Non avremmo mai immaginato che il film più terrificante che avremmo visto per anni sarebbe stato quell'unica copia in 16 mm di El Perro Andaluz, mutilato del frammento dell'asportazione dell'occhio.
Solo molti anni dopo, quando i film smisero di essere i nastri traslucidi arrotolati in bobine infilati con le dita nei pignoni di un proiettore che li inghiottiva, li schiacciava e li frenava 24 volte al secondo, per illuminare i loro fotogrammi lì congelati e restituire loro una vita ormai logora, di sporche immagini graffiate, semibruciate dal tanto essere attraversate dalla luce della lampada, affinché fossero sempre accolte fugacemente nello schermo davanti ai nostri sguardi attoniti, abbiamo finalmente potuto vedere in copie video quell'immagine negata che a tanti altri aveva fatto chiudere gli occhi.
Nel frattempo, i suoi 21 minuti e 49 secondi originali furono sempre di meno, perché un collezionista fanatico e feticista aveva deciso di rubare quel frammento in cui il coltello aperto nelle mani di Don Luis – pensavamo fosse lui nonostante il montaggio – strappava l'occhio aperto di una donna, permettendo al liquido del bulbo oculare di svuotarsi e precipitare verso l'esterno, lasciando il posto a quel torrente di immagini liberamente associate da Buñuel e Dalí che cercavano di scuotere dal proprio posto la percezione e la coscienza di qualche spettatore benestante.
L'immagine di quell'umore acquoso riversato svanì come un fantasma per noi che sapevamo della sua esistenza e la attendavamo, perché avevamo letto in anticipo il film nei testi sacri di Storie e teorie del cinema e nelle sceneggiature illustrate. Siamo stati dei principianti delusi dalla mancanza dell'immagine iniziatica, nel mezzo dell'eccitazione del nostro desiderio di vederla per la prima volta. Si è trattato di una cerimonia profanata, di un atto fallito, una promessa non mantenuta; la nostra pulsione libidinale di guardoni sarebbe rimasta per sempre insoddisfatta.
All'orrore, allo sconcerto e alla rabbia generata dalla frustrazione, si aggiungeva la spiegazione di qualche veterano cinefilo che speculava su chi potesse essere il rapitore, contro il quale desideravamo in quel momento farci giustizia da soli: dente per dente, occhio per occhio. Dato che le congetture sui motivi del furto non avevano una risposta chiara, tornavamo con indignazione a vedere il resto del film. La cosa più strana è che non ci siamo mai chiesti cosa potesse significare questo occhio doppiamente tagliato, questa doppia scomparsa, negazione dell'oggetto e della sua immagine.
L'unica cosa che era chiara era l'esatta estrazione dei 96 fotogrammi che comprendevano le due riprese usurpate, indicando chiaramente che non si trattava di deterioramento del materiale o di qualche tipo di incidente, ma di un atto premeditato. Anche quando don Hernando Salcedo, direttore del Cine- club colombiano a cui apparteneva la copia, prestandola, avvertiva del suo stato indebolito, lamentandosi di non poter capire le ragioni del barbaro attentato al nostro nascente patrimonio, questo primo archivio filmico costituito nel nostro paese grazie alla generosa pazienza di Don Hernando, e al quale si aggiungevano uno o l'altro classico di Carnè, Eisenstein, Renoir, Lang o De Sica.
Il film amputato della scena dell'asportazione si convertì in unico e incunabolo – definitivamente inedito – senza che nemmeno i suoi irriverenti autori sapessero di questo intervento chirurgico, che avrebbero potuto anche aver apprezzato. La sutura era rusticamente fatta con nastro adesivo che faceva saltare l'immagine proiettata nel suo passaggio sulla rotaia della macchina Bell & Howell, evidenziando il crimine che forse il colpevole si asteneva dal cancellare nella sua interezza. Ma una volta superato il balzo, il torrente di immagini tornava a scorrere come un perfetto esercizio di invocazione bretoniana alle perversità rivelate nel mondo sottomarino dei sogni.
Questa libera associazione di immagini non era più preceduta dall'occhio squarciato che lasciava scorrere il suo interno: la brusca successione di spazi discontinui, situazioni incompiute, primi piani di oggetti, animali e amputazioni umane, frammenti che non avevano più spiegazione, né causa, logica o ragione, solo l'ossessione di possedere tutto ciò che un occhio può vedere.
Forse il consumato censore non sopportava che questa immagine iniziale desse luogo a spiegazioni che non avrebbero mai dovuto essere date, perché non esistevano davvero. Solo il terrorista Don Luís avrebbe potuto godere di questo atto, infastidito dalla spiegazione delle immagini oniriche nel cinema, questo rassicurante risveglio di chi le sogna, il momento in cui le mani si strofinano sugli occhi indicando il confine tra i sogni e la veglia, o il ricorso alla grammatica classica di un montaggio con dissolvenza.
