(Trad. Giovanni Festa)


«Il futuro dove ci fa piombare il passato che amiamo è l’unico futuro sul quale ha senso puntare,

l’unico futuro dove possiamo proiettarci senza tradirci,

mentre viviamo l’unico tempo che ci è dato vivere con il corpo, la mente e tutto il resto: il presente».

(Jonny Costantino)




A causa dell'urgenza di soddisfare necessità ordinarie (dar da mangiare ai figli o pagare l'affitto), ed esigenze creative (realizzare esperimenti visuali o scrivere sull'arte della visione), Stan Brakhage è costretto, tra il 1969 e il 1981, a tenere un corso di storia del cinema ed estetica presso l'Art Institute di Chicago. Come per ogni cineasta americano che pretendesse di sfidare, anche solo un poco, l'industria, quello che all'inizio era un modo sicuro per resistere alla precarietà di tutto ciò che è marginale, diventa occasione propizia per la sperimentazione interna a quel territorio aperto che è il cinema.

Tuttavia, Brakhage non si concentra solo sul dispiegare le sue doti di regista; è quello che stava facendo, ad esempio, Nicholas Ray il quale, rientrato nel suo paese, dopo aver fallito nell’impresa di portare a termine il film sul processo contro i Sette di Chicago, dovette, in quegli stessi anni, insegnare presso il nuovo Dipartimento di Cinema dell'Università di Binghamton di New York, il che gli permise di lavorare a We can’t go home again (1973), progetto cinematografico di vita e, allo stesso tempo, metodo di insegnamento basato semplicemente sul fatto che i suoi studenti facessero realmente cinema.

Se Ray, il cineasta orbo che finisce per eseguire una performance mortuaria davanti alla telecamera di Wim Wenders, vede nelle lezioni la possibilità di non smettere di fare quello che la sua intuizione vitalista gli ordinava di fare, filmandosi nella posizione di insegnante-regista; Brakhage, il regista sperimentale che uccide la narrazione per produrre sullo schermo ciò che chiama «musica visiva», vede nelle lezioni il modo di fare semplicemente una storia del cinema mettendo l’accento sui suoi primi, fulgidi, anni di vita.

Tenendo una serie di conferenze in cui presenta «biografie filmiche»  – e che riunisce poi in un libro pubblicato nel 1977 con lo stesso nome  –, il professor Brakhage dedica una sessione-saggio ai cosiddetti pionieri dell'arte cinematografica (da Georges Méliès ad Aleksandr Dovzhenko, passando per D.W. Griffith) e all'emblematico personaggio cinematografico Dr. Caligari. Nella prima lezione avverte che offrirà «una biografia fittizia di Méliès, un romanzo storico, per così dire, in cui io, come presentatore, vi mentirò – raccontando una storia, come si dice –  per arrivare alla verità» (1).

Ma che senso ha rivolgersi ad uno studente desideroso di imparare i trucchi del più sperimentale dei cineasti americani unendo insieme l'espressione colloquiale per antonomasia del dubbio («raccontare storie») e il termine la cui ricerca racchiude la massima serietà che è possibile manifestare («verità»)? Che senso ha produrre racconti se nei suoi film frammentari si pretende di opporsi a qualsiasi accenno di narratività convenzionale?

Un controverso Brakhage dà così forma a biografie assemblate in un corso di Storia del cinema nella stessa epoca non solo del boom delle elaborazioni filosofiche al riguardo, ma anche dell'emergere di voci sulfuree a proposito dell'uso della nozione di autore nel campo cinematografico. Brakhage, al contrario, riscrive liberamente la vita di coloro che da varie latitudini hanno osato utilizzare il nuovo dispositivo come mezzo di esplorazione, ponendo particolare enfasi sulla loro infanzia come se il loro modo di sperimentare fosse determinato fin dalla nascita, anche prima dell'invenzione del cinematografo. Con quell'esercizio di scrittura, il cineasta Brakhage emula quegli anni iniziatici guidati da una sorta di boy band di cineasti-scrittori incaricati di teorizzare sul cinema riflettendo sulla propria attività. Band che, come è noto, aveva come frontman un ispirato Sergei Eisenstein avvolto in una luce rossa e fioca.

Brakhage confessa subito che non farà altro che «raccontare storie», espressione in cui sintetizza magistralmente la condizione di inclassificabile che ha segnato fin dall'origine la produzione di biografie. È dalle Vite parallele (Bioi parallēlloi) di Plutarco che la cosiddetta «arte sconosciuta di differenziare l'esistenza» (2) prende le distanze dalla prosa storica dei grandi eventi per porsi a metà strada tra il sollevarsi come ridotto morale, presentando vite esemplari ricche di esperienze degne da essere da stimolo all'intera umanità; e il servire da possibilità affinché eventi incredibili, raccontati come aneddoti, sfilino davanti agli occhi di chiunque abbia il potenziale di configurare l'immagine di un popolo in un dato momento.

L'operazione del cittadino Plutarco di far scendere dall'Olimpo i grandi eroi per condurli nella vita ordinaria, senza per questo togliere loro il velo di maestosità che li ricopre, viene invertita nel basso Medioevo dal vescovo Jacopo da Varagine che, con la sua Legenda aurea, fa ascendere il lettore al Cielo per dargli l'opportunità di convivere con santi, martiri e angeli come se i loro prodigi fossero «fatti ordinari, [una] specie di cronaca quotidiana del miracolo» (3). Questo, naturalmente, non vuol dire che tali racconti siano frutto della pura invenzione: le loro agiografie reclamano di essere lette seriamente e ancorate alla realtà nella misura in cui sono strettamente comprese come legenda, cioè lecturas della vita di santi cristiani che, in questo caso, sono tanto terreni quanto celesti.

