Who watches the watchmen?
(Quis custodiet ipsos custodes?)
Come mai questa domanda di Giovenale, che ha ispirato il titolo della serie Watchmen?
Perché Bruce Wagner, come Alan Moore, consapevole o meno, discende dalla scuola del satirista romano.
Anche Wagner, con la propria opera, costringe a pubblico ludibrio i vizi e i mali della società contemporanea. Un’opera che comprende: romanzi (Ti sto perdendo; Il palazzo dei crisantemi), sceneggiature (Nightmare 3 – I guerrieri del sogno; Scene di lotta di classe a Beverly Hills), e regie (I'm Losing You; Women in Film).
Bruce Wagner è lo sceneggiatore dell’ultimo film di David Cronenberg: Maps to the Stars.
Lo abbiamo intervistato.
(Versione originale)
Come ti sei sentito ad accompagnare Cronenberg nell’inferno hollywoodiano? Un po’ come Virgilio nella Divina Commedia?
Maps to the Stars è stato scritto molti anni fa – una sorta di grido disperato che ho lanciato nel mezzo delle sceneggiature mediocri di Hollywood – e non avrei mai immaginato venisse realizzato. L’ho sempre sentito molto vicino allo spirito di Strindberg più che di Nathanael West. L’ho mostrato a David 10 anni fa. (Allora, avevamo lo stesso agente. Ho incontrato la prima volta David Cronenberg venti anni fa, dopo avergli spedito il mio primo romanzo; fu gentile mi disse che gli era piaciuto; immediatamente salii su un aereo alla volta di Toronto per incontrarlo). Solo recentemente ho realizzato quanto Maps si intersechi con tutti quei temi così importanti per David Cronenberg. Nessuno può scrivere una sceneggiatura su misura per David Cronenberg; o empatizza profondamente con il prodotto oppure no. A questo riguardo, pare fossimo entrati insieme nella stessa stanza come in La Mosca e i nostri DNA si fossero fusi.
Le sceneggiature e i tuoi romanzi sembrano proseguire il lavoro iniziato da Fitzgerald con Gli ultimi fuochi e continuato da Kenneth Anger con Hollywood Babilonia. Il libro di Anger è introdotto dai versi di Aleister Crowley «Ogni uomo e ogni donna è una stella» che ricordano lo slogan della MGM «Più stelle che in cielo». In passato, il lato oscuro dello star system ha alimentato la luce irreale dello schermo. È ancora così? Oppure adesso è il buio a prevalere sulla scena?
Facevi riferimento alla Divina Commedia e sicuramente sai che ogni cantica – Inferno, Purgatorio, Paradiso – si concluse con la parola stelle. L’ho usata per il titolo di ogni capitolo nel mio romanzo Dead Stars (mai pubblicato in Italia, ndt) il quale, contrariamente alle voci, non è il riferimento dal quale Maps è stato adattato. (Maps ha una sceneggiatura originale che incontrovertibilmente attinge da tutti i miei romanzi). Pensando a Fitzgerald, c’è più del suo I racconti di Pat Hobby nel mio lavoro – lo spirito per quelle tristi ed ilari esegesi sul fallimento del mondo dello spettacolo – che tutto il resto del suo lavoro. Quelle sono storie che scrisse su di uno sceneggiatore fallito ed alcoolizzato mentre era ad Hollywood al termine della sua vita; molti furono pubblicati postumi.
In quanto al successo, personalmente credo che nell’era Kardashian, la massima Warholiana possa essere modificata: “In futuro tutti saranno famosi per 15 minuti” e adesso sia diventata “In futuro tutti saranno famosi sempre”. Io sono di Beverly Hills e scrivo di cosa mi porto dentro, di cosa ho nel sangue. Mio padre era marginalmente nel mondo dello spettacolo, e quando io ero ragazzino camminavo sino al Beverly Wilshire Hotel per comprargli «Variety». Lì, potevo vedere Groucho Marx, Tony Curtis, le starlette. Eravamo vicini di casa con Broderick Crawford, sua moglie ebbe una overdose e morì dopo la loro separazione. Andavo a scuola con i figli di Elizabeth Taylor. Sono cresciuto in una piastra di Petri. Il mio lavoro si concentra sul fallimento, l’angoscia, la mutilazione, la morte. Questo è il viatico che consente – se ne si è convinti sino in fondo –, di trascendere.