Il massimo terrore di chi sogna consiste invece nel perdere la sensazione di limite che opera in modo vaporoso tra il sonno e la veglia, tra il cinema e la realtà, quel momento in cui sapendosi in un incubo ci si vuole svegliare e non si riesce. Come se volessimo fuggire da qualche immagine inquietante proiettata, e dirigendoci verso la porta d'uscita della stanza, lasciassimo scorrere le tende di velluto del colore del vino rosso, per scoprire che si aprono solo in un'altra stanza buia, in cui continuiamo a cercare una via d'uscita, all’infinito. Perdere la nozione della realtà, transitare tra sogni e cinema fuggendo dal mondo esterno, che può essere più caotico e violento di qualsiasi film. Preferivamo rimanere nel buio e labirintico mondo del cinema, piuttosto che cercare l'uscita nelle strade di una città che non sembrava avere molte altre aperture.
Fu così che il ladro di fotogrammi fece avverare tra di noi questo desiderio surrealista, seminando il terrore tra i giovani cinefili di un paese strano e distante, ma che sembrava saper godere o abituarsi al peggio. Fuori da queste stanze improvvisate in qualche casa disabitata perché in affitto o venduta, e adattata con alcune sedie, poltrone, cuscini o materassi, lo schermo incantato e il proiettore 16 mm preso in prestito da qualche istituto scolastico, c'erano le strade di una città fredda e sordida che assediava con le sue aggressioni, la pubblicità e la merce. Non era strano ritrovarsi in queste strade vicine alle case in vendita, ai teatri, alle università, alle caffetterie e ai luoghi dove venivano esposti i giornali della sera con le loro agghiaccianti notizie e immagini di decapitazioni e amputazioni mediante sofisticate tecniche: taglio di fioraio, taglio di flanella, taglio di cravatta e altri tagli.
Una serie di anatomie sensazionalistiche di altri «cadaveri squisiti» che uscivano galleggiando nei fiumi di una geografia vicina, che erano ignorati – forse inconsapevolmente – da noi che guardavamo senza pudore un montaggio di tagli: dei moncherini di mani tagliate, formiche che bucavano altre mani, due asini che marcivano su un pianoforte a coda e l'occhio tagliato che non ci lasciavano vedere. Fuori continuavano le strade e i fiumi di un territorio dove da tanto si uccideva, stuprava, torturava e poi si cancellava l'impronta del movente criminale, lasciando solo le immagini del più perverso spettacolo, che non generava più domande né emozioni.
La violenza del montaggio del reale attraverso i mezzi di comunicazione rendeva invisibili i tagli e le discontinuità di un paese di discariche di sangue e corpi, le immagini parziali e sconnesse della stampa non commuovevano più dopo il riconoscimento di questo "luogo comune" dove, come lo stesso Buñuel dice: «si può uccidere per un brutto sguardo». Le immagini appese alle edicole dei giornali non impressionavano più, le loro grida erano più mute del silenzioso cane andaluso. Tutta questa storia di violenze fratricide non sembrava avvertita da noi che ci indignavamo di fronte alla censura dell'occhio reciso, di fronte al fatto che ci fosse proibito guardare un po' di più. Un'intera generazione di cinefili che ci permettevamo solo di vedere e riconoscere con degna rabbia il taglio e la sutura delle due riprese rubate al film.
Forse nelle cineteche di Parigi, New York o Londra, l'attentato terroristico a un capolavoro del cinema non sarebbe rimasto impunito. Ma nel nostro mondo, la precarietà totale ci abituava a tutti i tipi di conformismi. Anni dopo, sarebbero state le videocassette, che già dissipavano questo feticismo del tatto, del ritaglio, del vedere in modo trasandato, dell'olfatto e del sapore di film impregnato di alogenuri d'argento, quelle che paradossalmente avrebbero permesso di vedere l'intera scena in cui la luna era attraversata da una lunga nuvola e l'atteso occhio della donna era davvero quello di una vacca.
La sua bellezza era scandalosa, ma noi avevamo già immaginato il peggio. Solo quattro secondi avevano rovinato le nostre fantasie più perverse, il nostro pirata che aveva accecato il perro per possedere quello che considerava il culmine del cinema surrealista, senza saperlo ci ha fornito per anni il capolavoro del terrore, o almeno del terrore dei cinefili, che preferivamo il rischio dell'occhio strappato e di altri orrori alla scomparsa del feticcio, dell'immagine sublimata, che finì per sostituire la nostra realtà immediata.