Il vettore di esemplarità che fin dall'antichità ha attraversato le biografie è confermato dal fatto poco casuale che la penna di Plutarco sia stata recuperata da un traduttore francese nel mezzo delle Guerre di Religione, per divenire, grazie agli artefici della Rivoluzione francese, popolare a tal punto che alcuni sono arrivati ad affermare, con una certa dose di esagerazione, che «senza di lui Napoleone sarebbe stato disarmato» (4). Con il prepotente spirito del diciottesimo secolo, le biografie guadagnano in ambiguità, perché si accorcia la distanza tra chi scrive e chi è oggetto di scrittura: senza abbandonare completamente il dominio della morale religiosa, un discepolo scozzese scrive la vita del suo maestro (anche lui biografo, ma inglese) combinando lo sguardo rispettoso dell'ammiratore di una grande opera con l'acutezza e l’onestà di chi ha accesso fino all'angolo più segreto dell'intimità altrui.

Così James Boswell interpreta Samuel Johnson, ribattezzato «il Dottore» – un individuo capace di ritrarre il carattere della cultura britannica fino a rendere indistinguibile il modo in cui offende il Venerdì Santo con la lettura spassosa di alcuni passi di Shakespeare che condivide con il suo biografo. Ma il discepolo non si limita a cantare la genialità luminosa e nello stesso tempo triviale del maestro: con umorismo benevolo parla in prima persona quando enumera le ombre della sua personalità, prodotte dalle contraddizioni tra le idee e la pratica, le credenze e la condotta, l'opera e la vita quotidiana, mostrandone innanzitutto la sincerità quando lo sente dire che «è nobile pubblicare la verità, anche quando condanna qualcuno» (5). Così, il biografo si oppone espressamente ad essere un testimone privilegiato di aneddoti in chiaroscuro per diventare un lettore partecipe della vita di qualcuno presentandola come un'opera suscettibile di essere letta da altri.

Ammessa la possibilità che all'origine delle frasi celebri ci sia l'eccesso di vino, tra il XIX e il XX secolo le biografie entrano definitivamente nel catalogo dell'arte lasciandosi alle spalle i vecchi tentennamenti per disputare il posto ai romanzi storici. Questo si traduce in una lotta spietata tra coloro che realizzano un'apologia del fatto preciso, concreto e documentato che mette la lettrice in rapporto immediato con l'accaduto (6), ponendo l'accento sulla persona che li vive; coloro che difendono la biografia come arte pura nella misura in cui si disfano del peso storico a cui era obbligato il funzionario Plutarco per diventare una con la natura; e coloro che si lasciano incantare dal proprio impulso creativo assumendo senza complessi la somiglianza di famiglia con il romanzo fino a far diventare la biografia un genere letterario autonomo, accentuando la figura del biografo.

Negli stessi anni in cui Brakhage presenta le sue biografie filmiche, Roland Barthes decreta con lingua velenosa che «ogni biografia è un romanzo che non osa pronunciare il suo nome» (7). Riconosciuta la differenza di enfasi che le affronta come se si trattasse di schieramenti, la sola convivenza di questi modi di concepire la scrittura di una vita realmente vissuta mostra che «la verità diventa più elastica e l'esigenza estetica è più imperiosa» (8), deviando i confini che cercano di separare con cemento la storia dal romanzo, la verità dalla finzione, la vita dalla parola. In tutti i casi, si tratta della vita di qualcuno, -la cui condizione di realmente esistente non è in discussione-, che viene messa nella forma di un racconto in cui il punto finale coincide con l'evento irresistibile della morte.

Non mettere in dubbio il fatto che l'oggetto del racconto abbia sofferto il passare del tempo come qualsiasi comune mortale non vuol dire che non gli venga chiesto di rivendicare il suo diritto di essere visto come una forma di vita singolare. Non è lo stesso sostenere che Lenin fu il più eloquente scrittore di testamenti, il principale leader della Rivoluzione d'Ottobre o il primo comunista imbalsamato per ordine della Commissione per l'immortalizzazione sovietica.

Ciò implica che chi legge una vita, indipendentemente da quale essa sia, la presenta come esemplare nel senso etico in cui usa il termine Pier Paolo Pasolini quando indica che è «la serie di informazioni che l'essere umano dà per se stesso in quanto realtà che si rappresenta e agisce (...) ed è questa la differenza tra il linguaggio della realtà naturale e il linguaggio della realtà umana. Il primo dà solo informazioni, il secondo, con le informazioni, dà l'esempio» (9). Liberato da ogni fardello moralista, trattare la vita di qualcuno come esempio non resiste al semplicismo di catalogare qualsiasi azione nel dominio del male: anche i più cruenti dittatori hanno lasciato dietro di sé copiose biografie. Infatti, in quelle scritte da Brakhage ognuno dei cineasti-precursori è, da quando era solo un feto cullato nell'utero, diviso in due: diavolo e Dio, fantasia e realismo, bestia e creatore.

Il suo Méliès diventato mago trova nel cinema una forma paradigmatica di affrontare quei demoni che lo videro nascere in attesa di una salvezza possibile, per poi, alla fine, vendere dolci dopo essere stato sconfitto dall'industria degli imitatori che offriva film come i suoi ma senza «cacciare le bestie che si rifugiano nelle tane dei suoi ordini angelici» (10).

