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Sangue del mio sangue, sin dal titolo, è un film che esibisce una struttura simmetrica: la stessa parola, “Sangue”, collocata all’inizio e alla fine delle quattro parole complessive che, a coppia, presentano sempre lo stesso numero di lettere (quelle centrali, “del” e “mio”, che indicano ciascuna il possesso, infatti sono di tre); due vicende parallele; due epoche; due tempi (in senso cinematografico, un primo e un secondo tempo); due paradigmi interpretativi, uno che rilegge il passato attraverso il presente, l’altro che rilegge il presente attraverso il passato.

Il raddoppiamento coincide tuttavia con un’equazione. Detto altrimenti, i termini, le vicende, le epoche, i tempi corrispondenti sono speculari, sovrapponibili, sebbene questa sovrapposizione non sia affatto perfetta. Al contrario, lascia ogni volta affiorare un dettaglio di disomogeneità importante. Importante per comprendere il senso dell’operazione, che è logica, metodica, ma anche, nella sua stringente razionalità, fuorviante. Un po’ come se l’autore cercasse da un lato di rendersi comprensibile, chiaro, inequivocabile, dall’altro però di evitare, addirittura di sfuggire una chiave univoca di lettura. Entrare nel meccanismo bellocchiano vuol dire esattamente questo: accettare un sistema operativo che non offre sempre e comunque garanzie assolute di intelligibilità. Difficile, quasi impossibile chiudere il cerchio, ridurre la partita ad un esercizio ermeneutico semplice, o comunque complesso, ma non impraticabile. Quando i conti sembrano tornare, ecco l’elemento di discontinuità e alterità pronto a sconvolgerli, a rimettere in gioco ipotesi e piste interpretative, che pure dai suoi testi, estremamente coerenti e allusivi, ciò nondimeno ambigui, erano scaturite.

Il punto è questo: non è la prima volta che mi vien chiesto di occuparmi di questo film, inevitabilmente, dopo quattro anni di lavoro quasi ininterrotti dedicati all’opera di Marco Bellocchio, confluiti in un libro per me molto faticoso, ma anche molto entusiasmante dal titolo La recita della storia. Ora, Sangue del mio sangue è il primo dei suoi film cui mi sono avvicinato senza più l’incombenza di quel libro, ma che inevitabilmente si offre come un’occasione di conguaglio. Anche la consequenziale scelta di scriverne, in diverse occasioni e contesti, quindi per diverse testate, ha obbedito al medesimo criterio di adoperare una formula in cui puntare al raddoppio mantenendo intatta l’impostazione di base, cioè di procedere sempre a scrivere la stessa cosa, le stesse cose, nello stesso modo, scoprendo o inserendo all’occorrenza utili elementi differenziali. Una questione, come sempre, complice le modalità discorsive di questo film in particolare, di procedere per «differenza e ripetizione», sulla falsariga di un paradigma di lunga durata che unisce, nel tempo e nelle combinazioni di fatti, circostanze e approcci concettuali, Friedrich Nietzsche, Jorge Luis Borges, Gilles Deleuze e naturalmente Leonardo Sciascia, ovviamente nella prospettiva di romanzo già scritto o “recitato” che è il caso Moro. Mi sono dunque messo all’opera una sola volta su Sangue del mio sangue, poi ho stralciato un blocco consistente del testo per il mensile «Cineforum», conservandone una parte inedita che invece stavo parallelamente usando per il trimestrale «Marla». Risultato: l’intervento su «Cineforum», più lungo, non contiene il blocco iniziale che appare nella versione prodotta per «Marla», mentre a quest’ultima manca, in senso anche lacaniano, la serie di esempi di «coincidenze significative» che riportano il film sui binari, non del tutto dismessi, della storia italiana che si intreccia con quella professionale e artistica di Bellocchio, in cui il caso Moro fa da spartiacque. La cosa più curiosa è che nella parte comune, salvo qualche leggera modifica contingente, nel momento in cui scattano alcuni riferimenti junghiani, poi recepiti nella cornice (anche) del caso Moro, da Giorgio Galli, commetto un errore. Un refuso.

