A proposito di immagine. L’artista austriaco Egon Schiele, il cui taglio espressionista incide in copertina un particolare del Sole d’autunno e alberi, staglia su carta e inchiostro una premessa di passi, nella tensione della direzione chiaroscurale verso l’alto, e subito la inghiotte nella catabasi della distesa bruno-dorata delle foglie cadute, del «foliage» cangiante; già qui l’avvertimento che ci troveremo dinanzi ad una apparente contraddizione, anticipata da quella scelta, di dare avvio all’opera nella compresenza di motivi impressionisti e di fughe d’espressione più intense, dispa(e)rate: l’intuizione che la misura della vertigine si dà tutta in quelle linee che convergono – che divergono – sulle zolle e sui rami brulicanti.

«Foliage. Vagabondare in autunno» di Duccio Demetrio è scrittura che persegue la realizzazione di un mite paradosso, iniziando il lettore ad un’esperienza che sembra contemplazione, stupore, incanto: del ciliegio, che non smette di fiorire quando, sfioriti gli altri ciliegi e tutte le piante caducifoglie, ogni cosa intorno si sveste e muore; della natura tutta, colta nella stagione più malinconica, atavicamente nostalgica; del camminare, andando senza direzione alcuna, vagabondando a perdita d’occhio in mezzo a tanto morire, prestando ogni senso al raccoglimento, al ripiegamento  interiore; e invece è esternazione anche, non soltanto ritorno a se stessi ma rivolo espressionista, scia emorragica, sovrabbondanza interiore, fuoriuscita di sé.

È desiderio, «tensione desiderante» si legge, corrispondenze intime fra natura, soprattutto nella stagione autunnale, e sguardo umano che si propaga, lasciandosi penetrare dal mondo. È istanza vitale, pulsioni che dilagano dalla materia dei sogni, «sostando» in radure di heideggeriana memoria («Lichtung»), vuoti di luce e di spazio dopo lo straniamento dato dal fitto della selva, dove i passi si perdono. Muovendo da quell’incanto.

Da lì il trascolorare del «foliage», legandosi al divenire temporale, inconscio, immaginifico che è insito nel tema del viaggio, mediante la letteratura, l’arte e la filosofia di cui è disseminato il volume – Rilke, Calvino, Montale, Bachelard, Hesse, Van Gogh, Gauguin, Renoir, Husserl e, appunto, Heidegger per citare solo alcuni dei tantissimi che attraversano l’opera – diventa esso stesso immagine diveniente, che muove i viandanti e che si muove, nell’allegoria «archetipica» che la manifestazione della stagione autunnale al suo culmine apre alle possibilità di andare, di restare, di tornare: con occhi diversi e nuovi, desiderando di restare vivi.

Uno dei meriti di Demetrio è quello di schiudere all’attenzione dei lettori un ventaglio di percezioni, di immagin-azioni a partire proprio dalle immagini in movimento che scorrono sulle pagine, rappresentandoci la meraviglia di essere anche noi lì, come in vagabondaggio, a ripercorrere attraverso gli innumerevoli sguardi (poetici, artistici) in mezzo ai sentieri, anche interrotti, autunnali, la «nostra» stagione: l’originario, il primitivo che viene dal mito rivela, per nulla in contraddizione con lo schiudersi del nuovo, la realizzazione stessa dell’esistenza, del proprio esserci.

Ed è la scrittura («[…] L’io genera immagini poetiche trasfigurate dalle parole, come una loro conquista che le sigilla e nuovamente le espone, le libera, per altre invenzioni […]»), la necessità di fermarsi nella scrittura, di essere tempo, farsi ancora vita che pone, nella «rêverie» dell’illimitato, dell’«apeiron», nella solitudine e nel silenzio di un altrove possibile, l’urgenza del «vedere», e vedendo conoscere ciò che era nascosto. Tragica inquietudine di chi resiste alla morte.

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