another meÈ un territorio, quello del cinema-congegno, fra i più straordinari e insidiosi. C’è chi come Fincher vi si muove all’interno anche con potente, disperato parossismo, chi come Soderbergh ne è attualmente il più importante e lucido interprete e smontatore (cos’è Magic Mike fra i suoi film più recenti?) o, ancora, chi come Nolan ha forse frainteso.


E un po’ ci speravo in Another Me di Isabel Coixet, presente in concorso, incursione nel thriller psicologico di una regista di cui avevo quantomeno non disdegnato La vita segreta delle parole e Map of The Sounds of Tokyo, quel cinema cioè da me distante, con tutti i suoi vezzi persino irritanti. Ci speravo, senza aspettarmi tanto, senza aspettarmi consapevolezza, solo un’intuizione o un che di non voluto fra tutti i pesanti limiti, una scheggia, qualcosa per poter incrinare la preventiva, altrui diffidenza generale intorno al film. Ma Another Me, dove il tema del doppio non riesce a diventare discorso, o suo timido frammento, non si sa guardare, non sa “rifarsi” né dunque può tentare di scomporsi. Eppure all’inizio sembrava che in qualche modo potesse inserirsi, ingenuamente, certo, fra le pieghe dell’Aronofsky de Il cigno nero e il Chan-Wook Park americano di Stoker, ma non è neanche pura patina, piuttosto un Polanski sbiadito, banalizzato.