C’è un che di rassicurante nel sapere che dopotutto, dopo tutti i passivi nichilismi e cinismi di certo cinema mitteleuropeo, vaghi per l'Europa una nuova generazione di registi entusiasti e malinconici, ironici e lirici allo stesso tempo, smodati soprattutto rispetto ai canoni di equilibrio iconico-narrativo che vigono nel cosiddetto cinema d’autore; capaci di reinventare non solo la propria tradizione mediterranea, ma anche quella più dialetticamente europea, almeno a partire dalla comune base cogitante illuminista e arrivando a un postmodernismo che, fuori da citazionismi a sé e dentro la rianimazione e la mutazione della carne letterario-cinematografico-musicale, si presenta come l'unica forma di umanesimo possibile, anche contro certi richiami all'ordine realistico (io direi più che altro, descrittivo-mimetico) di cui s’è letto qua e là nei mesi passati.
Uno di questi registi è senz'altro Héléna Klotz, autrice di un film fulgido ed etereo, densamente poetico, L’âge atomique, vincitore al Festival di Berlino 2012 del premio FIPRESCI nella (splendida) sezione Panorama. Poetico anche nel senso di ripresa di tutta una tradizione letteraria e, in generale, estetica, all'interno di un progetto di illuminazione, come dire, pseudonaturale dello scorcio notturno (topos romantico e post-romantico), alla maniera delle Illuminations rimbaudiane; che presenta così una dimensione ricostruita artisticamente, ma con i materiali e le forme tratte da una natura preventivamente decostruita, dissociata nelle sue parti. E questo in nome di un'ingiunzione fabulatoria che si misura con le fasi di un procedimento di illuminazione e sonorizzazione fosforica della notte, della realtà inquadrata alla luce di una neourbanizzazione che, al limite, diviene disurbanizzazione.
Sono i riflessi sul finestrino del treno, all'inizio, e lo scorrere fuori di un panorama transeunte, interregno di ombre, tracce di cielo e di cimase, tetti sovrastati, accordati all'ambiente vuoto del vagone, alla penombra, agli echi di una canzone degli Stone Roses; e sono le prime caleidoscopiche luci elettriche, viola, rosse, blu, ecc., che accendono la stazione all'arrivo, ma senza smorzare, anzi esaltando, la misteriosa oscurità notturna. E Parigi è trasposta in spazi disertati, ripresi in campo medio, che si raccolgono così intorno ai due protagonisti, tralasciando il presunto caos, via vai di auto o l'intrico di strade, le folle metropolitane; zone di sprofondamento fantastico, su cui vigila, stranita, dissociata dal resto della città, una Tour Eiffel-faro nella notte vaporosa; ed è trascorsa, posta in un più in là spazio-temporale, perché è «l'ora in cui la città di luci rabbrividisce in un'alba echeggiante Madrid o Vienna», dice Rainer, preso dalla malinconia e da una struggente vena poetica, che pervadono ogni sequenza, ogni luogo del film: microcosmi conchiusi, tali perché delineino i punti di un diagramma di vuoti, di perdite, di mancanze; intrisi di solitudine, di sofferenza decantate, e claustrofobie che generano desideri, sogni in contrappunto musicale: oltre il lieve sottofondo d'ambiente che accompagna lo scorrere del treno, soprattutto la musica del club, che cerca di brillare di sintetizzatori anni Ottanta e sembra poi perdersi in riverbero di canto, ricordanza sonora.
