Stranger Eyes, il nuovo psicodramma del regista singaporiano Yeo Siew Hua, è un film elegante e tratti sorprendente. E sebbene vi siano un voyeur e le sue vittime, la domanda che sorge spontanea è: chi osserva chi? La vita dei due protagonisti, invisibili abitatori di un edificio geometrizzato, tecnofobico e sovrappopolato, è interferita improvvisamente. La loro unica figlia viene rapita e dei video vengono recapitati loro quotidianamente.
In un gioco raffinato di inversioni e ambiguità, i ruoli dei personaggi iniziano lentamente a delinearsi. È attraverso l'immagine che la loro esistenza prende forma e tutto, in questo contesto sospeso e angosciante, inizia a rivelarsi.
Ho avuto il piacere di intervistare il regista Yeo Siew Hua durante #Venezia81, in occasione della presentazione del suo film.
La tensione tra visione e identità, tra osservatore e osservato, è il fulcro del racconto. Esiste davvero una distinzione tra chi osserva e chi viene osservato? Nel caso del protagonista del film, sembra che debba affrontare una realtà a lui estranea, come se dovesse immergersi in un mondo sconosciuto. Un filosofo greco una volta disse che se mangiamo una mela è perché possediamo il seme dentro di noi. Quali sono state le ispirazioni che hanno guidato la creazione di questa storia?
Credo che tutto si concentri sul concetto di identità e sulla sua relazione con la percezione. Spesso pensiamo che "vedere" sia un'azione passiva, ma in realtà è un atto di trasformazione. Nel film, il giovane protagonista osserva attentamente un uomo più anziano, e attraverso questo sguardo prolungato, inizia a trasformarsi, a perdere qualcosa di sé per assorbire i gesti, le espressioni, persino il modo di parlare dell'altro. È un processo che modifica chi osserva, ma anche chi viene osservato. Infatti, la consapevolezza di essere guardati cambia il nostro comportamento, ci rende più coscienti della nostra presenza. Vedere e essere visti sono atti potenti che modellano la nostra identità, che si rivela non essere mai fissa, ma in continua trasformazione.
L'identità è spesso instabile e misteriosa. Pensi che per cogliere l'essenza di una persona sia necessario osservarla di nascosto, magari attraverso una telecamera, per catturare momenti che altrimenti resterebbero inosservabili?
Non esiste una "verità" unica e definitiva. Ogni cosa che vediamo è sempre filtrata dal nostro punto di vista, anche se utilizziamo una telecamera nascosta. Anche in quel caso, non otteniamo mai una visione completa, perché ciò che catturiamo è sempre parziale, soggettivo. È proprio questo che il film vuole comunicare: l’impossibilità di avere un quadro completo. Il rapporto tra visione e identità è affascinante, come hai notato. Spesso siamo ciò che gli altri vedono in noi; la nostra identità si forma in relazione agli sguardi altrui. Ad esempio, quando qualcuno ci fa un complimento, come "Ti vesti bene", iniziamo a percepire noi stessi in un modo diverso. Siamo esseri sociali, e la nostra identità è un riflesso delle interazioni con gli altri. Tuttavia, né lo sguardo degli altri, né il nostro sguardo interiore possono mai essere completamente oggettivi. La nostra identità è un mosaico complesso, mai fisso, in perenne evoluzione.
Pensi che esista una realtà assoluta, o l’ossessiva ripetizione di immagini registrate potrebbe mostrarci prospettive sempre nuove e differenti, sia del mondo che di noi stessi?
È una domanda profondamente filosofica. La risposta breve è che, se consideriamo il mondo come una verità fissa, immutabile e assoluta, allora abbiamo già perso la sua essenza. Questo tipo di comprensione appartiene a una visione del mondo più occidentale, forse cristiana, dove l'idea di un ordine eterno e universale domina. Dal mio punto di vista, influenzato da una filosofia più orientale, come il taoismo, l’unica costante è il cambiamento. L’idea di un assoluto è una finzione, una comodità che ci costruiamo per semplificare la complessità dell'esistenza. In realtà, il mondo è caotico, frammentato, e non possiamo mai afferrarne l’interezza. Insistere su un’unica verità è pericoloso, perché può diventare uno strumento di controllo, un’illusione usata per imporre un ordine fittizio sulla realtà. Questa visione ristretta è dannosa, perché ci impedisce di cogliere la vera natura del mondo, che è fluida, mutevole e infinitamente complessa.