C’è un’esigenza nel Suspiria di Luca Guadagnino che è piuttosto il compendio di una poetica a sé stante, semovente, e fatta di gestualità e materia esperite in forma mobile, in continuo modificarsi: un’esigenza vivida, flagrante, di spogliare il corpo per tornare al suo linguaggio, invece di coprirlo, per alludere o suggerire; e non è un caso che le danzatrici sia in Volk che nel sabba finale - lì senz’altro per comunicare la portata ancestrale, dal significato quasi pagano della danza – si muovano nude, o quasi nude, invasate come fossero delle menadi.

La danza non congloba più perfezione e inimitabilità, bensì i suoi contrari: il caso predomina e l’improvvisazione partendo dal proprio io - con i danzatori che diventano i creatori-attori di un dramma che assumerà poi una dimensione collettiva, come per le coreografie di Suspiria - costituisce il centro nevralgico di qualsiasi narrazione di corpi che passa, o meglio, oltrepassa e fende gli stessi corpi: il corpo “perverso” e polimorfo del teatro-danza di Pina Baush, e di pochi alcuni suoi iniziati.

Parlando del film di Guadagnino è impossibile non riferirsi alla danza e al contesto socio-culturale (siamo nel 1977, periodo cruciale di trasformazioni e rivolte) in cui questo linguaggio cambia, diviene qualcosa di complesso e stratificato, a tratti respingente in virtù della sua carica rivoluzionaria, si potrebbe dire. La stessa che possiede Suspiria, la danza conclusiva, così volutamente parossistica e strabordante, acme di un incedere di immagini reali e specchiate  nei sogni delle danzatrici, ricorrenti, ricordi e sintagmi di tempi che si incrociano, ritornando per rinascere, tutto fatto perfettamente collimare dal montaggio di Walter Fasano – ad esempio in Open again, una delle piéce di Madame Blanc, o stück, volendo servirsi del linguaggio baushano così affine al suo personaggio – ma che riguarda soprattutto Volk, nato da Les Médusés, piéce che il coreografo del film Damien Jalet ha svolto con altri tre danzatori al Louvre, in una stanza piena di statue femminili realizzate da uomini, dove la sintassi convulsa e spezzata, per certi versi brutale, del movimento ha una sua specifica ragione: gli attori di Les Médusés e le attrici di Volk si muovono per rompere gli incantesimi da cui sono circondati, andando a colpire l’immobilità delle figure, vale a dire un modo di rappresentare la realtà e un essere al mondo monocordi, statici, e quindi falsi: parvenza, appunto.

Volk è quindi una danza di ricerca identitaria, e di smascheramento, attraverso l’energia collettiva – volk, il “popolo” - femminile, e il corpo, in questo senso, se ne assume tutta la portata e forza divellente. E non è un caso che la maggior parte dei movimenti, anche quelli improvvisati, o quei primi durante il contatto tra Susie Bannion\Dakota Johnson ed Helena Markos, abbiano origine dal ventre e dal grembo («what it must be like to fuck...»), dal bisogno di restare ancorata al suolo, alla materia: il moto del suo corpo cangiante e mostruoso come una forza che a poco a poco estrinseca la natura del piacere sessuale, come in una specie di beatitudine, un’estasi psicofisica che si procura da sé. Ed è attraverso la maieutica esercitata da Madame Blanc su Susie, come nel Blaubart, il processo creativo di cui la Baush si serviva con i suoi attori, che questa natura, quest’origine de-strutturata e libera, fuoriesce, nella sua duplice essenza creativa e distruttiva. In Suspiria, dove non c’è a questo punto bisogno di spiegare, provare, teorizzare tutto quel magma di significati, femminismo, terrorismo, rivolte, che invece esistono ma in forma metonimica, lo spettatore si trova immerso in una fruizione multisensoriale, avvolgente.

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