La pelle squamata, grigio metallo, affilato di Hayat, la chioma corvina e l'ostinazione silente, placida. Con questi tratti, e quindi col suo unico corpo, di femmina, la dodicenne Hayat decide di sfidare la tradizione "dei padri", di porsi al loro stesso livello abbattendo l'imperituro muro di coercizione innalzatosi nel corso dei secoli sulle donne, costrette a concedersi al mare per assicurare prosperità alla popolazione. Ma Hayat in arabo significa vita, e la protagonista di Scales ne è la deflagrazione e naturale, vivido recupero fin dai suoi primi battiti.

In questo mondo fantasmagorico dominato da soli uomini e creature marine mostruose, fluorescenti, e quelle sirene già in precedenza raccontate dalla regista saudita Shahad Ameen in Eye & Mermaid, vediamo come i prodromi di una rivoluzione, di un cambiamento dello stato delle cose esistenti in favore di un'accettazione plurale, al di là di ogni costrizione dicotomica e dogmatica, di una nuova realtà. Appena nata, sottrata al sacrificio dal padre, Hayat verrà poi allontanata da tutti e considerata una disgrazia, sottoposta alle più crude umiliazioni fin quando non deciderà abbandonarsi al mare, da sempre suo destino; tuttavia, tornando sulla terra "vittoriosa" e sconfitta la minaccia marina, non si arrende e comincia a lavorare insieme agli altri uomini, navigando come loro, pescando come loro, vivendo esattamente come loro. Il cambiamento di Hayat parte quindi dal corpo, corpo crepitante, risonante ambizione, desiderio, di vita ed esistenza. Metà umana e metà, suo malgrado, creatura del mare, indefinita, instabile, nebulosa. Difficile non pensare al corpo-cyborg teorizzato da Donna Haraway in A Cyborg Manifesto, entità ibrida che mette in crisi i dualismi, la nozione di "limite" in ambito sociale e politico. Alla stregua di Hayat che, attraverso la sua persistenza, vuole esistere prima ancora di essere, in un contesto in cui la  possibilità perfino di vivere, contribuire nel mondo con la propria individualità e i propri bisogni, viene negata.

Certo è una posizione radicale, estrema, ma la fiaba metafisica di Shahad Ameen, girata interamente in un bianco e nero granuloso, traslucido quando ci si avvicina al mare, la messinscena maestosa e la dicotomia del colore resa iridescente dalla fotografia di João Ribeiro, sembra essere un avvertimento, costruire un presagio e, in questo senso, la regista dichiara che chiunque, cittadino o cittadina saudita, ma specialmente la donna, possa riflettersi in questo racconto di rivalsa, di rivendicazione. In Scales le donne non hanno scelta, devono rifarsi a una millenaria tradizione patriarcale senza potersi ribellare, prede, altrimenti, del senso di colpa. Il senso di colpa ancora oggi serpeggiante, tanto più se pensiamo alla condizione femminile nel Medio Oriente. E senza dubbio il pregio, forse la qualità più lampante, di questo prodotto di genere - e sul genere - è di aver tentato, riuscendoci, una decostruzione della logica odierna dominante (quella maschile, riferendosi al suo paese d'origine, non volendo ampliare il raggio di analisi per cui ci vorrebbe altro spazio e tempo) per mezzo del fantasy, del racconto di creazione e ri-creazione di mondi lontani, tra realtà e mito, attraverso l'immaginazione, fucina di creature e corpi fuori dalla norma: il cinema, quindi, in tutta la sua portata immaginifica, come strumento di critica di una condizione di subalternità. Il cinema si fa così femminismo.

«Potevamo avere un'altra scelta, no?»

Tags: