Hukkle è una parola onomatopeica che imita il singhiozzo. È il singhiozzo di un uomo anziano che scandisce come un metronomo il ritmo dell’esistenza di un intero piccolo universo rurale, autosufficiente, composto da microcosmi altrettanto autosufficienti. Tra questi, quello degli uomini toccato da morti misteriose, tra loro collegate da un apparentemente innocuo scambio di bottigliette che passano di mano in mano tra le anziane donne del paese.
Una nuova generazione di Kinoki incalza a non sotterrare le teste come ostriche, ad alzare gli occhi, levarsi le cispa e guardarsi intorno con vista rinnovata; decisi a distinguersi dai cineasti-rigattieri smercianti ciarpame con operazioni capaci di spezzare la routine del cinema commerciale. Per svegliare lo spettatore intorpidito dalla cine-nicotina, i Kinoki lavorano per mettere a punto opere significative le cui innovazioni non consistono tanto in una serie di trovate tecniche, in giochi superficiali di forme esteriori, ma nel profondo rinnovamento della materia plastica delle immagini.
György Pálfi, con Hukkle, mette a punto un’idea di cinema, per dirla con parole di Artaud, di «situazioni puramente visive», dove il dramma scaturisce da uno scontro fatto per gli occhi. Un cinema capace di leggere le azioni in termini di visualità, in cui «la stessa psicologia è divorata dagli atti». Hukkle è una rete di azioni, di movimenti, tutta risolta in visualità. Il tessuto della gestualità, la catena degli atti, si traduce in un orizzonte della visione assolutamente nuovo, in inedita forza espressiva realizzata attraverso un rovesciamento radicale dell’ottica e della prospettiva.
Per il suo esordio cinematografico Pálfi si ispira a un fatto di cronaca, quello delle avvelenatrici di Nagyrev che tra il 1914 e il 1929 avvelenarono circa 300 uomini per vendicarsi dei soprusi subiti.
Il regista elabora una messinscena dalla quale cerca di eliminare tutte le stratificazioni culturali, le incrostazioni, per ritrovare una struttura originale, un’«essenza tecnica profonda» come la chiama Vertov. Fa tabula rasa degli schemi e dei modelli della tradizione cinematografica imponendo una metodologia di indagine scopica attraverso l’immagine. Il fine è neutralizzare, attraverso una riorganizzazione del visibile, l’automatismo della percezione, per restituire allo spettatore un’esperienza originale e diretta dell’esperienza filmica. Nega, viola norme linguistiche standardizzate per riuscire nella riappropriazione estetica di una realtà mascherata o degradata da formule espressive stereotipate. L’effetto straniante neutralizza tutto il potenziale narrativo e aneddotico delle sequenze, realizza uno spostamento semantico che permette di percepire l’oggetto «come per la prima volta».
Per riuscire in questo Pálfi si affida all’azione del cineocchio, impersonale e sovvertitore, massivo e plurimo, che ha il potere di dare brividi d'inquietudine, di malessere, grazie alla capacità di render visibile l’invisibile, chiaro l’oscuro, nascondere il banale e tutto ciò che viene solitamente risolto sotto i segni equivoci del cliché. Un occhio meccanico cinematografico che procede, anaffettivo, lungo imperscrutabili traiettorie, libero dalla forza dell’abitudine e dell’estetica. Un occhio senza palpebre, di una pupilla dilatata che tutto ingloba senza eccezioni o riduzioni. Pálfi forza ai limiti estremi le possibilità della m.d.p., che si fa «essenzialmente il tramite rivelatore di tutta una vita occulta con la quale ci mette direttamente in relazione» (Artaud in Fofi 2001, p.63): dettagli che l’occhio umano non riuscirebbe ad isolare, grazie alla potenza del primissimo piano, diventano un misterioso paesaggio in cui si annidano sorde minacce, anticamera del cupo in agguato costante. Tutto sembra colto in un ultimo momento irripetibile, come un’ultima visione d’un paesaggio selvatico.
Il cineocchio qui scardina i rapporti di consequenzialità e tesse una vera e propria ragnatela di scene tra loro collegate da un raffinato procedimento di raccordo logico. Il movimento delle cose è correlato alle proprietà oggettive dello strumento cinematografico che riesce a decifrarlo e ricostruirlo. Il montaggio stabilisce rapporti altrimenti impercettibili. Ridimensiona l’abituale centralità dell’azione dell’uomo rendendola parte di un sistema dinamico di rapporti, a loro volta collocati all’interno di una realtà immensamente più grande, una alterità primitiva, quella della Natura, che rimane estranea, ma soprattutto indifferente alle contingenze umane; un universo autosufficiente, composto da microcosmi altrettanto autosufficienti.
Una minimizzazione dell’individuo resa evidente anche dal sonoro. Hukkle è una sinfonia rumoristica cinematografica, un film parlato senza dialoghi, dove non occorre conoscere la lingua, perché, come dice il regista «dai piccoli rumori si intuiscono le microstorie, la tragedia umana nascosta dietro la vera pace».
Come si diceva il regista adopera al massimo le potenzialità offertegli dal cineocchio, che libero dai procedimenti cristallizzati, si fa occhio puro, un occhio dai raggi X, in grado di spingersi fin dove la vista umana non può arrivare, oltre l’epidermide delle cose.
Quella di Pálfi è una riflessione sulle specificità del cinema; cerca di metterlo a fuoco in quanto sistema di
comunicazione, evidenziandone i mezzi, gli artifici:
In questi frame il fotogramma si sfuoca, va fuori quadro e l’arretramento della m.d.p. lo ricolloca nella sequenza di scorrimento della pellicola. Espediente per portare a riflette sui continui sdoppiamenti a cui è sottoposta l’immagine cinematografica, presa nell’intervallo tra cosa vista e atto del vedere.
Bibliografia
Artaud A. Stregoneria e cinema, in Fofi G. (a cura di) (2001), Antonin Artaud. Del meraviglioso. Scritti di cinema e sul cinema, Minimum Fax, Roma
Titolo: Hukkle
Anno: 2002
Durata: 78
Origine: UNGHERIA
Colore: C
Genere: SPERIMENTALE
Specifiche tecniche: 35mm
Produzione: MOKÉP, ORTT, MMK, TV2, CSABA BERECZKI, ANDRÁS BÖHM
Regia: György Pálfi
Attori: Ági Margittay, Eszter Ónodi, Attila Kaszás, Ferenc Bandi, Józsefné Rácz, József Forkas
Sceneggiatura: György Pálfi, Zsófia Ruttkay
Fotografia: Gergely Pohárnok
Montaggio: Gábor Marinkás
Suono: Samu Gryllus, Balázs Barna
Riconoscimenti
Reperibilità
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