(Trad. Giovanni Festa)

La pittrice Celia Paul ha scritto che «nessun oggetto posto al centro di una stanza o di una galleria, per quanto potente, può catturare l'attenzione con la stessa intensità di un quadro appeso al muro» (1). Le sue parole si riferiscono a uno spazio espositivo d'arte e a oggetti artistici o opere d'arte. Adesso consideriamo le circostanze suggerite dalla scenografia di Laura (Otto Preminger, 1944): in una stanza presieduta da un ritratto, un soggetto/oggetto di desiderio può certamente catturare lo sguardo con maggior forza della pittura.

Non è forse quello che accade nella scena in cui la scomparsa Laura Hunt (Gene Tierney) ritorna dalla tomba e il tenente di polizia McPherson (Dana Andrews), prima affascinato in maniera inconfessabile dal quadro, ha occhi solo per lei? Tuttavia, sia nel film di Preminger, sia in numerosi altri film, il ritratto della donna, considerato come motivo cinematografico stabilito (2), è soprattutto una questione di intensità. La donna, modello del quadro, e la pittura, composta di forme e rappresentazioni estremamente ambigue, sono forze di attrazione e di incanto che colpiscono in modo esacerbato alcuni personaggi maschili, in storie in cui il ritratto di una donna ha una funzione centrale.

Un certo passaggio del dialogo tra narratori nella colonna sonora di Liberté et Patrie (2004), il video saggio di Jean-Luc Godard e Anne Marie Miéville sul pittore apocrifo Aimé Pache (che «non è mai stato menzionato nella storia dell'arte e non lo sarà mai»), fornisce la visione che è propria dell'artista da cucciolo, dell'apprendista pittore: «Una volta Aimé Pache accompagnò suo padre al casinò di Yverdon, dove vide la prima moglie di lui nuda e questo le fece qualcosa, come si dice...»
«Credo che non fosse per la donna, era già la pittura».

A tale commozione estetica, prodotta dalla scoperta della pittura, alla fascinazione che diviene anche un certo stato estatico legato alla contemplazione della bellezza dell'arte, l’artista si approccerà forzatamente attraverso diversi materiali. Secondo il metodo di montaggio sperimentale tardivo di J.-L. G., è necessario unire (due o più) immagini, in modo che ne formino altre (al principio, una terza) (3). Tra i brevi frammenti di film che si mescolano nell'audiovisivo ad alta velocità, è interessante notare il piano (di un film di Ingmar Bergman) di un bambino che, vagando per le sontuose stanze di un palazzo, trova casualmente un quadro di grande formato in cui si può vedere un nudo femminile; così come una scintillante e fugace immagine di fuochi d'artificio prelevata da To Catch a Thief (1955). Restituita al suo contesto originale, l'immagine nel film di Hitchcock è una componente diegetica della scena notturna in cui Frances Stevens (Grace Kelly) seduce John Robie (Cary Grant).

I fuochi d'artificio che esplodono nel cielo scuro e sono osservati sullo sfondo attraverso la stanza d'albergo in cui si trovano gli amanti (a loro volta filmati separatamente), vengono montati all'improvviso causando capovolgimenti nell'emozione della scena. Quando questa folgorazione brucia lo schermo occupando gran parte del quadro o la sua totalità, diventa praticamente un'immagine metonimica che, articolata dai baci visibili, si troverá al posto dell'incontro erotico della coppia. Nel testo di Fatale beauté, capitolo 2b. delle Histoire(s) du cinema, si evoca un'immagine simile che può riferirsi ad uno qualsiasi degli affetti considerati: «i nostri cuori / che tu conosci / sono pieni di scintille» (4). Non troppo distante, Esquenazi, nel suo libro sul film noir (ritorneremo su questo), parla da parte sua di «desiderio ardente e folgorante» (5).

Entrambe le questioni tradizionali che circondano il ritratto della donna e associate al desiderio maschile – l'ossessione per l'arte; la passione amorosa – sono narrate in modo quasi archetipico in Le Chef-d'œuvre inconnu (Balzac). Tuttavia nelle visioni accese dei  personaggi, queste posizioni al principio schematiche sono travolte (senza uscire dalla cornice del desiderio maschile) da un fluire di sfumature e di qualifiche che finiscono per avvicinarle fra loro. La nouvelle racconta la vicenda del giovane pittore, Nicolas Poussin, della sua bella amante Gilette, del vecchio maestro Frenhofer e della sua opera d'arte segreta, La Belle Noiseuse, il ritratto della cortigiana Catherine Lescault. Frenhofer, unico discepolo di Mabuse, che gli ha lasciato il segreto del rilievo, «il potere di dare alle figure quella vita straordinaria» (6), lavora da anni al misterioso quadro che preserva dagli sguardi degli altri con lo zelo dell'innamorato.