Ma procediamo con ordine. Incominciamo con «Cineforum», con il testo che segue:

I film di Bellocchio sono rebus audiovisivi. Estremamente articolati. Che rimandano spesso e volentieri a una suggestiva dimensione privata. Specialmente quelli realizzati nel suo “posto delle fragole”, Bobbio, in cui la massima concentrazione geografica e (auto)biografica riflette al contrario implicazioni a largo spettro, in chiave collettiva, storica e politica. «Il mondo è piccolissimo, altro che vasto. Bobbio è il mondo»: parola del vecchio conte Basta, il vampiro, l’ultimo, che ha una certa dimestichezza con l’interminabile e gravoso tempo trascorso, temperata da una profonda, intransigente diffidenza verso lo spazio esterno. Lo dice con cognizione di causa, come personaggio prigioniero di se stesso e in cerca d’autore (all’occorrenza Bellocchio), in sprezzo alla fiduciosa idea di «vasto mondo» di matrice anderseniana espressa dal fidato e sussiegoso servitore Angelo. Il conte di queste cose se ne intende, in quanto figura chiave di una comunità dell’entroterra piacentino che sopravvive orgogliosa e timorosa dei mutamenti, mentre chiusa in se stessa rimpiange un mondo perduto, che è un po’ quello dell’età feudale, ma anche l’epoca del dominio assoluto della Democrazia Cristiana, il cui simbolo, lo scudocrociato, coincide con lo stemma della stessa Bobbio.
Quanto più l’autore bobbiese per eccellenza, Bellocchio, restringe l’obiettivo delle sue parabole, puntando sulla gratuità degli eventi e dell’apparente nonsense, tanto più ci si accorge che la posta in gioco è decisamente alta, indecifrabile, indicibile. I suoi film più dichiaratamente “piccoli”, come Bobbio, domestici, a gestione familiare, sono anche i più liberi, ambiziosi, sganciati dalle regole della domanda e dell’offerta. Ma non da quel principio di realtà semmai impressionante, ambizioso, impertinente.
Sangue del mio sangue rientra di diritto in questa insospettabile categoria progettuale, potenziandola, fino a spingerla alle estreme conseguenze significative. In altre parole, nonostante il budget molto ridotto, l’ultimo piccolo capolavoro bellocchiano è un home movie anomalo, persino troppo costoso, impegnativo, irridente per passare inosservato. O essere trascurato e magari dato in pasto al solo pubblico d’èlite. Funziona, in un certo senso, come un dispositivo metanarrativo in cui un valore centrale lo assume ogni scena, coincidenza topografica, onomastica, musicale, ogni associazione d’idee suggerita mediante sovrapposizioni di situazioni, volti, ruoli, luoghi, personaggi pregressi e presenti, purché sfasati o non del tutto coerenti, quanto basta per non risultare eccessivamente intellegibili. Cioè a discapito della trama stessa, o per meglio dire delle strane trame, legate tanto a Bobbio quanto all’Italia di ieri, di oggi, immobile, preda dei suoi vampiri secolari. Trame narrative, trame occulte, inutile distinguere le une dalle altre, poiché comunque si avvicendano, si biforcano, si allontanano, si riavvicinano, intersecandosi e accumulandosi pretestuosamente tra passato e presente senza soluzioni di continuità. Collocate in uno spazio riconoscibile, rievocativo, foriero di un’identità, Bobbio, sì. Ciò nondimeno fuorviante. La struttura aperta di Sangue del mio sangue, dove i due episodi, pur condividendo la medesima cornice ambientale, vengono dislocati nel tempo senza però combaciare in termini né logici né cronologici (il primo non fa da premessa del secondo, che a sua volta non ne costituisce la trasposizione al presente), risulta indispensabile affinché prevalga un criterio alternativo e spericolato di svolgimento a monte e di lettura a valle delle immagini. E alternativo vuol dire basato sulla «sincronicità». Almeno secondo la prospettiva di Bellocchio, specialmente dalla fine degli anni Settanta. Vale a dire, in concomitanza con gravi e determinanti eventi di portata politica nazionale e internazionale, in