Già dallo scatto con cui si apriva il libro fotografico Farmacia notturna, si sarebbe potuto intuire il desiderio dei fratelli D’innocenzo di ricercare la purezza nuda dei bambini, raccolta nella luce lattiginosa, adesso così drammaticamente offerta al mondo che la degrada in favolaccia, non epidermicamente (anzi, a tavola Pietro si preoccupa di produrre detergenti adatti alla loro sensibilità di pelle e occhi) ma nelle profondità psicosomatiche.

È un’infanzia che avanza già pesante, con la stessa fatica di Vilma, gravida di lacrime inturgidite nel capezzolo materno che bagna del suo bianco dolore un biscotto regalato nel polverio delle ore scolastiche — o delle nuvole che minacciano l’immagine e questo microcosmo di periferia, riconosciuto come romano solo per come parla, ride, offende, ama. Infatti il palinsesto, nell’aderire alla forma letteraria, si rende estendibile ad ogni spazio e tempo, si sottrae perfino alla violenza delle coordinate essendo dramma eterno di un candore che si allontana azzerando la profondità di campo, slabbrando i margini dei campi larghi; rendendo i giochi nel sole d’estate, nella pioggia di sorrisi e gavettoni, già trascorsi e perduti.

E intanto la scoperta amorosa, seppur acerba, inizia a plasmarsi come malattia, crosta di morbillo contratta con un bacio che immunizza dall’aridità di verande villette vivande borghesi (con cui si rischia di strozzarsi), essendo richiamo alla sterpaglia, a territori rizomatici in cui si consuma la fuga di Dennis che impreparato a questo mistero, lascia Ada, membra di lentiggini distese a occhi chiusi, ancora persa in avvallamenti di sogni e di fossette.

Anche in questo, e non solo per differenze anagrafiche, Favolacce potrebbe essere inteso come prologo di La terra dell’abbastanza (i registi hanno peraltro dichiarato che l’esordio è in realtà il film scritto per ultimo), in cui invece il sesso s’imparava con sguardo attonito in schiene di donne piegate al sudiciume del malaffare e della prostituzione; della perversione incontrata per una sbandata e creduta la svorta, soprattutto per un padre incapace di essere guida.

Eppure resta difficile per gli adulti che pestano anche a sangue il germoglio dei figli, disancorarsi dai disastri della vita, malcelati dall’edonismo di piccoli consumatori così misero e parossistico (in cui potrebbe riecheggiare il Pasolini corsaro, più in filigrana che nell'usato accostamento d'ambientazione borgatara) — di piscina sventrata, fissata mentre si dissangua e appassisce.
Costretti a nascondersi da un mondo che si vuole felice, il (nuovo, ma perseverante nell'errore) padre soffoca nelle vene le lacrime di rabbia, prossimo al cane rabbioso di cui ci si disfaceva senza troppi indugi — peraltro figura, il cane, densa nella poetica dei D'Innocenzo (dalla loro sceneggiatura per Dogman, agli scatti, alle poesie), anima con cui condividere la noia e il latrato del quotidiano.
«Il cane si è lamentato/ ma mi ha aspettato./ Ora sospira ora no. / È il mio cane e io/ sono il suo» (Mia madre è un'arma).

Ma allora la salvezza dov’è?

«Non si trova modo/ di scoglier 'sto nodo,/ non vale fuggire,/ bisogna morire.//Commun’ è statuto,/ non vale l'astuto/ ‘sto colpo schermire,/ bisogna morire,/ bisogna morire,/ bisogna morire.»
Canta così la Passacaglia della vita (nella versione bellissima e inquietante, dunque perfettamente aderente al film, delle Birds On a Wire) mentre nell’immagine riarsa scorrono i titoli di coda.

Semplicemente non è. O forse è proprio nella fine.

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