Il racconto culmina quando Frenhofer rivela la sua opera a Poussin e Pourbus (un maestro minore), anche se accetta di farlo solo perché questo è il termine di uno scambio. «Ma quale marito, quale amante è così vile da portare sua moglie al disonore?» (7) , chiede Frenhofer inorridito dall'idea di mostrare il suo dipinto di Catherine Lescault a un altro pittore. La simmetria con il caso di Poussin è evidente: per vedere il capolavoro sconosciuto, il pretendente dell' opera arte accetta che Gilette esibisca la sua nudità davanti a Frenhofer, che cerca «un corpo i cui contorni siano di una bellezza perfetta» (8) che possa paragonare a quella del ritratto.

Per Frenhofer il dipinto è «motivo di attrazione, di amore, di esaltazione» (9). Esperto d'arte, devoto della pittura e pittore megalomane, le sue idee incarnano l'ambivalenza di quello che sarà il suo capolavoro, il suo oggetto di desiderio. È attraverso la sua dottrina estremista – la “figurazione assoluta” (accessibile grazie alla pittura), la trasfigurazione, come obiettivi supremi dell'arte – , che giudica il quadro di Pourbus:

Guarda la tua santa, Pourbus. A prima vista sembra ammirevole, ma al secondo sguardo si percepisce che è attaccata al fondo della tela e che non è possibile abbracciarne il  corpo. È una silhouette che ha un solo volto, un aspetto ritagliato, un'immagine che non potrebbe ruotare o cambiare posizione. Non sento aria tra quel braccio e il fondo del quadro, mancano lo spazio e la profondità. Nello stesso tempo la prospettiva è corretta e lo sfumato è perfettamente realizzato: eppure, nonostante tanti lodevoli sforzi, non potrei credere che quel bel corpo sia animato dal tiepido respiro della vita. Sì mi viene da pensare che se tenessi la mano su quel seno di così ferma rotondità lo troverei freddo come il marmo! No, amico mio, il sangue non scorre sotto quella pelle d'avorio, l'esistenza non gonfia con la sua rugiada purpurea le vene e le fibre che si intrecciano come reti sotto l'aspetto ambrato delle tempie e del petto. Questo luogo palpita, ma quest'altro è immobile, la vita e la morte combattono in ogni dettaglio: qui è una donna, lì una statua, poi un cadavere. La tua creazione è incompleta. (10)

Nicolas Poussin invece è preda di un'indecisione irrisolvibile, si rivolta a causa di passioni che lo bruciano: «traboccava nell'amore prima di impadronirsi dell'arte» (11). Quando la giovane e bella Gilette è seduta sulle sue ginocchia, non può non dichiararle il suo amore:

Preferisco essere amato che avere gloria. Per me, tu sei più bella della fortuna e degli onori. Dai, tira i miei pennelli, brucia quegli schizzi. Mi sono sbagliato. La mia vocazione è amarti. Non sono più un pittore, sono un innamorato. Muoiano l'arte e tutti i suoi segreti! (12).

Poussin alla fine consegna la sua amante a una causa più grande: la pittura. Riconoscendo lo svantaggio in cui si trova rispetto alla grande arte, la giovane acconsente al contratto di Frenhofer e Poussin: «Quando (...) vide il suo amante riconsegnato alla contemplazione del ritratto che poco prima aveva preso per un Giorgione, disse: Ah, andiamo! Egli non mi ha mai guardato così.» (13)

La Belle Noiseuse (1991) di Jacques Rivette, film liberamente basato sul libro di Balzac, espande il campo semantico designato dal titolo. Sebbene si riferisca al dipinto abbandonato da Frenhofer (Michel Piccoli) dieci anni prima, che lo considera come quello che probabilmente sarà il suo capolavoro, l'espressione «bella scontrosa» fa pensare alla funzione catalizzatrice del quadro. A partire dalla decisione di Frenhofer di riprendere la sua opera per terminarla si scatenano una serie problemi nelle esistenze del pittore e della sua modella, Marianne (Emmanuelle Béart), e nelle relazioni amorose delle due coppie del film. Frenhofer non vede la donna nella pittura, come il personaggio con lo stesso nome nel libro (che considera la Belle Noiseuse la sua creatura, la sua amante, sua moglie), vede la pittura nella pittura (oltre ad alcune idee metafisiche, ma non di tipo amoroso) e riflette sul pericolo estremo di ritornare a dipingere il quadro, che in passato ha quasi distrutto lui e la sua partner Liz (Jane Birkin).

