Paolo Sorrentino sin dal suo esordio cinematografico è stato ossessionato dall’Es, l’intima natura dell’individuo che evoca una scissione della psiche, un riflesso dell’Io, una proiezione del Sé. L’uomo in più nel 2001 narrava di due uomini dallo stesso nome (Tony/Antonio) con una vita e un’indole diverse, tuttavia destinati a incrociarsi. Persino la sua ultima/unica serie televisiva si divide in due: The Young/New Pope.

Dopo 20 anni dal suo primo lungometraggio il regista racconta la sua giovinezza/youth in È stata la mano di Dio. Il protagonista è un ragazzo di nome Fabio (alter ego di Paolo), che vuole realizzarsi nel mondo del cinema, come suo fratello Marchino.

Il Dio del titolo è il giovane Diego Armando Maradona, El Pibe de Oro, un atleta e un demone, un angelo caduto, apollineo e dionisiaco, una figura divisiva: il divo del calcio. Anche il suo tempo è sospeso tra gloria e scandalo, il luminoso passato e l’oscuro presente: «Ho fatto quello che ho potuto, non credo di essere andato così male».

L’altro Dio di Napoli è San Gennaro, che si presenta all’inizio del film, incarnato da Enzo De Caro (copia difforme di Troisi con La Smorfia). Come in un sogno notturno, egli si mostra elegante e maturo, dall’animo rassicurante e docile, con un eloquio ironico e serio, tra sacro e profano. Pare evocare il fascino inglese di John Henry Newman che definì il suo percorso confessionale con queste parole in epitaffio: «Ex umbris et imaginibus in veritatem».

Imago è rappresentazione dell’Es (percezione dell’“altro”), non la verità. A Sorrentino interessa l’immagine inconscia e come replicarla nella messinscena, quindi affianca a quelle divinità i suoi due numi tutelari della settima arte: Federico Fellini, deus ex machina, fine suggeritore (non a caso presente solo con l’inconfondibile voce), dell’immaginifico talento dell’adolescente aspirante cineasta e Antonio Capuano, novello “dio-scuro”, incapace di mentire e sorprendente coscienza critica che invita a non “dis-unire” l’Ego.

Il regista guarda alla civiltà partenopea come apparato simbolico che ri-produce nei secoli il mistero di molteplici e onnipresenti idoli attraverso la creazione di icone e ambienta la storia in una città che è un tempio di grande bellezza, esaltato da una fotografia crepuscolare, da emblematiche architetture e da scenari naturali che vedono il mare come liquido amniotico. La bellezza non può che essere un’arcana luce che “di-verte” l’occhio: «Il cinema serve a distrarre dalla realtà perché la realtà è scadente».

Altro apparato di ri-produzione è la sfera sessuale, nelle sue varie manifestazioni, che genera corpi che si duplicano nelle loro apparenti caratteristiche come i soggetti femminili sempre speculari e contrapposti: la madre Maria, devota e irascibile, compita e giocosa con l’espressivo volto di Teresa Saponangelo, la zia Patrizia solare e malinconica, debole nello spirito ma prorompente nella sensualità di Luisa Ranieri, la Baronessa Focale aristocratica e corruttrice, decisa e comprensiva nell’interpretazione di Betti Pedrazzi.

Nonostante lo spessore teorico dei personaggi reali e immaginari “de-scritti”, Sorrentino perde di vista le figure che li accompagnano (Toni Servillo, volutamente in tono minore, sembra non recitare e abbandonare la maschera) che sono ridotte a sbiadite comparse, macchiette, caratteristi bidimensionali della commedia napoletana/all’italiana sebbene funzionali alla vivace ma anche spettrale performance scenica e alla costruzione di esilaranti gag. 

A volte Napoli è ritratta nei suoi “luoghi comuni” (tra umori da stadio, sceneggiate e momenti oleografici) e Paolo/Fabio si confonde nei corridoi della memoria (con sinuosi movimenti di camera) prendendo le distanze dalla sua patria, dal suo dolente oggetto del desiderio con uno sguardo alieno, isolato, che si adagia sui suoni ormai indistinti provenienti dagli auricolari di un “walk-man”. Napule è tutto nu suonno.

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