Sotto lo sguardo di Brakhage le vite di questi geni del cinema, che possono essere incoronati come falliti esemplari, appaiono non solo come i portatori di un’autorialità vivente senza paura delle contraddizioni (o, meglio, espressione estetica di una vita attraversata dalla divisione) ma come i produttori di un modo di comprendere storicamente il cinema che anticipa quella che Jacques Rancière chiamerà una «favola contrariata»: la storia del cinema è quella di una forma espressiva che, dovendo costantemente affrontare la dichiarazione della sua morte, risponde con efficienza interiorizzandola nella forma stessa della contrarietà intesa come unità dei contrari (11).

Così il cineasta Brakhage utilizza queste vite cinematografiche per tessere sotterraneamente una specie di manifesto la cui frase inaugurale si potrebbe immaginare come questa parafrasi della citazione del poeta Charles Olson che ricorda, a proposito di Jean Vigo (12) che «L'unica cosa veramente significativa che un uomo può fare con la sua vita è creare se stesso». Crearsi è proprio quello che ha fatto lo scrittore Blaise Cendrars, che il suo amico scrittore Henry Miller descriveva come un innamorato della vita, un uomo composto di molte parti per le quali scrivere e vivere erano un solo verbo, perché, detto con le sue stesse parole, non intingeva la penna nell'inchiostro, ma nel fiume della vita.

Negli stessi anni che i cineasta pionieri che interessavano a Brakhage stavano sperimentando, Cendrars scrive con lettere di fuoco che:

Il ruolo del cinema per l’avvenire sarà di riscoprire gli uomini, noi stessi, di smontarci e rimontarci, di mostrarci a noi stessi, di farci accettare, senza rancore o disgusto, così come siamo con in noi la vita degli antenati e dei figli, senza finte, al di fuori di ogni convenzione, in piena fatalità, in pieno atavismo, in pieno divenire, come animali ebbri o buoni o ragionevoli o malvagi (13).

Con questo brano Jonny Costantino inaugura il suo libro Un uomo con la guerra dentro. Vita disastrata ed epica di Sterling Hayden: navigatore attore traditore scrittore alcolista (2020) in cui mette in scena quell'uomo biondo e snello che aveva tutte le doti per diventare una stella del firmamento hollywoodiano, ma alla fine rimase un attore secondario tanto appassionato quanto alcolizzato.

La grandezza che Hayden sta nell’aver raggiunto la fama proprio come attore secondario: lavorò con i migliori registi del suo tempo (da Bernardo Bertolucci a Stanley Kubrick, passando per John Houston e lo stesso Ray) in film che, come sottolinea Costantino, sono considerati opere minori all'interno delle loro superbe filmografie. Tuttavia, non fu solo un attore secondario di grandi film minori: ricreandosi costantemente, seppe assumere tutte le etichette enumerate a perdifiato nel sottotitolo del libro di Costantino. Se il suo alcolismo lo affratella a Ray quando il cineasta rivela che ama vivere ma è coinvolto nella morte (14), il suo lato di scrittore lo mette in contatto con Brakhage che crede che il colorante estratto dal catrame di carbone con cui dipingeva i suoi film gli abbia causato il cancro che lo condusse irrimediabilmente alla morte.

Vita e morte o, meglio, «vitamorte» (per usare un termine dello stesso Costantino) (15) incarnata nell'autobiografia di Hayden, Wanderer (1963), in cui l’attore afferma di essere morto in vita quel giorno dell’agosto 1950 quando, spinto dalla commissione anti-comunista costituita da McCarthy, agì contro se stesso come l'informatore più illuminato di tutti. La fratellanza formata da Hayden, Ray e Brakhage è rafforzata da Costantino che, con il suo libro, si unisce ad una nuova boy-band di cineasti-scrittori: inizia raccontando il suo incontro con Wolf-Eckart Bühler dopo aver visto a Bologna i suoi Pharos of Chaos [Leuchtturm des Chaos] (1983), film che prende il titolo dal secondo libro scritto da Hayden per navigare nello stesso mare increspato di Wanderer mettendo in scena l'attore secondario coperto di una folta barba bianca nella sua chiatta arenata sulle rive del sud della Francia mentre conversa adottando un tono di confessione postuma.

Così il libro di Costantino è prima di tutto lo sforzo di annusare, come fa un cane quando ne riconosce un altro, Bühler, per intavolare poi una conversazione impossibile (a causa della morte improvvisa del cineasta un anno dopo il loro unico incontro) il cui catalizzatore è la vita fangosa di un «terzo cane», Hayden. Con lo stesso spirito espresso nella rivista tedesca Filmkritik  – in cui scrive il cineasta Bühler mentre Brakhage pubblica le sue biografie –, cioè assumendo la formula di Bertolt Brecht quando dice di voler comprendere mettendo in discussione tutto ciò che è presente, Costantino offre una lettura dell'unicità di Hayden per suggellare un patto attraverso la scrittura con tutti quegli artisti-avventurieri (da Nietzsche a Hayden, passando per Cassavetes) che cercano costantemente qualcosa di più grande della vita.

In altre parole, se Pharos of Chaos è «una forma cinematografica proporzionale alla fisionomia spirituale e temperamentale [di Hayden] (...) un cinema corrispondente ad un'altra idea di cinema (...) un cinema bigger than cinema», Un uomo con la guerra dentro è una forma di scrittura capace di «raschiare dalla faccia i residui della maschera, sapendo che sotto la faccia può esserci un velo più duro del cranio. Una procedura, si capisce, sanguinolenta: capita come niente di staccare fette di carne e scalfire il velo arrivando all'osso. Nemmeno l'osso, di per sé, è garanzia di verità» (17).

