Xavier Dolan torna alla semplicità narrativa e al desiderio di leggerezza dei suoi esordi. Matthias e Maxime è la storia di due amici, legati sin dall’infanzia, che si scoprono amanti nell’età adulta. In realtà al talentoso regista non è il soggetto (ormai simile a sue opere precedenti) ad interessare ma le sfumature “sensibili” (e cinematografiche) che implica. Dolan è uno dei pochi che sa dialogare con la macchina da presa e sa mettere in scena le “intime” contraddizioni.

Grazie a raffinati zoom in (a volte impercettibili) si avvicina ai volti e ai gesti e lascia fuori campo momenti topici della vicenda. I due protagonisti discutono di close-up (primi piani stretti), di prossimità e di distanza non solo nell’appartamento/set ma anche nella vita quotidiana, oscuramente turbati dal limen che divide amicizia e amore e che determina il dis-agio tra páthos e corporeità, dall’inquietudine di perdere la persona da sempre cara e/o di smarrirsi in lei. Il ritmo viene scandito dai giorni che mancano alla partenza di Maxime dal luogo natio, dal tempo che segna l’imminente distacco da Matthias, che teme, quasi inconsciamente, di non ri-avvicinare più il suo affetto più importante. Forse dichiarare apertamente la sua “attrazione” potrebbe convincere l’amato a non allontanarsi, a re-visionare i suoi progetti.

In questo periodo (che è un “limbo”, come il titolo del cortometraggio con il bacio “fatale”, girato dentro il film, fuori campo) le geometrie e gli spazi tra tutti gli interpreti della “commedia” sono co-stretti a ri-definirsi e sovente tra i due giovani si insinua una terza figura (femminile) che può essere madre/mommy (la “ritrovata” cinica Anne Dorval), sorella, fidanzata. Si ri-producono “triangoli” visuali che misurano la profondità di campo (e delle “posizioni” sentimentali), ciascuno deve ri-cercare/trovare il proprio posto in questo uni-verso. Non ci sono padri (neppure cinematografici, come fu con la nouvelle vague, che li escludeva pur “criticandoli” sotto-traccia), evidentemente fuori da qualsiasi traiettoria di comprensione che possa (s)piegare gli eventi (la canonica sainte famille dei cartelloni pubblicitari non esiste più, solo ri-unioni collettive e Maxime aspira ad una “nuova famiglia” all’estero)I “ruoli” e le tempistiche (nonostante le apparenti spensierate feste tra amici e parenti, la controversa adolescenza è ormai superata) implicano scelte dirimenti (che potranno anche rivelarsi/dimostrarsi sbagliate ma urgenti), probabilmente definitive.

Maxime dovrà rinnovare luoghi, situazioni, abitudini, persino i codici linguistici: comincia ad alternare un acerbo english speaking di dubbia derivazione (presumibilmente dal web, dai social media) alla sua originale lingua francese del Québec (l'unica provincia canadese in cui l'inglese non è lingua ufficiale). Sembra che Dolan voglia ironicamente ricordare la sua imbarazzante e fallimentare esperienza americana. Alla Hollywood spesso ricca di stereotipi e semplificazioni egli contrappone un cinema “complesso” di pulsioni nascoste tra le pieghe dell’animo, non esplicito nella sua dimensione “politica”. I suoi moti “caratteriali” sono fuori dagli sche(r)mi e il cineasta li rappresenta con straordinarie “fughe” (come tuffi negli abissi della psyché) non solo narrative (la lunga nuotata di Matthias, con riprese subacquee “impressioniste”, acqua che scorre e, inesorabile, torna su se stessa sulle note di pianoforte di Jean-Michel Blais che si ispira alle “variazioni” di Shubert) ma anche figurative (emblematica l’ellissi del primo bacio).

L’artista di Montréal è un “compositore” di eximiae formae, di caratterizzazioni di varia umanità, di “movimenti” di emozioni, di flussi/flutti incontenibili di immagini, di “fulminei” slanci.  La potenza (anche metaforica) del cinema (centrifugo) si espande alla vita, si impregna di parole che fluiscono come sangue (che fuoriesce dalla testa/cervello di Maxime/Xavier), lacrime, conati di vomito, e si confondono “liquida-mente” con la pioggia e/o le onde del mare. Sono impronte disegnate come la voglia (di cambiare) stampata sulla faccia di Maxime, che sogna un altro aspetto/mondo e rompe lo specchio/realtà. Come affermava John Ford: “la cosa più interessante ed eccitante di tutto il mondo è un volto umano". L'uomo e la maschera, la scrittura e l’immagine, sono elementi filmati nel loro evolversi.

Come in una jam session (che va da Mozart ai Pet Shop Boys), i nostri sensi rinvengono nota-zioni, trame, bozze attraverso le quali Dolan coglie la verità dei rapporti interpersonali al di là di paradigmi consolidati. Infatti capita che i personaggi si intendano raramente, che siano “sull’orlo di una crisi di nervi”, che corpi (e menti) siano tesi per “elettricità” (come il “corto circuito” prima dell’imminente/illuminante amplesso tra i due) e vengano separati, che abbiano difetti di comunicazione e relativi fraintendimenti anche con gli strumenti della contemporaneità (smartphone, tablet). Tutti tentano di esprimere la loro richiesta d'amore con l’idioma del corpo ma con scarsi risultati. Come in una “prova d’orchestra”, per risolvere eventuali dis-accordi, Dolan direttore/spettatore e Dolan attore/Maxime si sdoppiano e uno accompagna la “perturbante” performance dell’altro così come il comico Gabriel D'Almeida Freitas si trasforma nel drammatico Matthias, con esiti “stranianti” ma efficaci. “A volte passi tutta la vita a fare una cosa finché poi finalmente non inizi a farne un’altra”. E l’alieno Xavier pare destinato a seguire una folata di vento in-attesa e a mutare pellicula.

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