Questo è il primo momento, e il primo punto (all'interno dello schema di localizzazione della malinconia, della suggestione), di estroflessione sentimentale del film, che ha proprio nell'impudica e violenta evidenza emotiva dei personaggi (senza psicologismi, senza mutismi sottesi a drammi latenti) il suo centro, da cui si diramano scene ad alto grado di intensità patetica; dove, tra luci stroboscopiche e suoni sordi, trame musicali elettroniche o nel silenzio di una stanza o di una strada, scoppia il pianto di creature dolenti eppure fiammeggianti, bramose di vita (Cecilia, Victor, Rainer), o il crudele diniego, il rifiuto di una contiguità affettiva, sia pure estemporanea: personaggi-dispositivi di pathos eclatante, oscillanti tra partecipazione e distacco, allontanamento (dell'altro che chiede il contatto) secondo le regole dell'attrazione – che si svolgono con brutalità (reazioni cruente dentro il corso cruento della Storia) – e quelle della contrapposizione, dell'agonismo (la rissa con Theo) rispetto a una realtà classista, merceologica, su cui regna il feticcio inalienabile dell'Audi. E in controcanto, una vasta, lirica nomenclatura rimbaudiana, in cui appare dal nulla Rose, fantasma ammaliatore (di Victor), sirena di una plaga sonnambolica, fatta di notte deserta, e attesa, e di deliquio da alcool; e nutre il sogno di Rainer, sogno di salti suicidali, a cigno, dal Pont Neuf; attraversamenti di Parigi nuotando contro corrente, fiumi e torrenti, verso le vie galattiche dell'Oceano Pacifico; dentro un mare blu-squalo, dove l'onda rilascia la sua schiuma nel mare di corallo; e arcipelaghi abitati da sirene, totem e vecchi stregoni, tra il vento che soffia in mezzo a queste attrazioni stellari, mentre il ragazzo commosso dice che «la felicità può essere trovata solo nel folle amore».
Da lì, spente le luci urbane, sarà un addentrarsi nell'oscurità di un bosco da fiaba, accanto a una periferia di binari, muricci, pietrisco, a cui s'arriva prendendo per un breve viottolo tra i cespugli laterali e che dà su un apparito intrico d'alberi. Compaiono statuari e segreti, scheletrito rifugio di versi rapaci, di folate di vento, rimbombi, crepitii improvvisi, o specchiati in un corso d'acqua e così ancora più soli, spettrali: trafila di tronchi ai fosfori verdi, fantastici eppure traccia ancora (in)naturale dell'altro mondo di là dai binari, la città dalle luci verdi, lì vicino, da un semaforo, un lampione o uno di quei fari colorati che accendevano all'inizio la notte in una stazione d'autunno. Superficie fantastica nella misura di un rispecchiamento con la realtà, cioè secondo le rifrazioni, la restituzione delle cose effettuata dagli specchi (soprattutto gli specchi d'acqua: il ruscello che compare all'improvviso a s-figurare gli spettri, i visi pallidi e raminghi di Victor e Rainer al chiaro di luna) che amplifica, sovrappone, confonde, un poco distorce le normali qualità organolettiche. Attraverso la soglia del viottolo e quella del corso d'acqua, postmoderni passages de Paris, le previe, urbane emissioni naturali, per lo più luminose, giungono nella dimensione boschiva, restando se stesse eppure dando origine a una soprarealtà, anzi a una pseudorealtà sospesa, sradicata e tuttavia ancora riconoscibile nei suoi reali costituenti. È quel grado di incremento finzionale del fenomeno come consequenziale passaggio delle emanazioni naturalmente luminose nel fosforico dello pseudonaturale, del fiabesco; cifra che del resto era già presente in partenza e all'arrivo alla stazione, sotto forma di costellazione di lumi (colorati), già (de)costruente la realtà ferroviaria pur nella sua mimesi; una realtà da subito ancipite (leggibile in due sensi: quello realistico e quello fantastico, a seconda del valore dato agli spazi) per gioco di luci, di prospettive, orizzonti: la stazione, la discoteca, la fermata della metro, sono reali, conformate, comprovate, eppure trascolorano in un'irrealtà fatta della stessa sostanza e delle stesse forme contingenti, ma in una chiave di plausibile dissociazione (e riassegnazione) degli elementi. Così le cose, le luci, le forme si offrono per loro natura (e senza infrangerne le leggi) al gioco immaginativo e veritativo: sono riprese, ricollocate nella loro refrattaria povertà e ora presiedono al fantomatico e delicato sfolgorare di scampoli di foglie-luce sui rami del bosco1.
