Anche solo soffermandosi su due tra i suoi ultimi film, Bagnoli Jungle e Il buco in testa (Achille Tarallo è una cosa a parte, eppure, a suo modo, parte di questa cosa) sul loro precipitato estetico – una densità dell'immagine, proprio dell'aria che vi si respira; una tridimensionalità sfessata eppure renitente: brulicame di ioni, di nuvolaglie, cieli slavati, a cavallo di Rossellini e Pasolini; epifanie o vere e proprie ierofanie per quanto larvate, pagane – ci si chiede come mai il cinema di Antonio Capuano sia rimasto ai margini dell'apparato cinematografico italiano; per nulla distribuito, o distribuito male, quasi a malincuore (e non se ne capisce il motivo), se è vero che l'ultimo film apparso in sala, in più di una copia, fu L'amore buio nel 2010.

Se lo chiede anche Christian Raimo nell'introduzione al volume Da una prospettiva eccedente. In dialogo con Antonio Capuano, edito di recente da Artdigiland, a cura di Armando Andria, Alessia Brandoni, Fabrizio Croce. Raimo fa riferimento a Sorrentino e al fatto che grazie al successo di È stata la mano di Dio, la figura di Capuano sembra avere ripreso vigore nell'immaginario cinematografico (e non solo) contemporaneo, soprattutto con la formula «non ti disunire» che ha cominciato a circolare qua e là come un'antifona, un ritornello, e che a ben guardare, può essere assunto a sintesi di un'intera poetica, di una poetica dell'interezza.

Ecco, un aspetto interessante di questa introduzione è il metodo assunto, che poi sarà quello adottato anche da Brandoni nel suo saggio, interpretazione di Vito e gli altri: trarre una gnome, una definizione, dallo scavo dei segni, restando aderenti al testo. Cioè l'ipotesi di un cinema non disunito, ma compatto, evidentemente, materialmente visibile – «incensurabile» – anche al di là o proprio in ragione della tendenza del regista a sottrarre, togliere dati, dettagli narrativi. Insomma un che di contemplativo, di inquietamente contemplativo – brulicame, fibrillazione molecolare; apparizione, sparizione di forze cinematografiche in forme aeree, nella forma, nello stile, di una sorta di camera-stylo inquieta, intemperante – che è anche la tesi di Andria nel suo saggio sulla presenza, sul presente – io direi anche «presentificazione» – del cinema di Capuano al di là del tempo.

Ma quello che colpisce in questa introduzione – e che dà l'occasione di fare un discorso sulla critica – è, oltre al metodo, la scrittura, la struttura di questa scrittura, a cui può attagliarsi la stessa dicitura capuaniana: una scrittura compatta, armoniosa, in cui la sintassi, il lessico, la coesione del testo non sono elementi superflui, come purtroppo accade in gran parte della critica cinematografica contemporanea – sempre più lacunosa, sgrammaticata, collusa coi gerghi dei social – ma parte fondante di ogni formulazione. Allora capita, nelle poche occasioni in cui capita, di cogliere più cose nella forma della scrittura (sul cinema), nei gangli della sintassi, nella complessione lessicale, nel come-dire, anziché nei significati, nel cosa-dire.

Anche il tono dello stesso Capuano che imperversa in tutta la prima parte del libro è la dimostrazione che la ricerca di una forma di espressione (proprio la pronuncia, la prosodia) è quella di una forma di vita; il tentativo di dare un indirizzo – estetico, etico ecc. – all'andamento fluviale, indistinto, ottuso della propria esistenza. E allora eccolo squillante e sinuoso – calco scritturale, per forza di cose, sulla pagina, del suono della voce di Capuano, che rimanda a qualcosa, un mondo, uno spazio e un tempo, esausto, elegiaco eppure impegnato, politico – l'intercalare «cazz» che sottolinea le asserzioni, le ipotesi: ad esempio la predilezione, l'entusiasmo per i gialli di Van Gogh, la figuratività di Bacon, la corporeità di Pasolini ecc..

Chi l'ha sentito parlare almeno una volta risale in automatico dal testo, dalla parola scritta, riportata sulla pagina, al suono suadente e vitale della voce di Capuano, tra inflessione partenopea e scansione precisa, anche compiaciuta, di termini eloquentemente italiani. Il cinema di Capuano è tutto qui, in questa modulazione sonora, vocale – che il libro ha il merito di riportare: come la suggestione di qualcosa di lontano, di perduto; un riflesso, magari un barlume marino –, nella mimica, nelle inflessioni, traslate poi fedelmente e istintivamente dentro il palinsesto delle immagini, del suo cinema. Un cinema onesto e allo stesso tempo ardito, fremente nella sua compattezza e densità, che non censura nulla e mostra posti, ruvide vicissitudini, corpi ora rudi ora adolescenti, levigati, come quelli di Nunzio e Lorenzo di cui parla nel suo saggio Fabrizio Croce, che del resto era partito – ecco che il cerchio si chiude – dal mancato finale di Salò di Pasolini, ulteriore iscrizione a cui può essere ricondotto il cinema di Capuano: «È amore».

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