L'impotenza del poeta, la sua strutturale disorganicità rispetto al sistema del potere e la sua silenziosa ribellione allo scandalo del silenzio imposto. Due film dalla Berlinale 68 per dire della resistenza del poetico dire rispetto alla violenza della Storia: Dovlatov di Aleksey German Jr. e Season of The Devil (Ang Panahon ng Halimaw) di Lav Diaz. Due scorci dagli anni '70, col tallone dei regimi sulla coscienza dei popoli, funzioni oppressive del potere alle prese con le funzioni libertarie dello spirito: Aleksey German Jr. disperde le speranze dello scrittore russo Sergei Dovlatov nella nebbia d'apparato dell'Unione Sovietica, che non seppe dargli voce di stampa e lo costrinse a fuggire a New York per sfuggire alla lenta morte del suo spirito. Lav Diaz s'inventa invece  il poeta del popolo Hugo Haniway, che si oppone al regime di terrore instaurato dai miliziani di Marcos nella sua patria martoriata e si martirizza nella ricerca disperata della sua donna, Lorena, medico volontario nei villaggi degli oppressi.


La febbrile ricerca dell'eroica libertà dei sottomessi è il canto silenzioso di questi due film ovviamente molto diversi, ma tenuti insieme dall'istintiva deriva nel filmare la poesia come atto di quotidiana resistenza, tenace e malinconica. Il contrappunto di un'opposizione che ha le spalle forti di chi deve portare il peso della sottomissione come catena personale e come gabbia collettiva della sua gente.

In Dovlatov German stempera i cromatismi della rievocazione degli anni '70 sovietici in un vapore filmico fatto dei suoi inimitabili tempi sospesi sulla tenacia soffice dei piani sequenza, in cui la durata non è data tanto dal minutaggio e dalla continuità d'azione, quanto dall'unità spirituale di un sentimento reso filmabile dalla plasticità temporale dell'immagine. Il film è strutturato in una sorta di movimento a fisarmonica tra ragione della volontà e dispersione della mente nello sconforto del silenzio: lo scrittore che sente l'urgenza del dire pubblicamente, della fuga dal privato del suo spirito per andare incontro ai lettori, al di là dei burocrati che gli bloccano l'uscita, non è che la forma concreta di un lirismo della separatezza aggrappato al bisogno di essere nel tempo, di vivere nella durata del presente per aspirare alla libertà del futuro in cui essere letti e ricordati ancora e sempre. Sergei Dovlatov e i suoi compagni artisti, messi a tacere dal regime, si muovono sulla scena come fantasmi, figure trasparenti di un melanconico silenzio, di fronte al quale il regista amplifica la distanza tra voce e corpo, cercando una sonorità della scena disgiunta dalla vocalità delle figure. L'esserci senza esserci di questi spettri poetici in cerca di un presente in cui manifestarsi è la forma di un filmare la Storia come intuizione esistenziale di figure criticamente contraddittorie rispetto al loro tempo e al loro destino.

In una maniera uguale, per quanto nettamente opposta, agisce Lav Diaz sul set di Season of The Devil, dove sostituisce l'ampiezza del movimento di macchina nella scena con il taglio prospettico in cui compone le sue inquadrature. Qui il tempo è strutturato sulla musicalità tradita delle canzoni che compongono questa “opera rock” (come la definisce lo stesso regista) in cui il rapporto tra potere e poeta dialoga faccia a faccia, senza soluzione di continuità nel silenzio. Diaz si affida alla dignità perduta e infine ritrovata dell'immaginario poeta Hugo Hanywai per affermare la forza sacrificale di un lirismo che si inginocchia sulla tomba della solidarietà. La tensione del film sta tutta nella definizione critica del ruolo della poesia di fronte alla violenza del potere: la dignità dell'uomo passa attraverso la capacità di resistere e lottare al di là delle lacrime e del silenzio in cui si versa, soprattutto in ragione del fatto che il potere del populismo sa impadronirsi subdolamente delle parole e degli stessi miti del popolo per controllarlo e sottometterlo. Sicché la scelta di raccontare la storia filippina sotto il regime di Marcos nella forma di un musical privo di musica (tutti i brani sono cantati in tagalog a cappella) ha il senso preciso di restituire potere alla parola verseggiata, alla funzione lirica del dire la libertà con lo stesso linguaggio dei potenti.


Filmografia

Dovlatov (Aleksey German Jr, 2018)

Season of the Devil (Lav Diaz, 2018)

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