Nel suo inesorabile e progressivo processo di miniaturizzazione e stilizzazione del mondo (e, in questo caso, anche di quello che c’è al di là), Wes Anderson, come Brâncuși e il suo Oiseau dans l’espace, ha raggiunto un livello di astrazione tale per cui è sempre più difficile, per lo spettatore, risalire all’idea rappresentativa originale.
Pur modellato secondo concetti di “bellezza” e “simmetria” – gli stessi rinvenuti dai giudici che decretarono, in un’aula di tribunale, che quella dello scultore romeno fosse effettivamente un’opera d’arte e non un utensile, come sostenuto dal funzionario doganale che l’aveva denunciata come tale – il cinema di Wes Anderson è il migliore testimone di se stesso, «splende come un gioiello» (per citare nuovamente Brâncuși) e tanto basta per definire ogni suo film un’opera d’arte meritevole di tale status.
Ma è anche un cinema che, ormai da diversi anni, esplicita da un lato la paura di non avere più idee originali per le proprie storie e dall’altro la necessità di non poter vivere senza di esse e di doversi affidare, in casi estremi, a quelle degli altri (ad esempio i racconti di Roald Dahl ne La meravigliosa storia di Henry Sugar). Ma se raccontare storie attraverso i film è un esercizio di solipsismo, come trovare spazio per il pubblico in queste dorate Wunderkammer affollate di oggetti e personaggi trattati come tali? Come permettere la possibilità di un avvicinamento emotivo tra lo spettatore e un regista vittima delle proprie ossessioni, a suo agio solo nella comunità fittizia di attori che ad ogni film raduna in grande quantità?
Non è quindi un caso se La Trama Fenicia rinegozi ancora una volta con il pubblico i termini della poetica di Wes Anderson e faccia della sua stessa volontà di negoziazione il tema centrale della trama. Il regista, quindi, pare voler chiarire innanzitutto a se stesso cosa è diventato il suo cinema, nella convinzione che solo attraverso l’attività negoziale si riesca a saggiare meglio la consistenza della posizione su cui si sta negoziando.
Già Asteroid City, d’altronde, si era fatto elaborazione intellettuale (più o meno consapevole) dell’horror vacui assunto a cifra stilistica, mettendo direttamente in scena l’esperienza del vuoto, in una città cratere che inghiottiva i suoi personaggi e li costringeva forzatamente a relazionarsi tra loro. Gli attori, precedentemente ridotti a comparse di lusso, tornavano protagonisti: non più suppellettili tutt’uno col décor e con la scenografia, ma figure in grado di stagliarsi sul fondale per provare, dolorosamente e faticosamente, a imporsi nuovamente sul resto.
È su questo solco che prosegue adesso La Trama Fenicia, con il suo protagonista, il magnate Zsa-zsa Korda, che rinegozia costantemente la sua esistenza sia sul piano metafisico (quello della vita e della morte) sia in un’articolazione più terrena, venale, che è appunto quella del mercanteggiare, ovvero sondare poco a poco l’altrui obiettivo, svelando così anche il proprio, fino a raggiungere un punto di equilibrio in cui si dichiara che un dato prezzo è il più alto che si vuole pagare (e si apprende, contestualmente, che un dato prezzo è il più basso a cui l’altro intende vendere).
Una delle regole base di ogni negoziato sta, logicamente, nella necessità di avere a disposizione delle opzioni che possano condurre a vantaggi vicendevoli per superare lo stallo che inevitabilmente si creerà tra i due contendenti. Ma essere cineasti non significa forse, in egual misura, essere in grado di immaginare un ventaglio di possibilità in modo da poterne scegliere una o più d’una come soluzione a un problema, in base a dei vincoli che ci si impone e a degli obiettivi che ci si prefigge? Ecco, il regista lavora di immaginazione, esplora alternative, rende pratica artistica (come lo è del resto il negoziato in senso più generale) ciò che altrimenti sarebbe una semplice transazione, una trasformazione industriale da idea a prodotto finale.
Come si usa fare nel metodo scientifico, Wes Anderson da tempo ricorre a degli esperimenti mentali, a delle duplicazioni quasi perfette di ciò che ha già fatto in passato, dove l’elemento di differenza esercita una pressione sul concetto che si sta studiando, permettendo di saggiarne la tenuta. Sono quelle che Edmund Husserl chiamerebbe «variazioni eidetiche», in cui si modifica un sistema codificato per riuscire a distinguere meglio ciò che gli è essenziale da ciò che gli è accidentale.
In un negoziato maturo, quindi, si deve anche spesso negoziare con se stessi, con il dato di fatto esogeno che condiziona la negoziazione in atto. Nel cinema, questo fattore esogeno è dato dalla contingenza produttiva, materiale, si rivela nel passaggio dalla sceneggiatura alla messa in scena. È in quel momento che un piano apparentemente perfetto, studiato in tutti i suoi più piccoli dettagli, proprio come quello iniziale di Zsa-zsa Korda, può fallire, ridimensionarsi, scontrarsi con delle evidenze che costringono a cambiare repentinamente il proprio progetto originario. Insomma, ogni negoziato è fallibile. Il che significa che si deve compiere il doloroso passo di accettare il fallimento negoziale, decidere di cambiare idea, ovvero passare alla mossa successiva in tempi rapidi.
Ed è forse proprio in questo passaggio dalla teoria alla prassi, nel deragliamento dei propri calcoli, che si ritrova un’emotività inizialmente esclusa dallo “schema”, esattamente come avviene al protagonista del film e a sua figlia. Inizialmente distanti, riunitisi per una pura formalità, finiranno anch’essi per rinegoziare la propria relazione famigliare, ognuno disposto a cedere qualcosa all’altro delle proprie convinzioni e del proprio modo di intendere la vita.
Così Wes Anderson, in un film pure spesso inafferrabile, teorico fino al paradosso matematico – o filosofico, se si pensa a quello della Nave di Teseo, che interrogava sulla questione dell’effettiva persistenza di un’identità data per sempre a fronte di una sua costante modificazione nel tempo – ritrova la felicità nel filmare principalmente pochi attori (soprattutto Benicio del Toro, Mia Threapleton, Michael Cera), allontanandosi dalle derive pletoriche della sua filmografia più recente e restituendo alle azioni dei suoi personaggi delle motivazioni persino sentimentali.
Quell’elemento umano che era fondamentale nei suoi primi film, in cui il romanticismo era tanto più dirompente quanto più difficile da far emergere in un contesto ingessato e sclerotizzato.