primis il caso Moro. Lo dimostrano in particolare i tracciati emblematici e sempre sbilanciati tra dimensioni e tempi divergenti, di alcuni dei film cui Sangue del mio sangue rimanda esplicitamente: Vacanze in Val Trebbia, Enrico IV, La visione del sabba, L’ora di religione, Buongiorno, notte, Il regista di matrimoni, Sorelle/Sorelle Mai, Vincere. Attraverso questi film, e non solo, che Sangue del mio sangue riprende e ricuce a suo modo, fa e disfa in continuazione, prosegue insomma un percorso complesso, autoreferenziale, a prima vista labirintico. E con esso un discorso non meno sottile e a tratti, solo a tratti inafferrabile.
Siamo con Sangue del mio sangue in presenza di un tracciato lastricato di eventi, dettagli, indizi – attenzione – non sincronici, bensì soggetti al principio ben diverso della «sincronicità», come Jung definiva le «coincidenze significative» anche temporali, sciolte tuttavia dal vincolo della causalità. E non sorprende che alle «coincidenze significative», per ovvie ragioni «a-casuali», si sia appassionato – diciamo così – Giorgio Galli, di necessità molto aperto alle inevitabili suggestioni junghiane e post-junghiane in materia di «sincronicità», categoria particolarmente adatta alle cose italiane, in assenza di verità ufficiali [cfr. Galli 2010, ndr]. E se uno dei maggiori studiosi del caso Moro e di molti altri concomitanti “passi oscuri” della storia politica nazionale, il politologo Galli per l’appunto, ha riconosciuto l’importanza delle «coincidenze significative», come ignorane l’impatto (in)cosciente su un autore cinematografico che con quegli stessi avvenimenti ha fatto sullo schermo i conti in più di un’occasione, direttamente o allusivamente1?
altLa deliberata assenza di nessi logici tra questi due tempi interscambiabili, contigui, paradigmatici, il Seicento e l’oggi, più paralleli che progressivi che Sangue del mio sangue esibisce con ironia e inquietudine, come destini incrociati a prima vista sconnessi, alternando il serio al faceto con assoluta irriverenza, induce a scavalcare l’impianto generale del racconto. E a privilegiare una trama che non è certamente quella esterna, appariscente, immediata. Dunque a cercare tali «coincidenze significative» tra le pieghe della stravagante combinazione o giustapposizione di epoche, eventi e figure reali o fantasmi che si aggirano nel film, rimbalzano da un segmento all’altro indisturbati, restando identici a se stessi o magari mutando posizione e gender all’interno dello scacchiere audiovisivo. Insomma si tratta di intercettare le corde segrete di questa vistosa rimpatriata bobbiese del suo più prestigioso concittadino, virtuoso della messa in scena e in quadro, e mettere nel contempo a profitto qualsiasi conclamata stravaganza che si colloca fuori dalla stretta, coerente e indispensabile economia del racconto: individuare in definitiva l’essenziale nell’opera d’arte, il segreto che si sottrae ma non del tutto all’evidenza, la «cifra» o la «figura», comunque la si voglia chiamare o tradurre, sulla falsariga di uno dei racconti chiave di Henry James, La cifra nel tappeto [cfr. James 1964, ndr].
In rapida sintesi Sangue del mio sangue potrebbe essere affrontato a partire da uno qualsiasi dei numerosi, infiniti elementi sensibili che assembla e sottopone all’attenzione dello spettatore, simile a un puzzle in cui non è dato conoscere il numero esatto di pezzi disponibili o sostenibili. Ad esempio abbiamo scelto di intitolare questo intervento Un coro di fantasmi rigorosamente tra virgolette perché è una citazione dell’ultimo verso con cui Bellocchio chiude la scena dell’estemporaneo canto degli alpini cui si trova ad assistere il vetusto conte-vampiro. Un verso che da solo racchiude il sistema operativo su cui si regge Sangue del mio sangue, popolato com’è di incarnazioni o reincarnazioni di un immaginario cinematografico personale e di tracce indelebili di storie, con l’iniziale minuscola, e