Solo qualche considerazione, qualche appunto sull'ultimo Guadagnino: un'idea che è tarlata per un po' nella mente, costruendosi lentamente un passaggio verso il passato, in quella nebulosa d'ombre e vegetazione, volti e ossessi, che scandisce un tempo tutto affettivo, un tempo di spettatore endemico (che non poteva che guardare, tenere gli occhi spalancati sulle cose, sui fenomeni, per un'ingiunzione dell'immanenza, della natura fotodinamica della realtà); quindi dentro una pura “immagine affezione”, luogo in cui sentimento (nostalgia) e visione sono tutt'uno.

Quindi: uno degli aspetti più interessanti del cinema di Guadagnino, almeno da Chiamami col tuo nome in poi, è il rapporto che si instaura tra immagine e musica, con contrappunti di suono ambientale – dialoghi, murmuri, tramestii varii – radicati a piani in cui le cose, le sagome non fanno che confermare una brulicante, pervicace spazialità (soprattutto nel precedente, straordinario Bones and All così laconico, così dilatato sul piano fonosimbolico), e fungono da pausa nella partitura audio-video.

Ecco allora la crescente importanza nei suoi film della figura del supervisore delle musiche che forse in Bones and All trovava la sua massima legittimazione, in un film-juke-box che alla fine era un tripudio di immagini affezioni, volendo restare alla terminologia archetipica deleuziana. In Challengers la supervisione delle musiche è affidata, come già in altri film guadagniniani, a Robin Urdang che attraverso l'elettronica incalzante, avvincente di Trent Reznor e Atticus Ross contribuisce a plasmare un film elettro-pop, io direi, forse meglio, elettro-house.

Ma è una musica mai così "evidentemente", icasticamente funzionale all'avventura dei corpi, anzi delle sagome nello spazio (nell'eremo) dello schermo, quasi fossero disegni animati dotati di volti occhiuti (spalancati, veggenti), e cosce, polpacci, la polpa delle natiche, del sesso stipato nei pantaloncini, tumidi e stilizzati. È questo lo spiraglio nel passato di cui dicevo all'inizio; la sussunzione delle immagini così attuali e ipermoderne di Challangers – la loro immediata, ritmica frenesia (nelle sequenze di tennis) o l'improvvisa stasi delle parti melò – a un preciso microcosmo memoriale, dentro un ampio e complesso processo di estetizzazione del cinema di Guadagnino.

Insomma, mi chiedo: e se il referente di questo film fosse stato un manga, uno di quelli diffusi in Italia tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli Ottanta? Mi pare cioè che quel tipo di avventura, anche enfatica, non dei corpi bensì delle sagome spigolose, gonfie di carne (di luce lattescente, come un plasma circolante in quelle figure a scatto ridotto), sia quella dei cartoni animati giapponesi che gremivano in quegli anni gli schermi convessi dei Telefunken.

E se Guadagnino non avesse esplicitamente in testa questo immaginario, allora si potrebbe dire che la sua ricerca proteiforme si sia momentaneamente assestata su un'iconologia che collimi con il panorama senso-motorio di quei cartoni animati. E lo dimostrerebbe anche un vago senso vintage che permea questo film, anche dal punto di vista dei costumi: una retrospezione in cui ti aspetti che da un momento all'altro compaiano tra le mani dei protagonisti le racchette di legno di Borg o McEnroe o di Jimmy Connors, ma soprattutto quelle usate da Jenny Nolan e da Madame Butterfly o dall'allenatore Jeremy, nella serie a cartoni animati Jenny la tennista di Samuka Yamamoto.

La dinamica delle sequenze di tennis e delle “pause” melò di Challengers sembra essere la trasposizione in-carne di quella in-cartone di Jenny la tennista (la cui sigla italiana recitava «storia d'amore tra le racchette»), con le figure che vanno perentoriamente, avventurosamente a sinistra e a destra (ancora dalla sigla italiana, l'elementare distico di decasillabi: «destra sinistra, sinistra destra/ la folla guarda, grida e protesta»), o avanzano con uno scatto veemente (e ridotto) fino a rete, dove può capitare di farsi male.

Lo sfaglio di materia è prodigioso: è da questa transustanziazione, intervallo materiale di luce e tempo; dal disegno alla carne, che nasce la nuova carne, la carne a disegno animato di Challengers, con la musica che, come in Jenny, sembra muovere e ritmare la gestica dei protagonisti, in un contrappunto di campi e controcampi repentini, in quattro quarti, e brevi pause, primi piani di volti sudati, assolati, fino alla scena finale dove spazio e tempo, corpo e luce si astraggono, anzi si fanno iperbole (come una "catapulta infernale"), sagoma stilizzata: si fanno favola e volo.

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