TESTO ORIGINALE
Humor acuoso
Jamás hubiésemos imaginado que la película mas terrorífica que tendríamos que ver por años, fuese aquella única copia en 16 mm de El Perro Andaluz, a la que se le había mutilado el fragmento del cercenamiento del ojo. Solo muchos años después, de que las películas dejaran de ser las cintas traslúcidas enrolladas en carretes, para ser ensartardas con nuestros dedos en los piñones de un proyector que las engullía, halándolas y frenándolas 24 veces por segundo, para iluminar sus fotogramas ahí congelados y devolverles una vida ya gastada, de sucias imágenes rayadas, medio quemadas de tanto ser atravesadas por la luz de la lámpara, para que en la pantalla siempre fueran acogidas fugazmente ante nuestras miradas atónitas; pudimos ver finalmente en copias de video aquella imagen negada que a tantos otros había hecho cerrar los ojos.
Mientras tanto, sus 21 minutos y 49 segundos originales fueron siempre menos, pues un fanático y fetichista coleccionista había decidido hacer suyo aquel fragmento en que la navaja abierta en las manos de Don Luis -suponíamos que era él a pesar del montaje- rasgaba el ojo abierto de una mujer, permitiendo que el líquido del globo ocular se vaciara y precipitara hacia afuera, dando paso a ese torrente de imágenes libremente asociadas con que Buñuel y Dalí buscaban sacudir la percepción y la conciencia de unos espectadores muy acomodados en sus butacas. La imagen de ese humor acuoso derramado, se desvanecio como un fantasma para quienes sabíamos de su existencia y la esperábamos, pues habíamos leído de antemano la película en los textos sagrados de Historias y teorías del cine y en sus guiones ilustrados. Fuimos unos principiantes defraudados ante la falta de la imagen iniciática, en medio de la excitación de nuestro deseo de verla por primera vez. Esta fue una ceremonia profanada, un acto fallido, una promesa incumplida; nuestra pulsión libidinal de mirones quedaría siempre insatisfecha.
Al horror, el desconcierto y la rabia generada por la frustración, se le sumaba la explicación de algún cinéfilo veterano que especulaba sobre quién pudo haber sido su raptor, por quien deseamos en ese momento hacer justicia por mano propia: diente por diente, ojo por ojo. Sin que las inmediatas conjeturas sobre los motivos del hurto tuviesen una respuesta clara, volvíamos con indignación a disponernos para ver el resto del filme. Lo mas extraño es que nunca nos preguntamos de lo que pudiese significar este ojo doblemente cortado, esta doble desaparición, negación del objeto y de su imagen. Lo único que quedaba claro era la exacta extracción de los 96 fotogramas que comprendian las dos tomas usurpadas, indicando claramente que no se trataba de deterioro del material ni de algún tipo de accidente, si no de un acto premeditado. Incluso cuando don Hernando Salcedo, director del Cine club de Colombia a quien pertenecía la copia, advertia al prestarla de su aminorado estado, lamentándose no poder entender las razones del bárbaro atentado a nuestro incipiente patrimonio. El de este primer archivo fímico constituido en nuestro país con la generosa paciencia de Don Hernado, y al que se sumaban uno que otro clásico de Carne, Eisenstein, Renoir, Lang o De Sica.
La película amputada de aquella escena del cercenamiento, se convirtió en única e incunable -definitivamente inédita- sin que siquiera sus irreverentes autores supieran de esta intervención quirúrgica, que incluso podrían haber gozado. La sutura estaba rústicamente hecha con cinta pegante que hacía saltar la imagen proyectada a su paso por el carril de la máquina Bell & Howell, evidenciando el crimen que quizá el culpable se abstenía de borrar en su totalidad. Pero una vez superado el brinco, volvía a fluir el torrente de imágenes como un perfecto ejercicio de invocación bretoniana a las perversidades reveladas en el mundo submarino de los sueños. Esta libre asociación de imágenes ya no estaba precedida por el ojo rasgado que dejaba derramar su interior: la abrupta sucesión de espacios discontinuos, situaciones inconclusas, primeros planos de objetos, animales y amputaciones humanas, fragmentos que ya no tenían más explicación, ni causa, lógica o razón, tan solo la obsesión de poseer todo lo que un ojo puede ver.