della Storia, con la maiuscola, con la quale tale immaginario e la filmografia che lo sorregge stabiliscono un rapporto costante, un «conguaglio continuo», per dirla con Cesare Zavattini. Il ricorso al canto degli alpini, non uno qualsiasi, ma per l’esattezza Sul ponte di Perati, della Brigata “Julia” è quantomeno strategico. Spieghiamoci meglio. È il canto in cui «la meglio zoventù che va sot'tera» aveva già suggerito a Pier Paolo Pasolini la celebre, omonima raccolta poetica del 1954, prima di diventare il titolo dell’altrettanto omonimo film di Marco Tullio Giordana del 2003, che in tema di terrorismo non ha esitato ad adoperare il motivo del tango di Astor Piazzolla Oblivion, già presente – guarda caso – nell’Enrico IV di Bellocchio. Ma le «coincidenze significative» a proposito di Sul ponte di Perati non si esauriscono qui. Il ponte del canto in questione non può non far pensare al Ponte Gobbo di Bobbio, che è l’asse gravitazionale della doppia vicenda, e per la sua felice imperfezione architettonica spiega simbolicamente la condizione del film stesso, sospeso tra due blocchi narrativi diseguali, congiunti da un elemento di raccordo bizzarro, che ne sigla l’impressionante, voluta disomogeneità. Per non parlare dell’asse Pasolini-Bellocchio, che fa scattare ben altra ricorrenza. Infatti Sul ponte di Perati è lo stesso canto intonato a tavola dagli aguzzini di Salò ole 120 giornate di Sodoma, provocatoriamente o in virtù forse del «bandiera nera» che viene subito dopo il verso inaugurale, mentre il pittoresco personaggio del Presidente, interpretato da Aldo Valletti e doppiato proprio da Bellocchio, si lascia allegramente sodomizzare. Restando, date le circostanze, in silenzio.
Altra possibile combinazione è la modalità con cui tornano Anna, Giulia e Maddalena, i nomi femminili ricorrenti usati da Bellocchio nella serie di corrispondenze interne che assumono valenza singolare specialmente alla luce del caso Moro. Ebbene, nessun personaggio in Sangue del mio sangue si chiama espressamente così. Eppure abbiamo un dottor Cav-Anna, cognome del dentista massone, una Brigata alpina “Julia” e un riferimento alla suora/strega Benedetta a «immagine della Maddalena». Tra le tante Maddalene che nella filmografia di Bellocchio assurgono a eroine-contro, la più intransigente è stata la strega di La visione del Sabba. Non per niente la Benedetta di Sangue del mio sangue rimanda in più di un’occasione alla Maddalena di La visione del sabba, la sedicente strega precedente foriera di curiosi riferimenti alla figura della carceriera di Moro: pensiamo alla scena in cui compare legata a testa in giù, alla seduzione pericolosa del suicida Fabrizio e soprattutto del rinunciatario, futuro cardinale Federico Mai, i suoi veri o simulati “confessori”. Ma il nome Benedetta ci riporta anche al primo e più impressionante episodio di La macchina cinema, dal titolo Era San Benedetto, quindi all’indotto di riferimenti ivi contenuti ancora una volta riconducibili al caso Moro. Mentre il cognome Mai, oltre a ricalcare quello dei protagonisti di Sorelle Mai, introduce ulteriori armenti significativi se si prova a far buon uso delle trascrizioni foniche «my», mio, o «may», maggio. E qui ognuno tragga, se vuole, le dovute conclusioni interpretative. Così come è giusto trarle a proposito del tema del suicidio, o del doppio, che riguarda e nel contempo trascende la dolente biografia bellocchiana, per investire l’indotto moroteo. E di cui anche il titolo Sangue del mio sangue, con la sua simmetria lessicale, riferibile alla struttura del film o alla consanguineità, ricorda il drammatico anatema di Moro prigioniero lanciato sull’intero stato maggiore della Dc: «Il mio sangue ricadrà su di loro». Timore quest’ultimo, condiviso dal giovane Federico Mai. Per non parlare di altri passaggi lessicali non meno sibillini, che ricordano da vicino il processo brigatista a Moro: il riferimento nell’episodio