Tir Festival di RomaÈ un film da difendere Tir, altro titolo in concorso, tanto più quando c’è chi scrive che sarebbe “l’esempio perfetto dello stato comatoso in cui versa il cinema italiano”. E invece giunge il piacere dell’imprevisto.





Perché è nel continuo mettersi in scena, sorta di sottile infrazione permanente, un prodursi invisibile di tracce, che l’opera del friulano Alberto Fasulo, già autore di Rumore bianco, trova la sua pudica, appartata intensità, quella che il più o meno analogo Sacro GRA, ma forse non è neanche davvero così “vicino”, perseguiva nella ripetizione, nella parcellizzazione, nel suo mosaico, rimanendone a volte irrigidito, figura fluida incompleta. Tir scarnifica lo schema on the road e ne disperde i rimasugli. Fra carichi e scarichi per una ditta di trasporti, fra soste e ripartenze, il deprimente, svuotante, lavorativo girare per le autostrade d’Europa di Branko, prima col collega Maki e poi da solo, è racconto in incastro scivoloso di codici e di forme, di fiction e documentario, recitazione e istanti, pause; è suono affilato come presenza segretamente violenta che graffia lo scheletro delle immagini, la loro superficie.

Fasulo filma un muoversi uguale che nega l’attraversamento, non è mai luogo, è uno sguardo privato di diramazioni. E alla fine possono solo restare i corpi, i volti. Possono solo restare i segni.