Gianfranco Costantiello

altSenza tempo l’immagine è solo un’impronta di luce. È pari al nulla: trova la sua posa, ma vi sparisce. L’inquadratura deve permettere all’immagine di essere abbastanza lunga affinché chi guarda vi si riconosca e si perda. Avvicinare premurosamente il fondo vago e indefinito del mondo a qualcosa che si direbbe chiaro e finito, se le cose non fossero mute, lontane, inaccessibili. Il cinema di Michelangelo Frammartino, avverte l’esigenza di questo avvicinamento nel lieve incastro di inquadrature statiche e lunghe a tal punto da sospendersi. Tale sospensione, però, vanifica in parte la chiarificazione delle cose: dopo un primo riconoscimento, esse sfuggono, cadendo talvolta nel puro ordine estatico dell’espressione

Seguendo la via segnata da un’ ideale mappa espressiva del cinema, le rughe sul volto dei suoi protagonisti finiscono per somigliare e confondersi alle ripide strade in pietra di Caulonia - paesino d’origine della famiglia del regista e paesaggio del suo cinema. Ma sarebbe un contatto inane quello che s’apprestasse a scovare dei protagonisti nelle sue pellicole, perché in fondo il cinema di Frammartino è tutto in uno sguardo primordiale che si apre sul mondo. Le quattro volte sposta questo sguardo in quattro movimenti - da un pastore a una capretta, da un abete al carbone vegetale - conducendolo al limite, se non oltre, quella soglia metafisica che è propria del cinema di De Seta, Piavoli, Flaherty, Bartas ecc.. Così nel silenzioso scorrere del tempo, il vecchio pastore sembrerà ricominciare la vita nel maggiare di una capretta appena nata, nell’imponenza di un tronco d’abete, nel grumo nero del carbone che, nell’ultima e magnifica inquadratura, fumerà da una canna fumaria nell’aria fredda e ferma di una mattina invernale.

Rivelatosi con Il dono (2003), affermatosi con Le quattro volte (2010) e consacratosi con Alberi (2013) - cortometraggio che sembra chiudere quella che potremmo definire una trilogia – Frammartino, s'impone tra i migliori registi del nostro tempo, per via di immagini potenti e limpide, dal ritmo lento e bucolico, lontano da qualsiasi forma di compiacimento, accostandosi a un’idea di cinema che rifugge la tendenziosa impostura della rappresentazione; perché è forte il desiderio di guardare dentro, di scoprire il segreto delle cose.



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