Il simbolo di una generazione (ma anche a prescindere dalle generazioni), di iniziati che s'addentravano nei cunicoli infiniti, nelle gallerie illuminate dal tubo catodico nei primi anni Novanta, proprio come un Videodrome: una resa, una pianificata, pacificata resa nel ventre dell'immagine, che fosse cinematografica o televisiva (quella particolare, sublime forma di televisione scoccante a mezzanotte), poco importava.

Questo era – ed è ancora – il cinema di Béla Tarr. Erano le notti di «Fuori orario» officiate dal simulacro asincrono scapigliato di Ghezzi il quale, sacerdotale nella sua tenuta di calicò bianco, invocava metaplasmi, fantasmi fluttuanti nelle apnee – notti nebbiose fuori, accartocciate, stramazzate: gli inverni serali già alle cinque del pomeriggio prevaricavano sulla luce, e facevano sentire il loro brusio catramoso, la loro intima adiacenza al Nulla – in cui apparivano sullo schermo film come Perdizione o Satantango, più di sette ore, un cammino lungo, lento, dentro piani-sequenza pieni di materia galvanizzata, polvere e vento; il lento avventurarvisi; tenere gli occhi spalancati, estenuati, sperando di potervisi perdere.

Come nelle cinque ore di Fino alla fine del mondo (nella versione di Wenders), era nello stesso periodo, ma in una forma completamente diversa: la questione della «durata», della dilatazione del sintagma cinematografico, del racconto, era cosa essenziale in quegli anni, una sorta di reazione all'immagine pubblicitaria, breve, frugale, sottoposta al consumo immediato, tipica degli anni Ottanta. Il cinema di Béla Tarr era un universo alternativo a questo scenario; era fatto di forma, come autogena, come se il dispositivo macchina-da-presa avesse preso coscienza di sé e si legittimasse improntando sullo schermo la sua danza, la sua coreografia protratta, articolata, suadente; era fatto di certe marcate modalità di visione, di un'espressività sonante delle cose, nelle cose, a rivelarne le verità, cioè la durata, il tempo che le iscriveva, ne faceva scrittura, immagine. Ecco, era la durata la verità dell'evento, una durata avvolgente, magnetica – all'insegna di un bianco e nero livido: rassegna di sugne, scialbori, scrostature – tanto che ti tirava dentro, ti fagocitava; e la peristalsi di questo evento duraturo, di questa parvenza di eternità, ti restituiva personaggio, non più stanca persona in balia del mondo e del carcame diuturno: ti faceva fatto estetico.

Il primo dei racconti contenuti in Seiobo è discesa quaggiù di László Krasznahorkai (dai cui libri o soggetti Tarr ha tratto tre film), evoca il fluire universale di Eraclito («tutto scorre, fluisce e gorgoglia l'acqua, ondeggia l'alito setoso del vento»); e non solo lo nomina, lo dice, ma lo mima attraverso la scrittura ipotattica, la forma che endogena affiora, fiorisce – lunghi periodi senza stacchi: fluire di coordinate e subordinate, apposizioni, tubercoli frasali a rilanciare ogni volta il dettato – che è il corrispettivo letterario del cinema di piano-sequenza, di quello di Béla Tarr che sembra tradurre in immagini l'ipotassi del mondo, il suo scorrere continuo. Fluire al servizio del romanzesco: le storie di Krasznahorkai, spesso distopiche, prive di speranza (in epigrafe all'ultimo suo romanzo Herscht 07769 si legge «la speranza è un errore») trovano nel cinema di Tarr l'incarnazione perfetta: se c'è possibilità per il romanzo di trasporsi in film, allora il cinema di Tarr ne è l'esemplificazione, la rappresentazione in chiaroscuro delle contraddizioni e della violenza, della cupidigia e dell'innocenza violata, che scandiscono il romanzo novecentesco, qualcosa che risale a Musil, Céline, Faulkner, fino a Simenon da cui nel 2007 Tarr ricava L'uomo di Londra, sceneggiato insieme a Krasznahorkai.

Béla Tarr sarà a Bari martedì 28 febbraio all'Anche Cinema per la rassegna «Registi fuori dagli scheRmi», occasione per proiettare la versione restaurata delle Armonie di Werckmeister che ventitré anni fa inaugurava il nuovo millennio trasponendo lo spirito apocalittico del romanzo di Krasznahorkai Melanconia della resistenza. Simboli, allegorie di una favola nera, personaggi eponimi dell'umano, scorci cinerei, scalcinati, ischeletriti: tutti gli elementi fondanti del cinema di Tarr si ritrovano in questo capolavoro come fosse un presagio per il millennio che stava iniziando. Sarebbero passati undici anni prima che Tarr tornasse a dirigere il suo ultimo stupefacente film, Il cavallo di Torino, ennesima messa a fuoco di un'umanità alla deriva. Eppure resta la possibilità – sia pure un lacerto, un'eco – di armonia: se la macchina da presa fa luce sull'inanità, resta la coscienza, l'autodeterminazione di questo sguardo artificiale, e resta la luce che usa per mostrare e per sgranare inesorabilmente i passi, le mosse di un incedere, di un durare, un fluire stupefacente.