Cinema di spazi, rarefatti, sfuggenti a certa prerogativa definitoria del logos (direbbe Cortázar: non casualmente mi viene in mente lui e quel libro combinatorio, cangiante che è Rayuela), e invece aperti allo sguardo errante, sonnambolico – pronto a equivocare le coordinate di stazio e di tempo, proprio come quando ci si sveglia e per un po' non si sa dove ci si trovi – Disco Boy di Giacomo Abbruzzese appare come un oggetto eteroclito, occhiuto; organismo affetto da eterocromia (occhi di due colori diversi) e così vede le cose doppie, come illuminate di vuoti, sibili; di ammutolimenti e ammutinamenti; tinte sature e sfumature acquoree, sonanti dei corpi e dei luoghi, colti da Hélène Louvard, premio al Festival di Berlino per la miglior fotografia.Ora il film si appresta a uscire nelle sale a partire dal 9 marzo, con due anteprime pugliesi, questa sera a Bari al Cinema Splendor, e domani all'Orfeo di Taranto, alle quali participerà il regista tarantino introdotto da Massimo Causo. Di ritorno da Parigi, qui il resoconto di ciò che mi ha detto.

Inizierei dalla musica, quella di Vitalic, che mi sembra un elemento fondamentale dell'impianto del film, non certo qualcosa di ornamentale, piuttosto una componente che agisce sul tenore delle immagini.

La musica per me è sempre stata qualcosa di organico all'immagine, di non didascalico. Mi è capitato di sapere, prima ancora di filmare, quali musiche volevo utilizzare, già da Stella Maris fino ad America. La scelta di Vitalic è dovuta a un senso malinconico, un senso di abisso che riscontro nella sua musica. Già prima che iniziassi le riprese di Disco Boys, sulla base di alcune mie suggestioni, Pascal (Vitalic) mi aveva mandato dei brani che avevo trovato incredibilmente calzanti con quello che volevo fare. Li ho fatti ascoltare agli attori, a Hélène Louvard ecc.; li abbiamo provati sulle danze e constatato che funzionavano benissimo. Poi in fase di montaggio del film siamo intervenuti ulteriormente: abbiamo accordato le immagini all'impianto musicale. Ma è stato tutto così naturale, senza alcuna forzatura, proprio perché c'era sintonia sin dall'inizio.

Già a partire da Stella Maris si coglie la tua predilezione per la musica elettronica. Mi chiedo se ciò non sia dovuto al fatto che l'elettronica, nella declinazione techno, sembra avere i caratteri di qualcosa di ancestrale e primordiale: una versione tecnologica appunto della musica primitiva, tribale.

Penso che la techno e l'elettronica in generale possa essere in rapporto con il sacro. Il che implica che si possa intendere la discoteca, il club, come una sorta di chiesa, di tempio. In alcune situazioni, nei club, accade qualcosa di molto simile alla trans e poi mi pare si sfiori una specie di utopia comunitaria in cui, per via dei corpi che si muovono lì tutti insieme, si è tutti uguali.

E la danza quindi è rituale?

Esattamente.

Si direbbe che il tuo sia un cinema di fantasmi. In «Disco Boy» si ha l'impressione che il fantasmatico corrisponda a un assottigliamento dell'io o addirittura a una sua evanescenza.

Più che assottigliamento dell'io direi metamorfosi e desiderio di fusione con gli altri, e con gli altri fantasmi.

Legata a ciò c'è una dimensione fantastica che si può cogliere, qualcosa legato all'immaginario della fantascienza o dell'horror o addirittura dell'animazione.

Non so. L'ambito esplicito del fantastico non mi appartiene. Mi piace invece un'immagine più ambigua: la dimensione della realtà in rapporto con l'invisibile. Che è quello che ad esempio c'è in un film eccezionale come It Follows: soprannaturale e questione generazionale.

Un'immagine ambigua, a cavallo tra i registri, che tra l'altro si serve di qualche astrazione coloristica, quadri, intermezzi da una sequenza e l'altra?

Sì, il senso del colore mi viene dalla mia passione per la pittura. Riguardo al timbro del film, ad esempio amo molto il cinema di Kiarostami – lo amiamo tutti –, lo sguardo sulla realtà; ma d'altra parte non posso prescindere da registi come Fassbinder, Herzog, i quali, in modo diverso tra loro, usano i colori in maniera molto connotata, espressiva.

E il transito, l'oscillazione mi pare anche tra uno sguardo sulla Storia e un pensiero che alla fine sembra coinvolgere la natura umana in genere.

In effetti odio i film a tesi, la denuncia politica a sé. Preferisco un cinema più spiazzante. Ad esempio in Disco Boy nessuno parla la sua lingua, il che oltre a una certa musicalità crea un'idea di spaesamento – accomunante – che mi interessava sin dall'inizio. Mi interessava cioè arrivare a una dimensione più astratta, più sovraordinata, che è quella che accomuna Aleksei e Jomo. Sono due personaggi con un destino comune. Aleksei si fa carico delle aspirazioni, del del sogno di Jomo. Ne incarna il dono che gli viene da lui, quello della danza.

Quindi il cinema, tutto un immaginario, tra fantasmi, sogni, possessioni, danze, che può emendare le brutture del mondo, della Storia?

Io credo che sia riscrivendo l'immaginario che si possa incidere sulla realtà. C'è in giro una diffusa pornografia contro cui il cinema è necessario che agisca. Ad esempio le immagini relative alla guerra, o, di recente, ai naufragi; la tendenza a mostrare senza pudore dei corpi senza vita: queste immagini dovrebbero essere vietate. L'impressione è che con questa ultima guerra si sia raggiunto l'apice di tale tensione pornografica. Il cinema deve essere alternativo, deve proporre altri corpi, altre prerogative del corpo. La scena della lotta e della morte di Jomo, per come l'ho filmata, con la camera termica, pur facendo emergere la violenza, la morte, allude anche a qualcos'altro, a un virtuale, una sorta di prima danza che poi ritornerà nel tempio del club.

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