, la memoria: le parole, che fissano le immagini, ne causano la scomparsa definitiva e, con loro, decretano la morte del ricordo. Cosicché l’architettura urbana della città reale, diventata “immagine”, istantanea del riflesso, «globo di vetro» – citando Szondi nella sua postfazione a Immagini di città di Benjamin, cioè viaggio e smarrimento, attraversamento del tempo nello spazio, “impressione” nostalgica di un bene perduto – occhieggia giù in fondo, resistendo alla storia, al suo dire muto. Lo «scontro tra una città ideale e una città reale», scrive Pier Paolo Pasolini commentando Calvino (Postfazione a I. Calvino, Le città invisibili, Milano, Mondadori, 2020, p. 165), che non si risolve dialetticamente ma che fonda quella che può essere definita una «surrealtà» della dimensione cittadina, nel segno della dottrina delle idee di Platone, in Valerio Mieli si innesta sulla dinamica del susseguirsi delle scene, continuamente in bilico tra «memoria» e «desiderio», «desiderio» e «segni», «segni» e «occhi», «occhi» e «nome»: una Venezia «continua» e «nascosta» nel suo (s)farsi attraverso la fuga dall’altro(a) e da se stesso(a), in un dispendio illogico, drammatico di esistenze dislocate, perennemente tese, però, a guardarsi a vicenda, da lontano, da vicino, nello spazio e nel tempo, fino a ritrovarsi, forse, dopo Dieci inverni, per un solo momento vissuto l’uno accanto all’altra, nella stanza che odora di sole.
Fuori, la città e il cielo.