seicentesco alla «sentenza» attesa dal cardinale che Cacciapuoti reclama, insistendo perché Benedetta confessi; o nell’episodio presente quello alla «base» che potrebbe non condividere le decisioni prese nello studio dentistico dal nucleo ristretto di vampiri-massoni bobbiesi. O ancora l’insistenza sul convento-prigione e la «prigione nella prigione», come Bellocchio ebbe a definire ai tempi di Buongiorno, notte il presunto vano di via Montalcini in cui sarebbe stato detenuto Moro, cui rimanda inequivocabilmente l’angusto spazio all’interno della prigione in cui viene murata Benedetta. Del resto lo stesso edificio in cui si consuma la clausura di Benedetta prima e del conte Basta dopo è ricavato nel convento di Santa Chiara, tenendo conto che il nome Chiara, oltre a essere quello assegnato alla carceriera di Buongiorno, notte, ovviamente, è lo stesso della santa cui è intitolata la chiesa romana in Piazza dei Giochi Delfici, dove Moro ogni mattina alle 9 si recava, tanto che inizialmente i brigatisti avevano progettato di rapirlo proprio lì. E che dire addirittura di Benedetta che, indenne e indifferente al tempo trascorso, abbandona con passo lieve la prigione nella prigione? Il collegamento con il Moro immaginario, infine libero nel celebre e controverso finale visionario di Buongiorno, notte, passa attraverso l’immagine della Gradiva di Wilhelm Jensen, riletta da Sigmund Freud, già al centro di L’ora di religione. E che Bellocchio recupera a sorpresa anche in Buongiorno, notte, non più come figura femminile in bassorilievo bensì come icona riconducibile a Moro: «Libero, alla fine, col suo passo leggero, quasi “saltellante”, mi ricorda ora il passo armonioso e leggero della Gradiva. Immagine femminile scolpita nella pietra, movimento immaginario. Immagine maschile impressionata nella pellicola, doppio movimento visibile e invisibile. E parafrasando la domanda finale di Massimo Fagioli nel saggio Una storia una ricerca un film, su Salto nel vuoto: “Ma Anna chi è?” mi domando oggi anch’io, alla fine: “Ma Moro chi è?”» [Bellocchio 2003, p. 9, ndr].
Seguendo e concludendo il “ragionamento”, ecco che una connotazione alquanto liberatoria assume anche il finale di Sangue del mio sangue, con la Guardia di Finanza che sopraggiunge all’alba, dopo che i due vecchi paralleli, il cardinale Mai e il conte Basta sono morti nei rispettivi episodi e nelle rispettive epoche cinematografiche in cui si consuma la parabola bobbiese attraversata da «sincronicità» di ogni tipo. Si direbbe che Marco Bellocchio, nel demandare al figlio e alter ego Pier Giorgio il possesso allusivo delle chiavi della prigione, cui poter accedere a propria discrezione o infine decide di gettare nel torrente, onde non cadere più in tentazione, con la parabola di Sangue del mio sangue, film meno autoreferenziale di quanto si creda, abbia voluto chiudere una stagione di fantasmi personali e collettivi. E compiere così un gesto cinematografico assolutamente libero, anzi liberatorio, esprimere un desiderio di catarsi allargata, raccogliendo attorno a sé, nella “sua” Bobbio, attori, parenti e amici, intercambiabili. Compresi i ciechi che ci vedono benissimo, i pazzi che tali non sono. E – perché no? – un musicista e miliardario russo interessato all’acquisto della prigione di Bobbio, intenzionato a trasformarla in un hotel di lusso. Che ai dietrologi, ma non solo, non può non far venire in mente il presunto “grande Vecchio”, ovvero il misterioso compositore e direttore d’orchestra Igor Markevitch (che tra l’altro aveva già ispirato Federico Fellini per Prova d’orchestra), chiamato in causa dal complicato intrigo di congetture che ha portato studiosi, giornalisti e presidenti di commissioni parlamentari d’inchiesta a interrogarsi sull’ex Villa Odescalchi, divenuto il prestigioso hotel situato sul litorale a nord di Roma come possibile prigione del presidente democristiano rapito e assassinato il 9 maggio 1978.

