Era molto tempo che, evidentemente a causa delle restrizioni e contenzioni, non uscivano tanti film interessanti uno dopo l'altro o uno insieme all'altro. Il che è una fortuna, lo sarebbe anche a prescindere dalla qualità dei film, perché significa comunque tornare in quei santuari che sono le sale cinematografiche, il cui decor vellutato, buio, con il quadro che fa lampeggiare in ogni momento fantasmi forforici, non è qualcosa di passivo, un contenitore, ma rientra nel film, lo penetra, condiziona la visione, le dà spessore, suggestione: sono le forme, le condizioni di luce (penombre) di un luogo, le tende, il silenzio denso che interagiscono con le immagini sullo schermo, con i luoghi, gli spazi dentro lo schermo.

Ecco perché difendiamo le sale: non perché siamo passatisti o perché ci piacciano gli esercenti, ma perché lì si offre la condizione ideale per guardare, cioè immaginare. Ad esempio mi chiedo quanto avrebbe fatto bene a un film come Acque profonde la visione in sala: io credo, moltissimo, con tutta la patina carnea di Lyne, il suo voyerismo polposo, come la polpa della lingua di Ana De Armas da cui lei toglie via un pelo (scena divenuta già feticcio), la carne dello sguardo, dei feticci esaltati in quella penombra lubrica.

I due film più attesi erano Licorice Pizza di Paul Thomas Anderson e Spencer di Pablo Larrain. Per me due delusioni, anzi dovrei dire la conferma di un cinema che non mi entusiasma, un cinema supponente e derisorio dello spettatore (e dei personaggi), con eccezione forse di Ubriaco d'amore e di Ema. Anzi Ema è senz'altro il film più bello di Larrain e tra i più belli visti negli ultimi tempi: una vitalità ottusa quanto insperata, un gusto per la contraddizione, per la coesistenza e lo scontro di istanze opposte, come l'esaltazione del ballo di Ema e d'altro canto la parodia che ne fa Gastón. Film complesso, stratificato, bipolare.

Spencer invece già dalla premessa - un film su Lady Diana - lascia indifferenti o quantomeno lascia me indifferente: non capisco questo interesse che Larrain ha per i "grandi" personaggi della politica, paradossalmente poco o per nulla rappresentativi dell'umano, dell'immaginare, del sentire di ogni metaplasma invischiato in uno degli spazi-tempo che sono la nostra realtà. Prima Jackie, ora appunto Spencer (e prima ancora un Neruda detestabile, ripugnante): come se l'orrenda ottusità della Storia, l'idiozia del potere, anzi dei potenti, avessero (o avessero ancora) bisogno di essere mostrati.

Nessun sussulto, nessuna emozione, nessun piacere in favore di camera. Quando Larrain s'è dedicato alla storia invece, quella minuta, "plebea", il grado comune dell'essere e dell'ordinarsi, disordinarsi, disorientarsi nel mondo, Ema appunto, il risultato è stato eccezionale. Lo stesso vale per Sorrentino, finalmente liberatosi di personaggi "improbabili", mere freddure dell'immaginazione: la rockstar decaduta, Andreotti, Berlusconi, il nano usuraio, la monaca-mummia e mille altri personaggi di cartapesta, tanto vezzosi quanto privi di spessore, di vita. È stata la mano di Dio è un film personale nel senso che torna alla persona, all'ampia rappresentatività che ha la persona, alla rappresentatività di personaggi e vicende comuni cioè assoluti: la giovinezza, il dolore, la solitudine, il lutto, il sesso, tutto in relazione a Fabietto, un ragazzo confuso che guarda il mondo con occhi attoniti. Lyotard direbbe narrazioni anziché metanarrazioni. 

E in effetti Licorice Pizza sarebbe una narrazione, ma è così faticosa e greve, così cisposa, verbosa, che si perde il senso, la leggerezza della giovinezza, la freschezza della storia d'amore, ammesso fosse questo l'obiettivo di Paul Thomas Anderson e non invece il solito passivo nichilismo che è anche di Larrain, una marcescenza dell'immagine, la riduzione della materia cinematografica a cadavere. Impossibile conoscere a fondo i personaggi, tutti tesi nella loro sciocca superficie (mi viene in mente un film come Giulia di De Caro in cui invece questa idiozia snervante lascia trasparire un sentimento, uno struggimento, il disagio di ogni essere al mondo e di ogni tentativo di immaginarlo). È un film faceto, grevemente faceto, un film tutto di testa, come si dice, film pensato, ponderato grevemente, pesato ponderosamente, che scherza ma non con lo spettatore, scherza lo spettatore, lo prende in giro, così come prende in giro i suoi personaggi irretiti in un'idiozia senza speranza e senza controcanto: personaggi privi di emotività, solo burattini al servizio del cinico capocomico.

Mi sbaglierò, ma credo che oggi il cinema abbia bisogno di serietà (anche la commedia è una cosa seria, anzi serissima), di prendere sul serio personaggi, vicende, proprio la gnoseologia che porta all'edificazione di immagini. Ripensando a ciò, a questioni riguardanti la forma, le strutture cinematografiche, la serietà delle poetiche, ultimamente mi sono convinto una volta di più che un film come Martin Eden di Marcello sia un capolavoro, uno di quei film di cui forse ci si ricorderà tra qualche anno come di un'opera assoluta, come ci si ricorda di Stromboli, Viaggio in Italia, con il riferimento rosselliniano niente affatto casuale.

Rispetto al bluff di questi due film dalle enormi, vuote pretese ermeneutiche (ecco, un'estetica del vuoto ermeneutico si potrebbe dire, che può essere interessante all'inizio ma che poi stanca), restando ai film usciti in questo periodo, trovo molto più onesti film come Parigi 13arr. di Jacques Audiard, Una storia d'amore e di desiderio di Leyla Bouzid, Un altro mondo di Brizé (che ha dei momenti di grande cinema, a prescindere dal tema di cui si occupa) o Scompartimento n. 6 di Jhuo Kousmanen che peraltro tratta proprio di una storia d'amore "rudimentale", tra esseri semplici, goffi, ma dotati di un'emotività che dà luce alle immagini, anche nel chiuso di uno scompartimento o negli orizzonti gelidi e slavati del nord.

Venendo a questo numero 41, confermiamo la collaborazione con il mondo accademico e con la critica militante sudamericani (i cui articoli sono presenti sia in italiano che in spagnolo): il focus a cura di Giovanni Festa riguarda le città in quanto contesto tutto cinematografico piuttosto che geografico. L'immagine delle città, la loro trasfigurazione verso contesti simbolici, semiotici, piuttosto che la mera mimesi urbana. Poi l'ultimo articolo di Raffaele Cavalluzzi, tra i fondatori di Uzak, scomparso di recente, a cui dedichiamo questo numero. Buona visione.

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