Quizá al cultivado censor no soportaba que esa imagen inicial diese lugar a explicaciones que nunca deberían darse, por que realmente no existían. Solo el terrorista Don Luís podría haber gozado de este acto, ya que le molestaba tanto la explicación de las imágenes oníricas en el cine, ese tranquilizador despertar de quien las sueña, el del momento en que unas manos frotan los ojos señalando la frontera entre los sueños y la vigilia, o el recurso de la gramática clásica de un montaje por disolvencia. Por el contrario, el máximo terror de quien sueña consiste en perder la sensación de límite que opera de manera vaporosa entre el sueño y la vigilia, entre el cine y la realidad, ese momento en que sabiéndose en una pesadilla se quiere despertar y no se logra aún. Cómo si quisieramos escapar de alguna perturbadora imagen proyectada, y diriguiéndonos hacia la puerta de salida de la sala, corremos las cortinas de terciopelo y color vino tinto pero estas solo abren a otra sala oscura, en la que continuamos buscando una salida y así sucesivamente. Perder la noción de realidad, transitar entre sueños y salas de cine alejándonos de un mundo exterior, que podría ser más caótico y violento que cualquier película. Finálmente preferíamos estar en el oscuro y laberíntico mundo que nos proponía el cine, antes que buscar la salida a las calles de una ciudad que no parecía tener muchas mas salidas.
Fue así como el ladrón de fotogramas hizo que se cumpliera este anhelo surrealista entre nosotros, sembrando el terror entre los jóvenes cinéfilos de un país ajeno y distante, pero que parecía saber disfrutarlo o estar acostumbrándose a lo peor. Afuera de estas salas improvisadas en alguna casa inhabitada por que se arrendaba o vendía, y adaptada con algunas sillas, sillones, cojines o colchones; una pantalla hechiza y el proyector de 16 mm tomado prestado de alguna institución educativa; estaban las calles de una ciudad fría y sórdida que asechaba con sus asaltos, publicidad y mercancías. No era extraño encontrarse en estas calles aledañas a las casas en venta, los teatros, las universidades; las cafeterías y paraderos donde se exhibían los periódicos vespertinos con sus escabrosas noticias e imágenes de decapitaciones y amputaciones mediante sofisticadas técnicas: corte de florero, corte de franela, corte de corbata y otros cortes. Una cantidad de anatomías sensacionalistas de otros “cadáveres exquisitos” que salían a flote en los ríos de una geografía próxima, que eran ignorados -quizá inconscientemente-, por quienes mirábamos sin pudor en un montaje de cortes directos: unos muñones de unas manos cortadas, unas hormigas que horadaban otras manos, dos burros pudriéndose encima de un piano de cola y el ojo cortado que no nos dejaron ver. Afuera continuaban las calles, caminos y ríos de un territorio en donde desde hacia tanto se asesinaba, violaba, torturaba y luego se borraba la huella del motivo criminal, quedando solo las imágenes del más perverso espectáculo, que ya no generaba preguntas ni emociones.
La violencia del montaje de lo real por los medios, hacía invisible los cortes y las discontinuidades de un país de vertederos de sangre y cuerpos, las imágenes parciales e inconexas de la prensa ya no conmovían más allá del reconocimiento de este “lugar común”, donde, como el mismo Buñuel digo: “se puede matar por una mala mirada”. Las imágenes que colgaban de las casetas de ventas de periódicos o paraderos ya no impresionaban mas, sus gritos eran mas mudos que el silencioso perro andaluz. Toda esta historia de violencias fratricidas no parecía ser advertida para quienes nos indignábamos ante la censura del ojo cortado, ante el hecho de que se nos prohibiera mirar un poco mas. Toda una generación de cinéfilos que solo nos permitimos ver y reconocer con digna rabia el corte y la sutura de las dos tomas robadas a la película.
Quizá en las cinematecas de París, Nueva York o Londres, el atentado terrorista a una obra maestra del cine no hubiera quedado impune. Pero en nuestro mundo, la precariedad total nos habituaba a todo tipo de conformismos. Años mas tarde, serían las cintas electromagnéticas de video, que ya disipaban este fetichismo del tacto, del recorte, de ver a trasluz, del olfato y el sabor a película impregnada de haluros de plata, las que paradójicamente permitieron ver la escena completa en que la luna era atravesada por una larga nube y el esperado ojo de la mujer era realmente el de una res. Su belleza era escandalosa, pero nosotros ya habíamos imaginado lo peor. Solo cuatro segundos echaron nuestras más perversas imaginaciones al traste, nuestro pirata que había dejado tuerto al perro para poseer lo que él consideraba el sumun del cine surrealista, sin saber nos brindó por algunos años la obra maestra del terror, o al menos del terror de los cinéfilos, quienes preferíamos el riesgo del ojo rasgado y otros horrores a la desaparición del fetiche, de la imagen sublimada, que rremplazó nuestra realidad inmediata.