Una forma di scrittura che mette in pericolo la vita, che brucia vivi, che non smette di ardere perché nel suo dispiegamento sollecita la comprensione che si ha di ognuno(a). Per questo il biografo Costantino non solo utilizza la sua penna per scrutare la vita del vortice Hayden sovvertendo la logica dell'eroe e rendere esemplare quella vita segnata dal fallimento che diventa tanto produttivo quanto sofferto; più radicalmente, il cineasta Costantino abbatte la barriera che separa l'esperienza dello scrittore (scrittrice)/cineasta dall'esperienza del lettore (lettrice)/spettatore(spettatrice): la messa in abisso operata dallo scrittore/cineasta si propaga visivamente al lettore/spettatore in modo tale da poter condividere la rivelazione che implica guardarsi in profondità. Per questo Costantino dice, rispetto al titolo del suo libro, che chiunque si esprima ha una guerra dentro di sé, essendo la forma espressiva ciò che produce i propri armistizi.

Non è, tuttavia, un caso che queste idee vengano mostrate mettendo il naso nella storia del cinema, o, meglio, in quell'altra storia del cinema che è la vita di un attore secondario che più di tutti sembrava una forza della natura. Lo stesso esercizio di scrittura porta il cineasta Costantino a comprendere se stesso all'interno di essa, concependo il cinema, non a caso come Cendrars, come il campo dove "il corpo, la mente e tutto il resto" vivono, in quel confine tra la realtà e il sogno, la verità e la menzogna, il bene e il male, in cui le crepe del presente non cessano di essere rivelate nel loro dispiegamento.

Così Costantino finisce per donare una biografia filmica che, come sostiene altrove riferendosi all'attività della scrittura, si erge come un olocausto salvifico (18) in cui rinasce la figura del cineasta come autore ardente che non fa altro che avventurarsi a cercare qualcosa oltre la vita guardando negli occhi la morte stessa.

 

NOTE

(1) Stan Brakhage, El asedio de las imágenes. Cinco biografías fílmicas (Santiago, Chile: Ediciones Bastante, 2019), 17.

(2) Espressione utilizzata da Hernán Díaz Arrieta a proposito della nozione di arte dell’autore delle Vidas imaginarias (1896), Marcel Schwob, in “Estudio preliminar” in AA.VV, El arte de la biografía (México: Editorial Océano, 2016), XXXV.

(3) Hernán Díaz Arrieta, “Estudio preliminar” en Varios autores, El arte de la biografía (México: Editorial Océano, 2016), XXII.

(4) Hernán Díaz Arrieta, “Estudio preliminar”, XV.

(5) James Boswell, “Vida del Doctor Johnson” en Varios autores, El arte de la biografía (México: Editorial Océano, 2016), 279-280.

(6) Scrive Emil Ludwig, insigne esponente di questo bando, che “se debería exigir responsabilidad al que invente tratando de la verdad histórica, lo mismo en el sentido de añadir que de ocultar. Al biógrafo que excluye, trueca o completa caprichosamente un documento único, esencial, debería retirársele la venia scribendi, por atentado contra la seguridad pública…”, citato en Hernán Díaz Arrieta, “Estudio preliminar”, XXXI-XXXII.

(7) Citato en Louis-Jean Calvet, Roland Barthes, una biografía (Barcelona, España: editorial Gedisa, 2001), 17.

(8) Hernán Díaz Arrieta, “Estudio preliminar”, XXXI.

(9) Pier Paolo Pasolini, “El fin de la neovanguardia (Apuntes sobre una frase de Goldmann, sobre dos versos de un texto de neovanguardia, y sobre una entrevista de Barthes)” (1966), en Empirismo Herético (Buenos Aires, Argentina: Editorial Brujas, 2005), 192-93.

(10) Stan Brakhage, “Georges Mèliés” en El asedio de las imágenes. Cinco biografías fílmicas (Santiago, Chile: Ediciones Bastante, 2019), 35.

(11) Véase Jacques Rancière, La fábula cinematográfica (Buenos Aires, Argentina: El cuenco de plata, 2018).

(12) Stan Brakhage, “Jean Vigo” en El asedio de las imágenes. Cinco biografías fílmicas (Santiago, Chile: Ediciones Bastante, 2019), 63-64.

(13) Blaise Cendrars, Una notte nella foresta (1929) citado como epígrafe en Jonny Costantino, Un uomo con la guerra dentro. Vita disastrata ed epica di Sterling Hayden: navigatore attore traditore scritore alcolista (Brescia, Italia: Lamantica Edizioni, 2020), 11.

(14) Véase el filme Don’t expect too much (2011) de Susan Ray.

(15) Véase Jonny Costantino, Ivana Peric (2022). “Diálogos re-consagradores. Correspondencia entre Jonny Costantino e Ivana Peric M.”, laFuga, 26 [Disponible en: http://2016.lafuga.cl/dialogos-re-consagradores-correspondencia-entre-jonny-costantino-e-ivana-peric-m/1095] donde sostiene que “mi idea de epifanía tiene que ver con la magia de lo que llamo ‘vidamuerte’: una idea de la vida tan amplia que contempla la muerte o –desde otra perspectiva– un bulto de la existencia donde la parte de la vida se confunde con la parte de la muerte y es inextricable de ella”.

