Il disorientamento che viene dall’abbraccio, l’ultimo, tra Anna (una malinconica, intensa Rosa Palasciano) e Cristi/Nadia (una Yeva Sai perfetta nei lunghi piani-sequenza) ormai arrese alla libertà di appartenere al proprio destino, lo squilibrio che ne deriva, la visione in lontananza, la distanza peraltro necessaria, assoluta – prima del sole negli occhi a dilatare le pupille, scavandole nell’assenza imminente – rompono la tensione, verso la fine: corsa sull’asfalto, clacson, sguardi che si cercano perdendosi fino a che dura la luce, che si propaga dalla profondità del campo, dietro il vetro, dietro il limite della strada, oltre ancora.

È il ritorno all’affermazione della vita, come quando la protagonista scavalca il cancello, di notte, per vedere la macchina distrutta, oppure nella scena in cui getta la scatola delle medicine, quando sale in macchina di sconosciuti convincendo la sua amica a farlo anche lei.

Tutto trema nel cinema di Ciro De Caro, ogni cosa è fragile e potente al tempo stesso, così come sul tram lo sguardo della protagonista che risulta sdoppiato, stratificato, sembra infatti guardarsi, vedere cioè se stessa e chi si posiziona fra i sedili posteriori attraverso l’espediente del flou, collocandosi Anna fisicamente ai margini di un’inquadratura nella quale si manifesta una scissione identitaria di originale bellezza: l’occhio dell’obiettivo si sdoppia aprendo varchi dall’autore all’attrice che “vede” alle proprie spalle, mediante un artificio che sembra traslare l’immagine, la porta da un’altra parte.

La sintassi dello specifico filmico di De Caro sembra richiamare implicitamente quella modalità di riprendere l’oggetto di Daniele Gaglianone in Pietro (2010), con la macchina che segue il protagonista a mo’ di ombra, vista che si allunga, travalica il campo e si traduce in sdoppiamento, autoanalisi in assenza di giudizio. Incalza l’obiettivo-occhio, stando subito dopo i passi, la testa, la schiena: la donna invoca l’esigenza (la libertà) di vivere, di aiutare e sostenere, lei che ha bisogno di essere accolta e sostenuta; la famiglia con le sue stranezze e fragilità, con le sue ossessioni e questioni irrisolte è lo scenario nel quale confluisce il drammatico impulso di verità, mantenendo il distacco, la vocazione eroica al segreto.

La voce, l’espressione del volto, il suono calmo delle parole scosse, instabili di Anna – qui Rosa Palasciano riprende, di Giulia, lo stesso psicologismo esplicitato persino nel tono delle parole, del suo francese «inutile», nel suo particolare modo di dirigere lo sguardo, come assente, a tratti invece estremamente penetrante, come indirizzato però sempre dall’altra parte del campo, volto a chiamare in causa lo spettatore, sollecitato a portare a compimento l’opera di costruzione dei significati, contribuendo così a definire la magia del cinema – incarnano quell’ambivalenza tutta femminile di attrazione e fuga, accudimento e sopraffazione, protezione e catarsi. In parallelo Nadia si prende cura di un’anziana donna ma afferma allo stesso tempo di «non» fare la badante, si mostra reticente nell’atto di pulire, quasi a voler far credere all’amica di non averlo mai fatto. Anche lei, come Rosa, vuole vivere, anche se vivere può significare morire.

«Taxi mon amour?»: l’incontro casuale, riconosciuto come parte intrinseca di uno stare al mondo contraddittorio, per ciò vero, che è cercato, rifiutato, cercato ancora in questa poetica dell’anticipazione del proprio destino che è il cinema di Ciro De Caro, rappresenta una visione della realtà che fa dello sconfinamento nell’alterità il proprio marchio, la propria risposta alla precarietà dell’esistere che in un momento diventa, però, luce che abbaglia: «Se vuoi, andiamo al mare».

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