La questione del movimento, della qualità del movimento, è alle origini del cinema di Wenders, si sa: non tanto la motilità dei personaggi dentro l’inquadratura, quanto la tensione della forma verso un "falso movimento", la stasi, a rapprendere cioè le forze cinematografiche in un ecosistema stagnante, uno spazio di fissità degli elementi che scandiscono il tempo. E i 4:3 di Perfect Days testimoniano di questo processo di sfibramento del ritmo, di stagnazione dell’aria: come un’esigenza di fermare l’attimo, magari l’epifania frusciante di luci tra le foglie.
Uno spazio domestico dunque, una chiusura del quadro applicata anche alle sequenze metropolitane (cioè gli spazi per loro costituzione aperti, incoercibili) come avveniva nel cinema di Ozu che sembra essere uno dei riferimenti di questo film. Questa stagnazione dell’entità-tempo, il rallentamento del movimento (che segna il tempo, inscrive il tempo nello spazio) dentro l’inquadratura, era stato anche - più efficacemente - di un film di Wenders fin troppo sottovalutato, I bei giorni di Aranjuez, in cui la lentezza si addensava (interessante il confronto con La lentezza kunderiana), sembrava ispessirsi in metri cubi di aria rafferma, esalante miasmi - i miasmi della materia cinematografica, nuda, in lenta macerazione - fino allo stordimento dello sguardo.
Era una lentezza in tre dimensioni, fibrillante di sopore, spore del sonno, del sogno, stante il sopore come la reazione dell’occhio di fronte alla lentezza. Qui, in Perfect Days, sembra ci sia un inciampo del tempo piuttosto che un rallentamento: il tempo viene come appiattito da una messa in scena in due dimensioni (e in 4:3) che impoverisce anche la visione ineffabile delle foglie permeate dalla luce, addomestica quel motivo trascendente che fu di Malick (sintagma divenuto specificamente malickiano nel cinema contemporaneo), foglie e fulgore che le trapassava già nel tempo del suo ritorno, La sottile linea rossa, e poi più definitamente, indefinitamente perdendosi nei bagliori trapelati di To The Wonder.
Tutto ciò, stando alla teoria, la quale del resto non può che implicare, tenere saldato alla struttura del film, alla congerie dei significanti, anche il significato. Cioè scrivere di cinema non può che essere un flusso di coscienza (spesso di incoscienza, nel momento in cui al pensiero segue il deliquio, lo smarrimento che ti prende alla fine della Chimera) che tiene insieme le due cose, anzi è proprio, precisamente quella sutura. Ma mi chiedo se questa volta non sia il caso di fare un discorso diverso e considerare a parte rispetto alla forma il contenuto che si caglia in questo incaglio di spazio-tempo che è Perfect Days. E’ così urgente e cogente, quello che il film di Wenders racconta - in questo precario, provvisorio esistere che è il nostro tempo, la nostra storia -, che vale la pena di prescindere da una forma imperfetta.
Perfect Days ha il profondo, straordinario senso umanistico dell’essenziale che legittima la dimensione del soggetto (mi piace pensare il cinema come dispositivo dell’immanenza, “macchinismo” oggettivo, universale, non appannaggio e narrazione dell’individuo: il soggetto è solo un’increspatura dell’immanenza, forse un infortunio, eppure…): libri, musica, l’ossessione libertaria della luce fronzuta. Un macrocosmo di senso, un infinito, a cui tende Hirayama, che parte dalla concretezza, finitezza della risaputa - eppure confortante - vita di tutti i giorni, si costruisce su questa semplicità, su questa quotidianità. Anche l’umiliazione perpetrata da una mamma intenta a disinfettare la mano del figlio che prima teneva quella di Hirayama, impallidisce (lui guarda, poi sorride) di fronte alla coscienza di quelle cataste di libri che lo attendono a casa, e le cassette, i nastri di Patty Smith, Lou Reed naturalmente (tutto un analagico che riporta in vita gesti antichi, sostanziali, pieni della sostanza dei nastri, della brossura), e il sogno delle foglie, delle ombre proiettate sulla superficie bianca, la strada lattescente, la via lattea della sua immaginazione. Una pagina eccezionale, il film di Wenders, questo sogno di foglie nell’ombra, insieme alle foglie al vento di Kaurismaki; un racconto sublime (in un incaglio di forma) della resistenza degli umili, solitari - dotati dell’essenziale - di fronte alla tracotanza del potere e di certe declinazioni della società.
Hirayama si carica di questa coscienza resistenziale, ne trabocca, e allora alla fine non può che cedere al dolore dell’essere al mondo e allo stesso tempo goderne (perchè ne restano i segni di un Altro qui, per pagine e nastri e immagini): la commozione a stento frenata e qualche sorriso, in alternanza, sul volto di Koji Yakusho (quasi fosse uno schermo su cui si sintetizzino tutte le espressioni che Hirayama aveva avuto per tutto il film), nel tempo miracoloso - adesso sì - di una sequenza, dell’ultima sequenza che, in sé, rappresenta il più bel finale del cinema recente, più politico e più attuale di qualsiasi altro film impegnato ci sia stato in questi anni. Riscatto per chi è sconfitto senza avere demeriti, per gli umili che però sono dotati di ricchezza emotiva e intellettuale, per gli ultimi che però conoscono prima di tutti il silenzio delle foglie.