(16) Jonny Costantino, Un uomo con la guerra dentro, 162.

(17) Jonny Costantino, Un uomo con la guerra dentro, 104-105.

(18) Jonny Costantino, Ivana Peric (2022). “Diálogos re-consagradores. Correspondencia entre Jonny Costantino e Ivana Peric M.”.




TESTO ORIGINALE

Vida en obra. La potencia extravital de la biografía fílmica

 

«Il futuro dove ci fa piombare il passato che amiamo è l’unico futuro sul quale ha senso puntare,

l’unico futuro dove possiamo proiettarci senza tradirci,

mentre viviamo l’unico tempo che ci è dato vivere con il corpo, la mente e tutto il resto:

il presente».

(Jonny Costantino)

 

Debido a la urgencia de satisfacer necesidades ordinarias como alimentar a sus hijos o pagar el alquiler, pero también necesidades creativas como realizar experimentos visuales o escribir sobre el arte de la visión, Stan Brakhage se vio obligado a dictar un curso de historia del cine y estética en el Instituto de Arte de Chicago entre 1969 y 1981. Como para todo cineasta estadounidense que pretendiera desafiar –aunque sea levemente– la industria, lo que comenzó siendo un modo seguro de resistir a la precariedad de los márgenes se convirtió en una nueva ocasión para experimentar en el campo abierto por el cine.

Con todo, Brakhage no se enfocó en desplegar sus dotes de realizador como sí lo hizo un retornado Nicholas Ray, quien ya de vuelta en su país –y tras fracasar en llevar a filme el juicio contra los siete de Chicago– tuvo que asumir por esos mismos años un curso en el recién inaugurado Departamento de Cine de la Universidad de Binghamton de Nueva York que le sirvió de marco para trabajar en We can’t go home again (1973), proyecto fílmico de vida a la vez que método de enseñanza basado nada más y nada menos en que sus estudiantes hicieran realmente cine. Si Ray, el cineasta tuerto que termina realizando una performance mortuoria frente a la cámara de Wim Wenders, ve en las clases la forma de no dejar de hacer lo que su intuición vitalista le manda a hacer, ahora grabándose en la posición de profesor-director; Brakhage, el cineasta experimental que da muerte a la narración para producir en pantalla lo que llama “música visual”, ve en las clases la forma de hacer nada más y nada menos que una historia del cine acentuando sus fulgurantes primeros años de vida.

Dictando una serie de conferencias en las que presenta “biografías fílmicas” – y que reúne luego en un libro publicado en 1977 con el mismo nombre–, el profesor Brakhage dedica una sesión-ensayo a los denominados pioneros del arte cinematográfico (de Georges Méliès a Aleksandr Dovzhenko, pasando por D.W. Griffith) y al personaje fílmico emblemático Dr. Caligari. Advierte, en la primera de todas, que ofrecerá «una biografía ficcional de Méliès –una novela histórica, por así decirlo–, en la que yo, como presentador, les voy a mentir –a contar un cuento, como se dice– para llegar a la verdad» (1). Pero ¿qué sentido tiene dirigirse a aquel estudiantado deseoso de aprender los trucos del más experimental de los cineastas estadounidenses anudando la expresión coloquial por antonomasia de la duda (“contar cuentos”) con la palabra cuya búsqueda encierra la mayor seriedad que es posible manifestar (“verdad”)? Todavía más ¿qué sentido tiene producir relatos si en sus filmes fragmentarios se pretende oponer a cualquier atisbo de narratividad convencional?

Así, un polémico Brakhage le da forma de biografías ensambladas a un curso de historia del cine en la misma época no sólo del boom de las elaboraciones filosóficas a su respecto, sino del surgimiento de voces sulfuradas por el uso de la noción de autor en el campo cinematográfico. A contrapelo, reescribe libremente la vida de quienes desde diversas latitudes se atrevieron a explorar con este nuevo dispositivo, poniendo especial énfasis en su infancia como si su modo de experimentación en el cine hubiera estado determinado desde su propio nacimiento, incluso antes de la invención del cinematógrafo. Con aquel ejercicio de escritura, el cineasta Brakhage emula esos años iniciáticos liderados por una suerte de boy band de cineastas-escritores encargada de teorizar mediatamente sobre el cine reflexionando en torno a su propia actividad. Banda que, como es sabido, lucía de frontman a un inspirado Sergei Eisenstein envuelto en una roja luz tenue.

Se decía que Brakhage confiesa de entrada que no hará más que “contar cuentos”, expresión en la que sintetiza magistralmente la condición de inclasificable que marcó desde el origen la producción de biografías. Y es que desde las Vidas paralelas [Bioi parallēlloi] de Plutarco que el llamado «arte desconocido de diferenciar la existencia»(2) se distanció de la prosa histórica de los grandes eventos para estar a medio camino entre alzarse como reducto de la moral al presentar vidas ejemplares, llenas de experiencias dignas de ser aprovechadas por la humanidad toda; y servir de posibilidad para que acontecimientos increíbles, relatados como anécdotas, desfilen ante los ojos de cualquiera con el potencial de configurar la imagen de un pueblo en algún momento dado.

