madeoUna madre e un figlio. Lui rappresenta per lei l’altra metà del suo universo. Lei deve proteggere dalle quotidiane vessazioni la sua creatura fragile, una mente di bambino in un corpo da adulto. Il loro rapporto, già carico d’ambiguità, degenera una volta che il ragazzo è accusato dell’omicidio di una ragazza. La madre si mostrerà disposta a tutto pur di dimostrare l’innocenza del figlio, anche di ignorare la realtà dei fatti.

 

 

 

«Madri feroci, che vi hanno detto:
Sopravvivete! Pensate a voi!
Non provate mai pietà o rispetto
per nessuno»
(Pier Paolo Pasolini, Ballata delle madri)

Per Bong Joon-ho sembra non esserci soluzione di continuità dall’essere una mater benevola all’essere una mater terribilis; lo spazio che intercorre tra queste due condizioni dell’essere è così sottile che lo sconfinamento è quasi inevitabile. Che il suo discorso, pur articolandosi attorno a delle precise contingenze, abbia i toni di una riflessione di ampio respiro è avvalorato dalla scelta di lasciare la protagonista di Mother senza nome. Prima di essere un personaggio essa è un archetipo, è figurazione di un concetto, quello di protezione condotto sino alle sue più estreme conseguenze.
La Madre di Bong Joon-ho non ha altro scopo nella vita che il suo unico figlio. Un figlio, speciale e prezioso nella sua fragilità, stranamente lento a pensare e decisamente tardo a ricordare. Un figlio totalmente eclissato dalla premura con cui viene accudito tanto da non rendersi conto, nonostante  le continue prevaricazioni subite, della sua diversità. Vive nel suo mondo semplice fatto di poche cose, di imitazioni di comportamenti altrui. L’amore smisurato che la Madre prova nei confronti della sua creatura indifesa si traduce in attenzioni che degenerano nel patologico: lo osserva da lontano e lo controlla ossessivamente in ogni suo gesto (dal mangiare all’urinare), cerca di provvedere al soddisfacimento di ogni suo bisogno affettivo, anche quando questo è di natura sessuale (e alcuni dettagli del film non lasciano alcun dubbio riguardo a questa ipotesi).
L’ambiguo affetto della donna si trasforma in vera e propria ferocia nel momento in cui è costretta in tutti i modi a dimostrare l'innocenza del figlio di fronte all'accusa di un orribile crimine, e quando la realtà la mette invece di fronte alla reale colpevolezza, l’amore squilibrato diventa cieca furia vendicatrice che la rende capace di uccidere nel modo più mostruoso e implacabile. Tutto é concesso ad una Madre che inventa la sua storia pur di non accettare la criminosità del proprio figlio.
Gli spunti legati al genere (i meccanismi della detection) sono solo delle linee guida intorno alle quali intessere una fitta ragnatela di spunti e di rapporti. L’unico vero intento di Bong Joon-ho è quello di scandagliare, analizzare e raccontare i diversi gradi di meschinità riposti nell’animo umano. La storia non è un flusso unitario, monodirezionale e dai contenuti inequivocabili, ma una ridda di memorie, tutte più o meno fallaci e parziali. Il regista  lascia cadere insinuazioni all'interno di una trama che solo in apparenza può sembrare semplice. Quella in cui siamo condotti è una progressiva scoperta, all'interno di un quotidiano mai rassicurante, dei tentacoli del Male che arrivano a stringere e soffocare nelle proprie spire anche le figure più insospettabili. Bong guida la macchina da presa anche e soprattutto fuori dall’indagine dell’omicidio, lanciando nel cuore aghi di spietata cattiveria, come la rivelazione del figlio che, in prigione, spronato dalla madre a ricordare particolari che possano scagionarlo dall’accusa, rievoca un episodio della sua infanzia che la donna credeva dimenticato, ovvero il tentativo d’omicidio e annesso suicido fallito da parte della genitrice. L'ambiguità morale di cui il racconto è ammantato è cardine dell’opera. La Madre è là, a testimonianza del fatto che nessuno è esente da ombre.
Cresce nell’accumulo del suo intreccio narrativo, sapiente messa in equilibrio iperrealismo e non-sense, la progressiva consapevolezza che nessuno è fidato, tutto si trasforma nel suo rovescio (la solidarietà in criminalità e poi in innocenza, l’umanità in grettezza, l’amore in disperazione) e anche fuori dello schermo l’empatia nei confronti della protagonista esplode davvero solo nel momento in cui si conosce la sua colpa segreta.
È spesso detto il cinema coreano tende a sottolineare pesantemente il senso di colpa che i protagonisti provano nei confronti delle proprie stesse azioni, affondando il suo coltello nell’angoscia e nel tormento che pervadono legami familiari conflittuali. Ma un’altra tematica forte che mi sembra quasi del tutto ignorata dai discorsi critici, evidente in Mother di Bong, ma rintracciabile anche nell’opera di Park Chan-wook, di Kim Ki-duk, di Kim Jee-woon, è la riflessione sulla memoria e la scelta dell’oblio.  Quest’ultimo, come una sorta di risolutore deus ex machina,  è cercato per rimuovere gli orrori e gli errori commessi, per sfuggire l’abisso apertosi in seguito a ciò che si è diventati, in definitiva per poter sopravvivere:

Dimentica del mondo, dal mondo dimenticata.
Eternal sunshine of the spotless mind!

 

 




Titolo: Mother
Anno: 2009
Durata: 130
Origine: COREA DEL SUD
Colore: C
Genere: THRILLER
Specifiche tecniche: 35 MM (1:2.35)
Produzione: BARUNSON, CJ ENTERTAINMENT

Regia: Joon-Ho  Bong     

Attori: Kim  Hye-ja (Hye-ja); Won  Bin (Do-joon); Jin  Ku     
Sceneggiatura: Joon-Ho Bong; Wun-kyo  Park; Eun-kyo  Park

 

 

Reperibilità

Riconoscimenti

http://www.youtube.com/watch?v=KPcijFQ4PpU

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