Fin qui il mio Sangue del mio sangue per «Cineforum». Non riscriverò integralmente quanto scritto per «Marla», ma mi limiterò, di seguito a riportare la porzione di testo differente:

La complessità di Sangue del mio sangue è direttamente proporzionale alla sua “leggerezza” e inversamente alle sue “dimensioni”. Non è soltanto uno dei non pochi film bellocchiani di quello che potremmo, a posteriori, chiamare il “ciclo di Bobbio”, inaugurato cinquant’anni fa direttamente dal seminale lungometraggio d’esordio I pugni in tasca. E proseguito con progressiva, consapevole intensità, solo apparentemente in sordina e in chiave privata, di volta in volta documentaristica o di (relativa) finzione, ai limiti del film domestico, rigorosamente a condizione familiare, con Vacanze in Val Trebbia, Sorelle, poi esteso e divenuto Sorelle Mai, ma anche Addio del passato. Il concetto di consanguineità, indice di confidenzialità territoriale e sociale, affettiva e psichica, è strettamente connesso in termini cinematografici con la scelta di eleggere Bobbio a centro gravitazionale della messa in scena e in quadro di fantasmi e fantasie slegate dal principio di realtà e di racconto coerente. Bobbio non è soltanto il “posto delle fragole” di Marco Bellocchio, ma con cognizione di causa storica, antropologica e psicologica, il luogo geometrico in cui al riparo di una provincia modulare che funge da filtro e da maschera affiorano le proprietà indiziarie e tragicomiche riconducibili a un’emblematica Italia di lunga durata, per non dire al mondo intero. «Il mondo è piccolissimo, altro che vasto. Bobbio è il mondo», sottolinea il conte-vampiro di Bobbio, a capo di una conventicola di maggiorenti del paese che assume connotazione massonica inequivocabile. Questo stanco e anziano conte, con i canini doloranti e scarsa voglia ormai di succhiare sangue altrui, contornato da sodali rimanda ovviamente al conte Bulla di L’ora di religione (allora interpretato non per niente da Toni Bertorelli, che in Sangue del mio sangue fa il dentista del conte, pur sempre affiliato alla suddetta cerchia ristretta), o i personaggi che partecipano alla seduta spiritica di Buongiorno, notte, alla ricerca del luogo di detenzione di Moro, capeggiati anche stavolta da un attore che ritroviamo in Sangue del mio sangue nei panni del bonario frate inquisitore: Alberto Cracco. In entrambe queste scene pregresse di L’ora di religione e Buongiorno, notte, vale la pena di ricordarlo, abbiamo sempre trovato a latere Bellocchio stesso, in veste di attore, ma anche di autore che con la sua sola presenza sigla ironicamente una volontà testimoniale. Sangue del mio sangue porta a compimento questa necessità di esprimersi in prima persona, sottolineare la matrice autoreferenziale di un discorso che spinge molto in là con le allusioni incrociate.