Per alcuni brevi istanti, tu appari tu in una scena del film, interpretando la parte di un autista di limousine. Anche Bud Wiggins, il protagonista del tuo primo romanzo [Forza Maggiore, ndr], era un autista di limousine a Hollywood, nonché uno sceneggiatore frustrato, proprio come il personaggio di Robert Pattinson nel film. Nei tuoi lavori ci sono spesso sovrapposizioni, ripetizioni, (in)congruenze: il reale sembra (con)fuso con la finzione. È perché pensi non vi sia differenza tra i due?
Io credo non ci sia alcuna differenza. Ho guidato per anni una limousine del Beverly Hills Hotel. I miei passeggeri erano Audrey Hepburn, Olivia de Havilland e altri, non solo di quel periodo. Mick Jagger, Johnny Winter. Accompagnai Warhol ad una presentazione al Pickwick Books e conservo ancora il libro con la sua dedica: “A Bruce, il miglior autista”. Ho guidato per magnaccia, puttane, organizzatori di combattimenti, multimiliardari. Lo Scià d’Iran. Ho guidato per scrittori e agenti che avrei poi conosciuto. Ho guidato per anni un’ambulanza a Hollywood. Non c’era troppa differenza tra guidare una limo o una ambulanza – entrambe erano per me situazioni in extremis. Successo e malattia, per me, sono ineluttabilmente intrecciate. Il successo è un affanno primitivo. Recentemente leggevo un testo buddhista nel quale si faceva riferimento al fatto che, di tutte le cose, il bisogno di successo sia il più difficile al quale rinunciare. «Anche il più eremita tra monaci vuole essere conosciuto come il più eremita dei monaci».
Jaspers nel suo libro Sul tragico scrive: «il mondo è fatto in modo che ogni cosa grande vi resti sconfitta». Sembra che la grandezza tragica sia stata espunta dalla rappresentazione hollywoodiana: come Laio e Giocasta, i genitori di Agatha la allontanano perché lei è l’unica che accetta una direzione fatalistica (maps to the stars) e, al tempo stesso, sovverte ogni ordine.
Agatha è portatrice di tragicità nel gran teatro del mondo hollywoodiano?
Anche la “sventura” è condannata; e questo, forse, è quanto di più grandioso. È bellissimo, penso. Che l’idea della Morte stessa sia dannata. Agatha è come l’Incoscio, che vive e respira per i propri genitori poichè questi non possono permettersi di essere consapevoli. Certamente, la coscienza – o la consapevolezza – porta con sé una punizione. Quella punizione è la luce o la verità, che spesso brucia come un fuoco. Agatha è sfigurata, porta i segni della verità di quel fuoco, sul suo viso, il suo corpo, le sue braccia. L’elemento “tragico” è spesso così semplice: la Verità. Il padre di Agatha ironicamente ha scritto un bestseller di auto-aiuto dal titolo I segreti uccidono. Ecco, questo potrebbe essere vero, ma a volte il disvelamento di un segreto parimenti uccide! Tutto uccide, ma nulla muore.
Nel film ricorre la poesia Liberté di Paul Eluard, recitata e ripetuta come una preghiera. È forse un modo per i personaggi di elevare se stessi verso una realtà superiore (to the stars), verso il cosmo? O per liberarsi dal peso interiore della colpa?
No – ma la poesia esprime qualcosa di inconscio, di tenero, di divino sebbene complesso: a cosa fa riferimento Liberté? La liberazione del corpo? La liberazione dal mito disfunzionale dei matrimoni incestuosi e del parto? La liberazione dall’angoscia e dalla miseria? È la liberazione una rinascita e una trasformazione o, semplice morte? Difficile rispondere. L’incantesimo della poesia rimanda al ritmo incantatorio di quanto accade a questi personaggi; sono incastrati in un mantra, di quelli che possono essere interpretati – ripetutamente interpretati – in mille modi. Le nostre vite, in qualche modo, sono poemi incantati. Mark Twain disse una cosa divenuta molto celebre «La storia non si ripete, ma rima». Attimo dopo attimo, le nostre vite sono così. Alle volte le rime sono meravigliose; altre volte, meno. Qualcosa di fatale, sempre. Per me, Liberté è una grande poesia d’amore. Così l’ho sempre interpretata, mai poema politico. David, recentemente, mi ha fatto notare che fu scritta originariamente da Eluard come poesia d’amore.
In una sequenza assistiamo ad una sorta di roulette russa con l'arma da fuoco che fa partire un proiettile contro un cane, dopo che la giovane star protagonista aveva maldestramente svuotato il caricatore e provato a sparare contro se stesso. Questa forma di “predeterminismo” può essere ricondotta alla necessità dell’esistenza di queste icone nel mondo, nel sistema? Come se la loro fosse una presenza essenziale al fine di mantenere un equilibrio tra coloro che sono “famosi” e coloro che non lo sono?