La operación del ciudadano Plutarco de bajar del Olimpo a los grandes héroes para traerlos a la vida ordinaria, sin por ello quitarles su velo de majestuosidad, es invertida en la baja Edad Media por el obispo Jacopo della Varagine quien, con su Leyenda dorada [Legenda aurea], sube al lector al Cielo para darle la oportunidad de convivir con santos, mártires y ángeles como si sus prodigios fueran «hechos corrientes, [una] especie de crónica diaria del milagro»(3). Lo que, por cierto, no quiere decir que dichos relatos sean frutos de la pura invención: sus hagiografías reclaman ser leídas seriamente y ancladas a la realidad en la medida en que son comprendidas estrictamente como legenda, esto es, lecturas de la vida de santos cristianos que, en este caso, se muestran tan terrenales como celestiales.

El vector de ejemplaridad que de antiguo ha cruzado a las biografías es continuado en el hecho poco casual que la pluma de Plutarco haya sido recuperada por un traductor francés en medio de las Guerras de Religión, para ser definitivamente popularizada por los artífices de la Revolución Francesa a tal punto que algunos han llegado a afirmar, con cierta cuota de exageración, que «sin él Napoleón habría carecido de armas»(4). Sin embargo, con la instalación del avasallador espíritu dieciochesco, las biografías ganan en ambigüedad al acortarse la distancia entre quien escribe y quien es objeto de escritura: sin abandonar completamente el dominio de la moral religiosa, un discípulo escocés escribe la vida de su maestro (también biógrafo, aunque inglés) combinando la mirada respetuosa del admirador de una gran obra con la honesta agudeza de quien tiene acceso hasta al rincón menos aseado de la intimidad ajena.

Así, James Boswell hace de Samuel Johnson –al que rebautiza “el Doctor”– un individuo capaz de retratar el carácter de la cultura británica hasta volver indistinguible el modo en el que ofende el Viernes Santo poniéndole leche al té de la lectura graciosa de algunos pasajes de Shakespeare que comparte con su contertulio menor. Pero el discípulo no se limita a cantar la genialidad luminosa pero cotidiana del maestro: con un humor bondadoso aparece su voz propia enumerando las sombras producidas por las contradicciones entre las ideas y la práctica, las creencias y la conducta, la obra y el diario vivir del Doctor, rescatando ante todo la sinceridad que exhibe cuando lo escucha decir que «es noble publicar la verdad, aunque ella lo condene a uno»(5). Así, el biógrafo se resiste expresamente a ser un testigo privilegiado de anécdotas claroscuras para convertirse en un activo lector de la vida de alguien presentándola como una obra susceptible de ser leída por otro par de ojos cualquiera.

Abierta la posibilidad de que el origen de las más célebres frases sea el exceso de vino, entre los siglos XIX y XX las biografías entran definitivamente al catálogo del arte dejando atrás los viejos titubeos para disputarle el lugar a las novelas históricas. Lo que se traduce en una lucha a banderas desplegadas entre quienes realizan una apología del hecho preciso, concreto y documentado que pone a la lectora en relación inmediata con lo acontecido, acentuando a la persona que los vive (6); quienes defienden la biografía como arte puro en la medida en que se deshace del peso histórico al que respondía el funcionario Plutarco para volverse una con la naturaleza, acentuando la biografía resultante; y, quienes se dejan embelesar por su propio impulso creativo asumiendo sin complejos el parecido de familia con la novela a secas hasta devenir un género literario autónomo, acentuando la figura del biógrafo. Es más, en los mismos años en que Brakhage presenta sus biografías fílmicas, Ronald Barthes cubre su lengua con veneno para decretar que «toda biografía es una novela que no se atreve a decir su nombre»(7).

Reconocida la diferencia de énfasis que las enfrenta como si se tratase de bandos, la sola convivencia de estas maneras de concebir la escritura de una vida realmente vivida muestra que «la verdad se vuelve más elástica y la exigencia estética es más imperiosa» (8), desdibujándose las fronteras que buscan separar con cemento la historia de la novela, la verdad de la ficción, la vida de la palabra. Sea como sea, es la vida de alguien –cuya condición de realmente existente no se duda– la que es puesta en la forma de un relato en el que el punto final coincide con el evento irresistible de su muerte. Que no se ponga en entredicho que efectivamente el objeto del relato padeció el paso del tiempo como cualquier mortal que habitara la misma tierra no quiere decir que no se le exija reclamar su derecho de ser visto como un singular modo de existencia. Y es que no da lo mismo sostener que Lenin fue el más elocuente escritor de testamentos, el principal líder de la Revolución de Octubre o el primer comunista embalsamado por orden de la Comisión de Inmortalización soviética.

Lo anterior implica que quien lee una vida, con independencia de cuál sea, la presenta como un ejemplar en el sentido ético en el que usa el término Pier Paolo Pasolini cuando apunta que es «la serie de informaciones que el ser humano da por sí mismo en cuanto realidad que se representa y actúa (...) y es ésta la diferencia entre el lenguaje de la realidad natural y el lenguaje de la realidad humana. El primero sólo da informaciones, el segundo, con las informaciones, da el ejemplo» (9). Liberado de toda carga moralista, tratar la vida de alguien de ejemplo no resiste el simplismo de catalogar sin más cualquier acción en el dominio del mal: hasta los más cruentos dictadores han dejado tras de sí copiosas biografías. De hecho, en las escritas por Brakhage cada uno de los cineastas-precursores están, desde que eran solo un feto acunado en el útero, divididos en dos: diablo y Dios, fantasía y realismo, bestia y creador. Paradigmáticamente, su Mèliés devenido mago encuentra en el cine el modo de enfrentar aquellos demonios que lo vieron nacer a la espera de una salvación posible para, sin embargo, terminar vendiendo dulces tras ser derrotado por la industria de imitadores que ofrece películas como las de él pero sin «cazar las bestias que se refugian en las guaridas de sus órdenes angelicales» (10).