E anche quando il vagabondare arriva alla fine e l'ottica cambia, il metodo resta lo stesso e si concentra in due pianisequenza campestri – intrisi di una musica, quella di Ulisse Klotz, come proveniente da lontano, misteriosa, poi un poco macabra, inquietante, di maghi e streghe, gnomi bambineschi che recitano incantesimi stridenti nella penombra, officiano al rito dell'iniziazione, all'amore – che mostrano il nudo, circostanziato cammino dei due ragazzi verso casa, e allo stesso tempo, il loro favoloso, deterritoriale smarrimento in campo lungo. Come se, ancora una volta, l'esito delle vicende esistenziali dei personaggi, cioè del corso dell'immaginale, non si possa che misurare sul piano di un ritorno all'origine (minimale, essenziale, naturale: priva di accrescimenti figurali, plastici: questi se mai evocati dalla musica) che però non è acquisizione stabile (secondo le connotazioni date di solito al mito), ma apertura2, esposizione momentanea prima di altri rizomi o macchine mondiali. Che è l'identico terreno su cui si chiude un altro film importante (datato 2013), L'inconnu du lac di Alain Guiraudie, in cui la notte fonda e vegetativa (le arborescenze a ridosso della spiaggia) è inquietante, orrido territorio di s-comparizione di personaggi ed enunciati, immagini, nati e morti nel sangue e ri-viventi nel sesso, in una prospettica freddamente materialistica, meccanicistica (i corpi sono mostrati, usati, soffocati nel loro “automatismo”, mentre residui sentimentali risiedono solo nella stasi di Henri) che definisce il sibilante, scuro, vuoto spazio da cui si generano poi ancora figure, i due ragazzi de L'Âge atomique ri-nati (con tutt'altri presupposti che quelli materialistici) e usciti, alla fine, dai luoghi confinati per vagare all'aperto, nei campi.
Succede ora una fuga in campo aperto (infinito) – dopo i campi medi che prima chiudevano (per vuoti e assenze), s-finivano i luoghi della malinconia e dello struggimento – in una zona di intermezzo, di galleggiamento fantasmatico, nel transito dalla notte fonda all'alba (che sembra apparire prima dei titoli di coda), dove tentare in maniera originaria (perché è qui che ci si trova, all'origine della creazione) le possibilità di concrescenza dell'immaginazione che definiscono le coordinate esistenziali (di un errare, stanco, senza meta) di Victor e Rainer, persi nell'infinito Niente.
Note
1 Mentre, stando a un criterio toponomastico, ora ci si dovrebbe trovare nei pressi della stazione, per cui quelle luci che addobbano gli alberi sarebbero le luci segnaletiche della ferrovia in lontananza che traspaiono tra i rami. ↑
2 «[…] L'origine non è la pienezza già da sempre data del mondo archetipico, ma semmai il vuoto, orrido e mirabile, a partire dal quale l'attività mitopoietica produce e ordina figure; è il nudo spazio in cui verità e libertà inventiva coincidono, è il nulla che “decide” dell'essere» (Givone 1992, p. 18). ↑
Bibliografia
Givone S. (1992): La questione romantica, Laterza, Bari.
Titolo: L’âge atomique
Anno: 2012
Durata: 68
Origine: FRANCIA
Colore: C
Genere: DRAMMATICO
Produzione: KIDAM
Regia: Héléna Klotz
Attori: Eliott Paquet; Dominik; Wojcik; Niels Schneider; Mathilde Bisson; Clémence Boisnard; Luc Chessel; Arnaud Rebotini; Cécilia Ranval
Sceneggiatura: Héléna Klotz
Fotografia: Héléne Louvart
Musiche: Ulysse Klotz
Montaggio: Cristobal Fernandez; Marion Monnier
Scenografia: Zakaria El Ahmadi
Riconoscimenti
Reperibilità
http://www.youtube.com/watch?v=B8cThVBeDhI