«Il linguaggio è la casa dell’essere. Nella sua dimora abita l’uomo. I pensatori e i poeti sono i custodi di questa dimora. Il loro vegliare è il portare a compimento la manifestatività dell’essere; essi, infatti, mediante il loro dire, la conducono al linguaggio e nel linguaggio la custodiscono» (M. Heidegger)

Quella “scissione visiva” così chiaramente evidente in The Dreamed Ones già dai titoli di apertura come tratto distintivo dell’immagine, della sua costruzione, percorre tutto il film come modalità intrinseca di un discorso più ampio che pone le fondamenta sulla corrispondenza tra Ingeborg Bachmann e Paul Celan – tra le mani ho Troviamo le parole. Lettere 1948-1973, della Nottetempo: leggo dalle traduzioni di Francesco Maione queste lettere che sfidano l’immobilità, il tormento – e da quella indirizza lo sguardo su una grammatica del montaggio che conduce, sempre, una modalità duale dei raccordi. Il racconto interno alla creazione stessa delle immagini si dà allo spettatore in forma di viaggio, di un viaggio mediante la memoria, le parole, la scrittura delle parole che si rincorrono come su un binario doppio, appunto: vite che si interrogano, si confrontano e si scontrano, si trovano e si perdono nel parallelismo delle inquadrature, inteso come contrapposizione netta, rigorosa e persino geometricamente definita per tutta la durata del film.

Il punto d’origine di queste “rette” immaginarie è nella corrispondenza fra Ingeborg Bachmann e Paul Celan, le cui biografie a confronto si stagliano come lama sottile su pagine sanguinanti, che tagliano il campo in due; lo spaccano, intercettando il limine fra un “dentro” e un “fuori”, fra un “prima” e un “dopo” che corrisponde, nel film, alla rigida divisione in due dei piani, definendo la centralità del tema della distanza come spazio da attraversare. Arriva deliberatamente, da questo procedere scisso che percorre le scene – i due attori sono quasi sempre uno di fronte all’altra, ai lati opposti dell’inquadratura: a volte “vediamo” Laurence Rupp o Anja Franziska Plaschg in primo piano, alternativamente, oppure la voce di uno dei due che legge Ingeborg o Celan ci arriva dal fuori campo mentre l’obiettivo è fisso sul volto di colui o colei che ascolta – l’idea che la scelta di Ruth Beckermann di operare sul versante metalinguistico, attribuendo al linguaggio-Cinema una funzione di svelamento dell’impianto di costruzione delle scene (e del loro portato simbolico) sia fondata proprio sull’esplicitazione del senso del limite.

La luce del cinema in uno studio di registrazione, che è il luogo fisico dell’attualizzazione di questa ricerca linguistica, poetica, della verità che le parole dicono anche quando sperimentano l’assenza e il silenzio, rappresenta l’assunto per il quale ad essere dinanzi all’obiettivo è questa “lingua” che dice di sé, metalingua, metacinema: confluita, questa “luce”, in uno scambio comunicativo, conoscitivo, che supera quel limen tra epoche, tra persone, i poeti Paul e Ingeborg e, molto “dopo”, tra gli attori che di quelli incarnano la voce, sentono gli occhi dell’altro/a su di sé come metronomo di quello che accade, “persuasi” dalla fascinazione subita, leggendo. Tanto più che, innestandosi questo discorso sul dilemma, e sul dramma, di dire, nominare, fare poesia in lingua tedesca dopo la Shoah, ad essere al centro della ricerca cinematografica della regista è anche il dualismo realtà-sogno che di quella lingua e di quel discorrere sulla vita propria e dell’altro/a è testimone («[…] Il compimento, come tu dici, deve essere “nella vita”. Questo vale per gli esseri sognati. Ma siamo noi soltanto gli esseri sognati? E non c’è sempre stato un compimento e non siamo già disperati nella vita; anche adesso, che pensiamo che tutto dipenda dal fare un passo verso fuori, verso l’altra parte, tutti e due insieme?», Ingeborg Bachmann a Paul Celan, Monaco, 28-29.10.1957, in Troviamo le parole. Lettere 1948-1973, Nottetempo, Milano 2010, p. 76).

E allora è come se si volesse far giungere il pensiero della sopravvivenza nel tempo e nella realtà di quello che resta e che dura e resiste dei due: non solo del loro amore e dell’impossibilità dell’amore in un’epoca (quella del dopo-Auschwitz) e in una lingua appunto (la lingua tedesca) che assume su di sé tutta l’inspiegabilità di una tragedia priva di senso («[…] così avrete una tomba nell’aria chi vi giace / non sta stretto […] i tuoi capelli d’oro Margarete / i tuoi capelli di cenere Sulamith», da Fuga di morte di Celan) ma anche quel sogno si attualizza nell’immagine dei due interpreti di quella corrispondenza, colti in un momento di conversazione, sempre come riflessi l’uno nell’altra, quasi a compiere gli stessi gesti (l’atto ripetuto, specchiato, di accendere la sigaretta; i ragazzi si guardano, parlano con parole proprie ma che recano il segno, ancora, delle parole dell’epistolario, ne perpetrano le tracce, nel viaggio).

Significativa, anche in questo caso, la scena dei due ai lati opposti del campo, immagini speculari di un inizio (o di una fine) di due binari paralleli a indicare ancora una volta, visivamente, la polarità di due vite che in qualche modo, nonostante lo spazio incolmabile che le separa, confluisce nel pensiero, nell’Immagine (in mezzo, un lungo corridoio illuminato dai neon che termina con una porta chiusa). Ma è questo rimbalzare di tempo in tempo, da persona a persona, senza che vi siano paradossi, di voce in voce, come in uno scambio di visioni significa l’attualità di fare Poesia, di essere Poesia e di diffonderla, attraverso il Cinema, contagiando gli occhi, le lingue, contaminando le parole. Prima, tutto è caduto, gettandosi nella Senna.

Un’altra vita ha avuto fine in quel momento. Eppure The Dreamed Ones, che è la risposta a quello che Ingeborg chiedeva per se stessa e per Paul, è giunto fino a qui, attraverso il film, le generazioni, il tempo, nella circolarità dell’eterno ritorno, nella ridondanza delle parole e dei silenzi, e dei vuoti e delle assenze e delle presenze ossessive, tenute salde nei sé straziati e scissi.

«Quanto lontana o quanto vicina sei, Ingeborg? Dimmelo, così saprò se tu chiudi gli occhi, quando io adesso ti bacio. Paul.» (Troviamo le parole, p. 17): controcampo senza fine di pensiero e luce.

Tags: