«Ogni eremita ha la sua caverna dentro di sé e talvolta dietro questa caverna ce n'è un'altra e poi un'altra ancora»

(F. Nietzsche, Epistolario, Vol. IV)

A proposito di mancanze: di vuoti, di spazi residuali, cavità cieche della bocca che esplode, urlo che ingoia il fuoco nelle viscere, nella pancia, scendendo dalla faringe tutta la narrazione in prolessi, pellicola riavvolta di colpo in quella gola, notte, vibrazioni della lingua, deflagrazione; prima ancora che dal velivolo è da qui, da questa cavità corporea che s'apre, si inabissa il nero del destino tra i titoli d'inizio, prefigurando la fine.

Kieślovski in quella voragine che avanza, prende a morsi questo incipit, lo acceca, lo denuda e si staglia nella memoria quell'altro urlo, opposto a quello di Witek, di Veronica: movimento contrario, dall'interno l'acuto del canto si fa grido che libera, da cui esce il corpo introflesso nell'arte, che era rimasto a piegarsi nel sottosuolo della pelle, della musica, e muore: il dentro verso il fuori, e viceversa. La mise en abyme è al contempo introversione ed estroversione, precipizio, caduta e slancio, spinta in avanti dell'immagine che prende quei corpi, li divora. Questo scrivere attorno al vuoto – l’abitacolo dell’aereo, l’etere, la gola, l’implosione-esplosione di Destino cieco, l’ultima nota vibrante della donna come estrema emissione di sé in La doppia vita di Veronica, l’obiettivo stesso come occhio che dà forma, immagina, sostanzia –  è il cinema, è sguardo che fonda l'esistenza dell'immagine, scrivendone la vita fino a che dura, è la contraddizione in atto fra il dentro e il fuori, la concomitanza, la prossimità endemica: da Kieślovski il pensiero va a Derrida, che del campo vuoto della scrittura fa la ragione del suo scrivere senza che vi sia paradosso alcuno nell'assunto; si tratta di leggere, alla luce dell'operazione derridiana di rispondere alla necessità di annullare la distanza tra opera e pensiero, oggettività e soggettività, autobiografia e scrittura, un film che lo cerca, questo "vuoto": La Chimera, di Alice Rohrwacher.

La nostalgia del tempo perduto si definisce a partire dalla capacità del protagonista di individuare precisamente il punto in cui la terra si svuota, grazie al suo caratteristico modo di "vedere" prima le cose, immaginandole al di sotto di una superficie da scavare, di nascosto, per scoprire la bellezza di un mondo sepolto: il mondo dei morti. È questa dote, con la quale colma un'altra mancanza più grande (la perdita dell'amore, il volto sognato, presente, vivo nella mente, sotto la profondità degli occhi chiusi nel sonno – mi riferisco alla scena del treno, in cui il controllore lo desta dal sogno, violentemente dissolta l'immagine della donna perduta, per sempre – che decreta l'estraneità di Arthur (Josh O’Connor) alla "chimera" del guadagno illecito da perseguire, a scapito della sacralità dell'aldilà e dell’arte. La profanazione, da parte di una bizzarra banda di tombaroli che incarna l’incapacità di sentire, ricordare, provare compassione, di un mondo che continua a esistere in ciò che resta (statue, corredi funebri, amuleti fallici) indica anch’essa, per contrasto, la sopravvivenza di qualcosa che si ritiene non esista più o che, appurato che esiste, debba essere usato, “utilizzato” per trarne profitto, coerentemente con quella che si configura sempre più come una peculiarità dei nostri tempi. L’emersione di un passato sepolto è invece ritorno, ricordo, si lega alla memoria non solo storica (gli etruschi) ma anche personale, emotiva (il vuoto lasciato dall’amore che resiste, nella perdita); è dinamica del flusso delle cose, divenire in atto, assimilazione dello spazio nel tempo lungo dei piani, così lenti ad attraversare lo sguardo per la Rohrwacher, come già in Lazzaro felice.

Tutto l'immaginario legato a ciò che è sepolto, che si ritiene perduto ma che esercita ancora attrazione, fascino e che perciò riemerge, rompe la superficie; la lacera dal profondo, come fosse un richiamo ancestrale, che arriva dal ventre della terra (e in ciò si capisce il potere da rabdomante dell'inglese, questa figura singolare, fuori dal tempo, sognante, bizzarra, a tratti tristemente buffa), è anch’esso, dal momento in cui il protagonista ne diventa consapevole, quando cioè restituisce al mare il reperto, scrittura «attorno a un vuoto», forza creante a partire da un punto di prossimità nel quale confluisce la dinamica disgregante, decostruttiva dell’immagine cinematografica. L' atto di costituzione della scrittura, nello specifico della scrittura critica che molto ha in comune con quella che Derrida denominava «archiscrittura», ossia atto costitutivo in sé, è punto zero del pensiero, lingua che diviene, confluire diveniente di (s)oggetti pensa(n)ti; poiché si (dis)fa nel culmine dell'espressione, questa "cosa" in costruzione è essa stessa decostruita a partire (o sul finire) della parola pronunciata/scritta e, anzi, proprio in virtù della mise en abyme del suo prendere corpo, incarnare il corpo del visibile sulla pagina scritta del reale. Ma è questo reale (in)definibile ad essere al contempo avvio e fine, partenza e chiusura di un logos (λόγος) che sfugge a qualsiasi definizione, sottraendosi paradossalmente al dicibile. Dunque l'"ab-origine" del pensiero viola qualunque canone di appartenenza diventando già altro – e qui Derrida scrive di letteratura, filosofia, vita, contaminazioni, messa a fuoco e fuga.

«[…] Ciò che non si può dire anzitutto non bisogna tacerlo, ma scriverlo […] Io sono un uomo di parola, non ho mai avuto niente da scrivere. Quando ho qualcosa da dire lo dico o me lo dici, basta. Tu sei l'unica a capire perché è stato necessario che scrivessi esattamente il contrario, trattandosi di assiomatiche, di quanto desidero, di quanto so essere il mio desiderio, in altri termini di te: la parola viva, la presenza stessa, la prossimità […]»: l’alterità della parola, questo desiderio imprescindibile di scrivere, di tendere quanto più possibile alla vita, si struttura – anzi, si destruttura – mediante una fenomenologia che incarna l’unica possibilità di fissare, dando fondamento e memoria, al vuoto. Così l’immagine cinematografica, che è luce, movimento, pensiero, linguaggio, prende forma e corpo in tutta quella sintassi della mancanza che la Rohrwacher teorizza con un tipo di scrittura sempre allusiva, sospesa, radicale.

Ed è questo spostamento semantico, costitutivo, questo “tenere tutto”, inglobare tutto nella molteplicità differenziale delle cose, il dire del cinema, lo scrivere del cinema e sul cinema che è assimilabile alla molteplicità della finzione in atto, quella cioè del vivere nell’immagine e dell’immagine, col suo fantasma persuasivo, ipnotico: come le caverne, che accolgono “diversamente” i corpi di Bruno, sepolto sotto la neve, in Le otto montagne oppure di Raphaël, che si “veste” della bruna terra, facendo “forma cava” delle sue stesse membra nel film L’homme d’argile, come l’immersione nel dedalo delle strade di Napoli fino alla città sotterranea di Nostalgia – opera che esplicita quella che, in un precedente numero di Uzak, definisco «archeologia della memoria» (https://www.uzak.it/rivista/uzak-42/archeologia-della-memoria-ed-etnologia-di-se-lettere-confessioni-diari/l-archeologia-della-memoria-in-nostalgia-di-mario-martone.html) e che compie a ritroso un recupero sostanziale persino della lingua, oltre che di una storia personale attraverso il “dolore del ritorno”, del ricordo – così, seppure nelle specificità sintagmatiche e di pensiero di Van Groeningen e Vandermeersch, di Tellenne e di Martone, anche per Alice Rohrwacher la dimensione legata a tutto quello che può essere riconducibile all’ipogeo si manifesta nella dimensione che attiene, sostanzialmente, al profondo del sé, al sogno, alla vita e alla morte, all’amore, alla rinascita dopo la vertigine, nonostante la permanenza dell’abisso. 

Ha ancora più senso, allora, questo “vuoto” che si spinge al di là dei limiti del visibile e attorno a cui si scrive. 

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