Ora, il punto interessante, riguarda i due brani che i rispettivi articoli condividono, in quanto indispensabili in entrambi i contesti. Li riproduciamo uno dopo l’altro, apparentemente identici, salvo che per una parola, anzi per una involontaria, ripeto errata, inversione di lettere di quella parola che ne capovolgono il significato radicalmente.
In «Cineforum»:

Siamo con Sangue del mio sangue in presenza di un tracciato lastricato di eventi, dettagli, indizi – attenzione – non sincronici, bensì soggetti al principio ben diverso della «sincronicità», come Jung definiva le «coincidenze significative» anche temporali, sciolte tuttavia dal vincolo della causalità. E non sorprende che alle «coincidenze significative», per ovvie ragioni «a-casuali», si sia appassionato – diciamo così – Giorgio Galli, di necessità molto aperto alle inevitabili suggestioni junghiane e post-junghiane in materia di «sincronicità», categoria particolarmente adatta alle cose italiane, in assenza di verità ufficiali.

In «Marla»:

Siamo con Sangue del mio sangue in presenza di un tracciato lastricato di eventi, dettagli, indizi – attenzione– non sincronici, bensì soggetti al principio ben diverso della «sincronicità», come Jung definiva le «coincidenze significative» anche temporali, sciolte tuttavia dal vincolo della causalità. E non sorprende che alle «coincidenze significative», per ovvie ragioni «a-causali», si sia appassionato – diciamo così – Giorgio Galli, di necessità molto aperto alle inevitabili suggestioni junghiane e post-junghiane in materia di «sincronicità», categoria particolarmente adatta alle cose italiane, in assenza di verità ufficiali.

La parola, rigorosamente tra caporali, è «a-causali», che però sulla prima delle due riviste scrivo «a-casuali». In senso junghiano, va da sé, è corretta la dicitura «a-causali». Eppure credo, a ragion veduta, che questo errore non sia davvero tale. Motivo in più per rivendicare un simile errore in questa sede, grazie alle possibilità offerte da una piattaforma elettronica, molto adatta a recepire operazioni di simultaneità, confronto e riflessione a posteriori, perciò lungi dal correggerlo. Grazie all’opportunità che ho avuto di scrivere la parola in tutti e due i modi nelle diverse circostanze cartacee pregresse. Indubbiamente intendevo dire «a-causali», ma non mi dispiace rileggere parallelamente l’aggettivo nei due modi opposti, ugualmente adattabili ad un film come Sangue del mio sangue in cui ciò che è o sembra “casuale” è anche, intrinsecamente, “causale”.


Nota

1 Cfr. anche per altri passaggi di questa scheda, altrimenti troppo involuti, Mancino 2014.


Bibliografia

Bellocchio M. (2003): Buongiorno, notte, Marsilio, Venezia.

Galli G. (2010): Le coincidenze significative. Da Lovecraft a Jung, da Mussolini a Moro la sincronicità e la politica, Lindau, Torino.

James H. (1964): La cifra nel tappeto, Nuova accademia, Milano.

Mancino A. G. (2014): La recita della storia. Il caso Moro nel cinema di Marco Bellocchio, Bietti, Milano.

Mancino A. G. (2015a): Bobbio caput mundi, in «Marla», n. 7, settembre/novembre, pp. 4-7.

Mancino A. G. (2015b): «Un coro di fantasmi», in «Cineforum», n. 548, ottobre, pp. 5-9.


Filmografia

Addio del passato (Marco Bellocchio 2002)

Enrico IV (Marco Bellocchio 1984)

I pugni in tasca (Marco Bellocchio 1965)

Il regista di matrimoni (Marco Bellocchio 2006)

L’ora di religione (Il sorriso di mia madre) (Marco Bellocchio 2002)

La macchina cinema (Silvano Agosti – Marco Bellocchio – Sandro Petraglia – Stefano Rulli 1979)

La meglio gioventù (Marco Tullio Giordana 2003)

La visione del sabba (Marco Bellocchio 1988)

Prova d’orchestra (Federico Fellini 1978)

Salò o le 120 giornate di Sodoma (Pier Paolo Pasolini 1975)

Sangue del mio sangue (Marco Bellocchio 2015)

Sorelle Mai (Marco Bellocchio 2010)

Vacanze in Val di Trebbia (Marco Bellocchio 1980)

Vincere (Marco Bellocchio 2009)