Vanna Carlucci
Il cinema di Andrea Pallaoro appare all’improvviso in mezzo al caos festivaliero del cinema di Venezia 2013. Appare in abito perfettamente ricamato, ecco, il cinema di Andrea Pallaoro, perfettamente ricamato. L’immagine non sfugge, resta dentro ogni inquadratura, resta vigile e fermo nel suo espandersi all’interno. Il controllo sull’immagine che non si vuole perdere ma che tenta di disperdersi invece all’interno della sua stessa cornice è il segno di un movimento che persiste e che è densità di piani. Come una cometa Pallaoro traccia una traiettoria lineare nel cielo e da lontano non si vede altro che una linea che si chiude nel momento in cui scompare l’ultima luce ma se la si guarda da vicino è chiaro vederci milioni di pulviscoli luminescenti, movimenti brulicanti interni, residui di una stella, residui che continuano a cadere.
Così Medeas sembra il frutto di un disegno del cielo, una linea luminosa e perfetta dove non esiste rumore che da lontano guasti il belvedere di una caduta (di una stella), bella quanto basta a farla spegnere ad ogni cambio di inquadratura. Ma se guardiamo più da vicino ogni sua linea (ogni piano cioè dell’immagine) essa conterrà una scia, residui cioè di una stella più grande: non c’è dunque una mera costruzione formale ma c’è un lavoro interno sulla costruzione: il cinema di Andrea Pallaoro è strutturato seguendo quella stella più grande che riguarda il grado di sopravvivenza dei suoi personaggi. Sopravvivere alla mancanza, sopravvivere alla perdita, sopravvivere al legame: questo è quello che accomuna i suoi due lavori (Wunderkammer, Medeas): gestire il peso di qualcosa che cade e allora la casa, il paesaggio campestre, il gesto, la luce del sole s’immobilizzano, tutto s’immobilizza affinché le immagini diventino i residui di quel qualcosa che soffoca i personaggi sul punto (quasi) di morire e cioè di quella stella pronta a spegnersi.
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