Quella scena doveva solo mostrare quanto imprudente Benjie fosse diventato; non gli importava più di vivere o di morire. Nella sceneggiatura, l’attore originariamente aveva la pistola puntata in bocca e premeva il grilletto (prima di uccidere il cane, erroneamente), ma Evan Bird non era a suo agio con la scena e David non ha voluto insistere. La scena è perfetta così com’è stata girata.
Quello di Maps to the Stars è un universo “incestuoso”, condannato al remake. Tu e Cronenberg mostrate Hollywood strangolato dai propri fantasmi. È una macchina che si perpetua senza produrre più nulla. Hollywood può ancora creare qualcosa di nuovo?
Non abbiamo mica fatto la cronistoria di Hollywood! Hollywood è il laboratorio nel quale lavoro – le emozioni e l’esasperata teatralità nella quale io mi sento più a mio agio. La mia via, la mia casa spirituale in senso letterale, per intenderci. L’idea che io o David fossimo interessati a deridere o colpire Hollywood è assurda. Non mi interessa affatto. David è un artista grandioso con i suoi temi. David è un autore di satira sociale – tra le tante cose! –, ma è un frammento del suo intero lavoro visionario. Bellissimo come è, e lo è abbastanza, non volevamo rifare I protagonisti! Chi dice che “Wagner insiste nel mostrare l’ipocrisia di Hollywood” ha volgarmente male interpretato il mio lavoro. Hollywood crea e continua sempre a creare il Vecchio e il Nuovo. Qualcuno potrebbe affermare quanto tutto sia incestuoso; tutto è riciclato; tutti siamo nati da Adamo ed Eva (e arriviamo al Mito).
Che tipo di relazione hai voluto mostrare inserendo nella trama la dicotomia tra la storia e la cultura contemporanea? In Maps to the Stars il fantasma (il passato) schiaccia tutti spingendoli alla morte. Anche Agatha parla del mito, ma non riesce a dimenticare la sua situazione e il passato schiaccia anche lei. Qual è il ruolo della storia nella cultura, oggi? Il passato può essere solo un fantasma?
Siamo tutti fantasmi. Siamo già morti. Tutto è già successo; abbiamo provato a raccontarlo in Maps, qualcosa di innato nella narrativa. «Sta finendo tutto» dice Agatha a suo fratello – stava già finendo, prima dell’inizio dei titoli di testa del film! Era già finito. La fine è all’inizio, quando Agatha arriva a Los Angeles con il bus Greyhound dalla Florida, da Jupiter. A volte i morti – fantasmi – sono più reali dei vivi, perché liberi dal devastante compito di nutrire la vita che li ucciderà; sono liberati dalla Storia ed esistono come bodhisattva – o demoni –, gli spettri – per i vivi. Il coro greco. Agatha realizza il loro destino – il destino della sua famiglia – ella completa il cerchio del fuoco: questa la sua forza ossessionante. Nemmeno lei riesce a cogliere il senso di quel che fa, ma deve. Questa è la sua tragica bellezza. Nessuno comprende cosa sia accaduto alla famiglia Weiss eppure quando lei arriva come l’assassina mistica a consegnare quel finale è come una botta in testa.
Cos’è Hollywood oggi?
Hollywood oggi è Maps to the Stars – e Godzilla! Ha dei momenti di straordinaria bellezza – i mostri si prendono a pugni in chiaroscuro e sullo sfondo ci sono le lanterne rosse ed arancio di Chinatown. Mi auguro che anche noi si sia raggiunti tali momenti di meraviglia.
(a cura di Gianfranco Costantiello. Traduzione di Raffaella Del Vecchio)
Bibliografia
Jaspers K. (2008): Sul tragico, Sapere Edizioni, Milano.
Filmografia
Godzilla (Gareth Edwards 2014)
I'm Losing You (Bruce Wagner 1998)
I protagonisti (The Player) (Robert Altman 1992)
La mosca (The Fly) (David Cronenberg 1986)
Maps to the Stars (David Cronenberg 2014)
Nightmare 3 – I guerrieri del sogno (A Nightmare on Elm Street 3: Dream Warriors) (Chuck Russel 1987)
Scene di lotta di classe a Beverly Hills (Scenes from the Class Struggle in Beverly Hills) (Paul Bartel 1989)
Women in Film (Bruce Wagner 2001)