Las vidas de estos genios del cine, que bien pueden ser re-coronados como fracasados ejemplares, aparecen bajo la mirada de Brakhage no sólo configurando una autoría viviente sin temor a las contradicciones (ó, mejor, expresión estética de una vida cruzada por la división), sino produciendo un modo de comprender históricamente el cine que anticipa lo que luego Jacques Rancière llamará una fábula contrariada: la historia del cine es la de una forma expresiva que, debiendo enfrentarse constantemente a la declaración de su muerte, responde con eficiencia internalizándola en la propia forma de la contrariedad entendida como unidad de los contrarios. (11) Así, el cineasta Brakhage se hace de estas vidas de cine para tejer subterráneamente una especie de manifiesto cuya frase inaugural se podría imaginar que sería este parafraseo de la cita del poeta Charles Olson que recuerda a propósito de Jean Vigo (12): “lo único en verdad significativo que puede hacer un hombre con su vida es crearse a sí mismo”.

Crearse a sí mismo es justamente lo que hizo el escritor Blaise Cendrars, de quien su amigo también escritor Henry Miller decía que era un enamorado de la vida, un hombre compuesto de muchas partes para el que escribir y vivir eran un solo verbo, pues dicho en sus propias palabras mojaba la pluma no en la tinta sino en el río de la vida. En los mismos años que experimentaban los cineastas-pioneros que interesaron a Brakhage, Cendrars escribe con fuego que

Il ruolo del cinema per l’avvenire sarà di riscoprire gli uomini, noi stessi, di smontarci e rimontarci, di mostrarci a noi stessi, di farsi accettare, senza rancore o disgusto, così come siamo con in noi la vita degli antenati e dei figli, senza finte, al di fuori di ogni convenzione, in piena fatalità, in pieno atavismo, in pieno divenire, come animali ebbri o buoni o ragionevoli o malvagi. (13)

Con este fragmento Jonny Costantino inaugura su libro Un uomo con la guerra dentro. Vita disastrata ed epica di Sterling Hayden: navigatore attore traditore scrittore alcolista (2020) en el que pone en escena a aquel hombre rubio y esbelto que las tenía todas para convertirse en una estrella del firmamento hollywoodense, pero que terminó siendo un actor secundario tan apasionado como alcoholizado.

Lo que admite sostener la barbaridad de que Hayden alcanzó la fama siendo un actor secundario: trabajó con los mejores cineastas de su tiempo (desde Bernardo Bertolucci a Stanley Kubrick, pasando por John Houston y el mismísimo Ray) en filmes que, como apunta Costantino, son considerados obras menores dentro de sus soberbias filmografías. Sin embargo, no fue solo un actor secundario de grandes filmes menores: creándose constantemente a sí mismo, supo cargar con todas las etiquetas dispuestas sin pausa en el subtítulo del libro de Costantino. Si su alcoholismo lo hermana con un Ray que decía que ama mucho vivir pero está involucrado en morir; (14) su faceta de escritor lo hermana con un Brakhage que cree que el colorante extraído del alquitrán de hulla con el que pintaba sus películas le provocó el cáncer que lo condujo irremediablemente a la muerte. Vida y muerte o, mejor, vidamuerte (para tomar un término del propio Costantino)(15) encarnada en la autobiografía de Hayden, Wanderer (1963), en la que afirma que murió en vida ese agosto de 1950 cuando, presionado por la comisión anti-comunista constituida por McCarthy, actuó en contra de sí mismo como el delator más iluminado de todos.

La fraternidad formada por Hayden, Ray y Brakhage es aumentada por Costantino que con su libro se incorpora a una nueva boy-band de cineastas-escritores: arranca relatando la propia experiencia de encontrarse con Wolf-Eckart Bühler tras ver en Bologna su Pharos of Chaos [Leuchtturm des Chaos] (1983), filme que toma por título el del segundo libro escrito por Hayden para navegar en el mismo mar encrespado de Wanderer al poner en escena al actor secundario cubierto de una tupida barba blanca en su barcaza varada en las orillas del sur de Francia mientras conversa con tono de confesión postrera. Así, el libro de Costantino es ante todo un esfuerzo de oler, como reconoce un perro a otro, a Bühler para entablar una conversación imposible (por su repentina muerte un año después del único encuentro, dice) cuyo catalizador es la vida embarrada de un tercer perro, Hayden.

Con el mismo espíritu expresado en la revista alemana Filmkritik en la que escribe el cineasta Bühler mientras Brakhage publica sus biografías, esto es, asumiendo la disposición de Bertolt Brecht de comprender cuestionando todo aquello del propio presente, Costantino ofrece una lectura de la singularidad de Hayden para sellar un pacto en la escritura con todos aquellos artistas-aventureros (de Nietzsche a Hayden, pasando por Cassavetes) que buscan constantemente algo más grande que la vida. En otras palabras, si Pharos of Chaos es «una forma filmica proporzionale alla sua fisionomia spirituale e temperamentale [de Hayden] (…) un cinema corrispondente a un’altra idea di cinema (…) un cinema bigger than cinema» (16); Un uomo con la guerra dentro es una forma de escritura capaz de «raschiare dalla faccia i residui della maschera, sapendo che sotto la faccia può esserci un velo più duro del cranio. Una procedura, si capisce, sanguinolenta: capita come niente di staccare fette di carne e scalfire il velo arrivando all’osso. Nemmeno l’osso, di per sé, è garanzia di verità» (17).

