I dibattiti tenutisi alla Pescheria del “Festival di Pesaro” intorno all’odierna critica cinematografica e alla connotazione di novità del cinema contemporaneo, indicano un’azione (o almeno un tentativo) di rassodamento dei territori di fruizione critica del cinema (nel tempo in cui sono scomparse dalle colture, le radici, i tuberi, mentre trionfano i frutti pompati che si rivelano privi di succo, posti in cellophane sugli scaffali dei supermercati), fuori dall’egida del giudizio e dall’ingenuità e insipienza che spesso ne derivano. Si tratterebbe non di una “sospensione del giudizio” ma proprio di un annullamento del giudizio: critica come annullamento del giudizio, della gnome, in favore dell’emersione dell’enunciato (degli enunciati, anche in contraddizione).
Qualcosa di simile ho detto appunto (ma rapsodicamente) in una delle tavole rotonde a Pesaro, difendendo una critica che non ha bisogno di certificati di autenticità, ma che si autentica da sé, in forza della propria intrinseca dialettica. Che è un’ipotesi che Rancière, parlando in generale di letteratura, lega alla necessità, alla politica della parola: «si afferma una solidarietà tra l’intransitività letteraria, concepita come affermazione del primato materialista del significante, e la razionalità materialistica della pratica rivoluzionaria».
Non si tratta allora di giudicare il film, ma di estrinsecarne il senso (in)visibile, o la rete di significati possibili, l’enorme, endemica lacuna nella definizione dei significati del film che deve (necessariamente) portare al loro fraintendimento critico, in forme e concetti che si autolegittimano in forza della loro dialettica, cioè della loro capacità di mostrare per un attimo (e fraintendere, cioè reinventare) dinamiche, motrici, e contorni, forme del cinema. La critica allora come pregnante, denso tradimento del cinema: del resto il cinema stesso tradisce in continuazione se stesso nella misura in cui l’immagine sfugge a determinate forme, per autodeterminarsi nel più in là, andando in altre sconosciute direzioni: è il cinema di Bressane, Tsukamoto, Erice, Alonso, ecc., per dirne solo alcuni e restare ai viventi; di Zulawski e Hong Sang-soo per citare due grandi registi in concorso in questi giorni a Locarno, festival sempre più straordinario, fondamentale se si vuole avere a che fare (perché è necessario averci a che fare) con un cinema radicale, che si indaga, indaga le proprie immagini, proprio in quanto possibilità germinante e impensabile della radice, del tubero.
In questo senso apriamo questo numero con un dialogo tra uno dei maggiori teorici del cinema in circolazione, Roberto De Gaetano, e Jacques Rancière, uscito su «Fata Morgana», rivista diretta dallo stesso De Gaetano, e territorio, uno dei pochi (insieme, direi, a «Filmcritica» e, recentemente, a «Filmparlato.com»: pure, tempo fa, feci un piccolo censimento su «Alias» di quelle che, usando questo discrimine, si possono considerare le migliori riviste online, perciò è superfluo tornarci qui), territorio dico, di riflessione non gnomica. Il resto, appunto, da Oppenheimer a George Miller a Jonas Munk, è il tentativo (sempre lo stesso eppure un altro) di uscire dalle stretture, dalle forme determinate di questa gnome.