bes_vakit_immTerre meravigliose venute fuori dal movimento millenario della Terra, raccoltesi in guglie e torri di roccia, tengono in seno un piccolo villaggio dai sentieri pietrosi, palpitanti, custodi di storie, speranze, amori e rancori di tre piccoli ragazzi e delle loro famiglie.



 


Il cinema turco è in sospensione. Penso alle nebbie che inghiottono il villaggio di montagna in
Sonbahar di Alper, al gelido inverno e ai fiati dei bambini sui vetri delle finestre di quel miracoloso debutto che è Kar beyaz di Selim Gunes, alla neve caduta copiosa a dissolvere le rovine di un amore già finito in Iklimler di Ceylan o alle sagome dei ragazzini abbandonate allo stemperarsi della luce, al tramonto in Bes vakit di Erdem.                                                           
Da vette nebbiose a banchine portuali, da villaggi remoti a strade di città, la nuova generazione di cineasti distilla immagini, tremanti di amori sfinenti (Iklimler), di sogni rivoluzionari infranti (Sonbahar), di solitudini e attese (Kar beyaz), di incomunicabilità e desolanti distanze generazionali (A ay, Hayat var, Bes vakit).   

In Bes vakit, senza ancoraggi e con levità funambolica, la macchina da presa sembra ripercorrere fugacemente le traiettorie ondivaghe di Malick, procedendo tra l’essenza inconfessata della natura e i muri plumbei e scalcinati degli abituri. Ma l’inquadratura non è un frammento di un frammento più grande che è il film, come accade nelle opere del regista texano; qui, risaltano tallonamenti che, sulla scia di Bela Tarr, conducono lo spettatore in un territorio insondabile, all’inseguimento vano delle immagini.
Immagini che si lasciano trasportare dalle ariose partiture musicali del compositore estone Arvo Part: esse mimano la contrazione involontaria, il respiro primordiale della natura. La vita accarezza le fronde degli alberi sottoforma di vento, sciama tra i vicoli del villaggio e i viottoli e le crepe della campagna scoscesa, attraverso i corpi esili e i passi svagati di piccoli ragazzi, che sembrano scarti campestri, stesi tra le sterpaglie, dentro a un fosso, al riparo dalla durezza e dall’aridità degli adulti.

Il regista sembra velare discretamente uno sguardo sociologico, marcando quella distanza incolmabile tra genitori e figli, rottura insanabile che è propria di una cultura, quella turca, spaccata tra tradizione, che può essere letta come isolamento quanto resistenza, e modernità, crescente sotto la spinta di forze magnetiche e illusorie del progresso occidentale. Nei loro gesti violenti o di indifferenza, vibra una qualche condanna nei confronti dei propri figli, colpevoli di aver ceduto a qualcosa di poco familiare, remoto, estraneo.
E così sfila leggiadra e invulnerabile Hayat (nel bellissimo film del 2008, Hayat var), lontana dai silenzi paterni e dalle molestie di un commerciante, tra le nebbie del porto, per poi abbandonarsi al suo riflesso nel movimento sussultorio dell’acqua, come Ana ne El espiritu de la colmena. Sull’impenetrabile superficie marina una figura amica si riflette, un ragazzino, smilzo e dal volto tinto di giallo e di blu, cromature di una freschezza nouvelle vague, col quale fuggirà via, dopo averne condiviso silenzi e sguardi, veloce, e finalmente sorridente, sulla cresta delle onde del mare di Istanbul.  E come dimenticare Yekta, nel freddo bianco e nero del debutto registico (A ay), andare e venire nel rimbombo dei suoi passi, nelle stanze desolate della grande e fatiscente casa di famiglia alla ricerca del fantasma materno, per poi svanire sul costone di un colle lasciando l’apprensiva zia a pronunciare il suo nome, pregandola di aspettare. 

Ecco che la natura ritorna, colta con spirito romantico, ad aprire un varco dove fugare le ansie e le mancanze del quotidiano. Proviamo a commuoverci dinanzi al suo movimento impercettibile quanto eterno, sembra sussurrarci in ogni suo frammento di mondo il regista.                
Tradendo il tormento, spesso mi chiedo il fine del cinema, e la risposta sembra cadere, sibillina e inaspettata, come la luce abbacinante del sole che si leva nella splendida panoramica in chiusura del film. È nell’immagine potente, fiammeggiante, purificata.





Titolo: Bes vakit / Times and winds
Durata: 110
Origine: Turchia
Colore: C
Genere: Drammatico
Produzione: Atlantik film

Regia: Reha Erdem

Attori: Ozcan Ozen (Omer), Aly Bey Kayali (Yakup), Elit Iscan (Yldiz), Bulent Emin Yarar (Imam), Taner Birsel (Zekeriya), Ygit Ozsener (Yusuf), Selma Ergec (Ogretmen), Tarik Sonmez (Pastore Davut), Koksal Engur (Halil Dayi), Tilbe Saran (Madre di Omer), Sevinc Erbulak (Madre di Yakup), Nihan Asli Elmas (Madre di Yildiz), Cuneyt Turel (Nonno).

Sceneggiatura: Reha Erdem
Fotografia: Florent Herry
Musiche: Arvo Part
Montaggio: Reha Erdem
Scenografie: Omer Atay
Costumi: Mehtap Tunay

Riconoscimenti
 
Reperibilità 

http://www.youtube.com/watch?v=7WXgCTIpC3E

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