“Marriage Story” inizia con il volto/maschera di Scarlett Johansson/Nicole e la mente va a “Persona”, film di Ingmar Bergman che infonde paura e desiderio di vedere il proprio Io nell’abisso della messa in scena. Questa è non solo la “storia di un matrimonio” tra person(a)e ma anche tra linguaggi (cinema, teatro, suoni, immagini), è un eterno dialogo (verbale e scritto, conciliante e contrastante) sulla (im)possibile “unione” tra form(a)e di rappresentazione.

Non per caso noi spettatori ascoltiamo immediatamente le voci off dei protagonisti come fossero dissociate dai fotogrammi dei loro corpi in azione/movimento: Charlie (un Adam Driver versatile e maturo) e Nicole si raccontano attraverso “lettere” come fossero una coppia perfetta ma in realtà stanno per divorziare (paradossalmente senza una “linea” di separazione). 

Nicole è il Cinema, è una madre/attrice che sa giocare/ interpretare (to play) davvero il suo ruolo, è una musa che sa quando provocare o lasciare in pace Charlie (e la sua ispirazione), non chiude sportelli (lascia sempre una porta aperta), è coraggiosa (si mostra “nuda” nel suo film e nella vita), ama perdersi (ballare) per ritrovarsi.

Charlie è il Teatro, è un padre/regista che accetta e comprende sbalzi di umore di moglie, figlio e imprevedibili compagni di scena, è ordinato e ti fa capire quello che vuole (ama controllare/dirigere sul palco) e non sa resistere al fascino del Cinema/Nicole (si commuove alla visione di un film e della consorte “persa”).

Entrambi sono “competitivi” come di-mostra la straordinaria sequenza dell’estenuante litigio (un memorabile match senza principio né termine) tra i due (“dovremmo parlare, non so come iniziare” - dice lui) in un appartamento/set che ci appare troppo piccolo e delimitato per “contenere” la loro debordante prova di attori.  Solo la macchina da presa può rivelare, con “diretti” ed efficaci primi piani, la tensione di questi “atleti” alla ricerca della migliore performance.  Siamo nel “bel mezzo” di un conflitto (dis)armato, le parole si inseguono come fendenti o si manifestano esitanti come carezze su figure vulnerabili che si espongono a improvvise e facili lacerazioni. 

In quel momento è chiaro che l’amore c’è sempre ma sta cercando un’altra forma di simbiosi con il supporto di altre “relazioni”, una ridefinizione di ruoli sociali e da copione (i rapporti insolitamente troppo cordiali tra genero e suocera, un avvocato padre per lui e madre per lei), di generi sessuali (lo stereotipo maschile/femminile) ma anche cinematografici (commedia, legal thriller, love story, musical) come nell’emblematico monologo di Laura Dern.  In questo divertito scambio di “vesti”, nel giorno di Halloween Nicole indossa gli abiti di David Bowie in “Let’s Dance” (il cantante/attore che danza) e Charlie quelli de “L’uomo invisibile” (titolo che è forse la migliore definizione di “regista”). 

Come i personaggi smarriti e in crisi d’identità anche gli spazi urbani (Los Angeles/Hollywood e New York/ Broadway), si confondono e si riflettono in un “cinema da camera-stylo”, di ambientazioni, di ritmi e luoghi in cui la condivisione è un’aspirazione naturale senza “limiti” e “caratteri” imposti. In un sistema sociale/giudiziario che pre-vede uomini e donne con le loro “funzioni”, un nuovo, rivoluzionario equilibrio passa attraverso uno sguardo “infantile” sulle minimali, ordinarie, abitudini che ribaltano (per l’ennesima volta) le posizioni: una moglie che allaccia le scarpe al marito, il figlio bambino che riconosce le debolezze dei genitori (un padre ingenuamente “ferito” e una madre che non sa quando farsi da parte).

Noah Baumbach firma la sua opera migliore perché costruisce mirabilmente un gioco di specchi tra realtà e finzione con grazia, dolore e raffinato umorismo e quando Adam Driver intona "Being Alive", un brano tratto da un musical di Broadway, non possiamo che sorprenderci di come arte e quotidianità si (ci) toccano.

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