Una forma de escritura que pone en peligro la vida, que quema vivo, que no para de arder porque en su despliegue va tensionando la comprensión que se tiene de una(o) misma(o). Por ello, el biógrafo Costantino no solo dedica su pluma a escrutar la vida del torbellino Hayden subvirtiendo la lógica del héroe para volver ejemplar esa vida marcada por un fracaso que se vuelve tan productivo como sufrido. Más radicalmente, el cineasta Costantino derriba la barrera que separa la experiencia del escritor(a)/cineasta de la experiencia del lector(a)/espectador(a): la puesta en abismo operada por el escritor/cineasta se contagia ocularmente al lector/espectador de modo tal de compartir la revelación que implica mirarse en lo más profundo. Por ello, Costantino dice respecto del título de su libro que cualquiera que se expresa tiene una guerra dentro siendo las formas expresivas que produce sus propios armisticios.

No es, empero, casualidad que estas ideas sean mostradas metiendo la nariz en la historia del cine, o, mejor, en esa otra historia del cine que es la vista bajo el lente de la vida de un actor secundario que más parece una fuerza de la naturaleza. Su mismo ejercicio de escritura lleva al cineasta Costantino a comprenderse a sí mismo dentro de ella, al concebir el cine –acaso con Cendrars– como el campo donde “el cuerpo, la mente y todo el resto” viven, en esa frontera entre la realidad y el sueño, la verdad y la mentira, el bien y el mal, en la que las fisuras del presente no deja de revelarse en su despliegue. Así, termina por donar una biografía fílmica que, como sostiene en otra parte refiriéndose a la actividad de la escritura, se alza como un holocausto salvador (18) en el que renace la figura del cineasta en tanto autor ardiente que no hace menos que aventurarse a buscar algo más allá de la vida mirando a los ojos a la mismísima muerte.

 

NOTAS

(1) Stan Brakhage, El asedio de las imágenes. Cinco biografías fílmicas (Santiago, Chile: Ediciones Bastante, 2019), 17.

(2) Expresión utilizada por Hernán Díaz Arrieta a propósito de la noción de arte del autor de las Vidas imaginarias (1896), Marcel Schwob, en “Estudio preliminar” en Varios autores, El arte de la biografía (México: Editorial Océano, 2016), XXXV.

(3) Hernán Díaz Arrieta, “Estudio preliminar” en Varios autores, El arte de la biografía (México: Editorial Océano, 2016), XXII.

(4) Hernán Díaz Arrieta, “Estudio preliminar”, XV.

(5) James Boswell, “Vida del Doctor Johnson” en Varios autores, El arte de la biografía (México: Editorial Océano, 2016), 279-280.

(6) Escribe Emil Ludwig, eximio exponente de este bando, que “se debería exigir responsabilidad al que invente tratando de la verdad histórica, lo mismo en el sentido de añadir que de ocultar. Al biógrafo que excluye, trueca o completa caprichosamente un documento único, esencial, debería retirársele la venia scribendi, por atentado contra la seguridad pública…”, citado en Hernán Díaz Arrieta, “Estudio preliminar”, XXXI-XXXII.

(7) Citado en Louis-Jean Calvet, Roland Barthes, una biografía (Barcelona, España: editorial Gedisa, 2001), 17.

(8) Hernán Díaz Arrieta, “Estudio preliminar”, XXXI.

(9) Pier Paolo Pasolini, “El fin de la neovanguardia (Apuntes sobre una frase de Goldmann, sobre dos versos de un texto de neovanguardia, y sobre una entrevista de Barthes)” (1966), en Empirismo Herético (Buenos Aires, Argentina: Editorial Brujas, 2005), 192-93.

(10) Stan Brakhage, “Georges Mèliés” en El asedio de las imágenes. Cinco biografías fílmicas (Santiago, Chile: Ediciones Bastante, 2019), 35.

(11) Véase Jacques Rancière, La fábula cinematográfica (Buenos Aires, Argentina: El cuenco de plata, 2018).

(12) Stan Brakhage, “Jean Vigo” en El asedio de las imágenes. Cinco biografías fílmicas (Santiago, Chile: Ediciones Bastante, 2019), 63-64.

(13) Blaise Cendrars, Una notte nella foresta (1929) citado como epígrafe en Jonny Costantino, Un uomo con la guerra dentro. Vita disastrata ed epica di Sterling Hayden: navigatore attore traditore scritore alcolista (Brescia, Italia: Lamantica Edizioni, 2020), 11.

(14) Véase el filme Don’t expect too much (2011) de Susan Ray.

(15) Véase Jonny Costantino, Ivana Peric (2022). “Diálogos re-consagradores. Correspondencia entre Jonny Costantino e Ivana Peric M.”, laFuga, 26 [Disponible en: http://2016.lafuga.cl/dialogos-re-consagradores-correspondencia-entre-jonny-costantino-e-ivana-peric-m/1095] donde sostiene que “mi idea de epifanía tiene que ver con la magia de lo que llamo ‘vidamuerte’: una idea de la vida tan amplia que contempla la muerte o –desde otra perspectiva– un bulto de la existencia donde la parte de la vida se confunde con la parte de la muerte y es inextricable de ella”.

(16) Jonny Costantino, Un uomo con la guerra dentro, 162.

(17) Jonny Costantino, Un uomo con la guerra dentro, 104-105.

(18) Jonny Costantino, Ivana Peric (2022). “Diálogos re-consagradores. Correspondencia entre Jonny Costantino e Ivana Peric M.”.

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