La più grande passione di Frenhofer sembra essere la sua opera irrealizzata, al punto che il pittore non esita a coprire con un nuovo dipinto uno dei ritratti preferiti dalla moglie. Secondo Liz, la modella originale della Noiseuse, quello che dieci anni fa era la possibilità di fare tutto, oggi è solo la fine di tutto. Marianne, diffidente dell'amante, che, come sostiene lei stessa, ha venduto il corpo di lei al vecchio pittore per poter vedere l'opera finita, non esita a rischiare la sua relazione con Nicolas. Nella sua pertinacia vorrà arrivare fino in fondo, fino al limite della creazione del capolavoro.

Le Chef-d'œuvre inconnu non racconta il processo con cui viene dipinto il quadro del titolo (e nessun altro quadro), la pittura appare nel libro come soggetto di cui si parla (il narratore, i personaggi), nel film al contrario traspare la materialità della pittura. Le azioni di Frenhofer, che disegna con matita e carbonella (una tecnica non trattata in profondità nel testo originale) occupano gran parte dell'estensione totale dell'adattamento Il pittore si dedica a numerosi esercizi preliminari, schizzi che tracciano la fisionomia del corpo della modella in diverse pose, abbandonati poi per accumularsi nello studio. Se la grazia dei corpi e le loro interazioni (amorose, sociali, professionali) sono dispiegate dalla messa in scena, il montaggio si concentra sulla mano isolata dell'artista, fissandola nella sua attività.

Un'inquietante separazione tra i due mondi avviene a causa del taglio di montaggio. La modella è sempre su un piano diverso rispetto all’abbozzo che lo spettatore vede apparire davanti ai suoi occhi sulla superficie pallida della carta-schermo. Anche se si verifica una certa transitività (la mano sta abbozzando il disegno di una donna in posa), è evidente che il film incornicia un artificio inquadrando contemporaneamente la modella e la mano del pittore (che appartiene a Bernard Dufour, doppio corpo di Piccoli); qualcosa che ricorda un’analisi di André Bazin (14) secondo la quale, grazie alla profondità di campo, il montaggio viene assorbito dalla composizione dell'immagine, includendo diversi piani in un unico quadro. Il rapporto che nel film si stabilisce tra la modella e la pittura durante il processo di creazione del quadro appare come riflesso in un frammento del testo su pittura e cinema di Eduardo Stupía:

La prima e ultima proprietà della pittura è la negazione radicale dell'estraneità; la sua potenza e il suo limite sono segnati dalla tacita certezza che tutto ciò che è dipinto le è proprio, è lei stessa: la sua eventuale capacità mimetica, anche negli strati più referenziali dell'illusione iconica in cui si sceglie di bloccarsi, è allo stesso tempo l'aspetto e il suo backstage. (15)

A suo modo, il film produce traslazioni della ricchezza lessicale e delle sottigliezze linguistiche di un testo sulla pittura all'immagine propria della pittura. La sceneggiatura e la messa in scena includono alcuni cenni al racconto di Balzac. A proposito della fine della nouvelle, ad esempio, vedendo la Noiseuse, Poussin e Pourbus si ritrovano davanti a «colori confusamente accatastati e contenuti da una moltitudine di linee strane che formano una muraglia di pittura» (16). Nel film, il vero dipinto (Frenhofer dipinge surrettiziamente un altro quadro e lo presenta come se fosse la Noiseuse) è nascosto nella parete dello studio del pittore, che innalza un muro di cemento, seppellendo l'opera segretamente e indefinitamente.

Lo spettatore non vede il quadro finito, solo una piccola parte di questo è intervista per un istante, quando la plastica opaca che copre la tela si sposta, mostrando il piede di una donna tagliato su uno sfondo di toni rossi. Nel romanzo, l'unico elemento del quadro che i personaggi riescono a distinguere nel caos della pittura è un piede nudo: «Quel piede nudo appariva come il torso di qualche Venere di marmo di Paros che sorgesse tra le macerie di una città incendiata» (17).

La forma filmica attorno al corpo della donna viene lavorata nel vuoto lasciato dal romanzo (da quello che non racconta). Quello che nel racconto di Balzac è un momento decisivo, ma solo un momento, nel film si dilata per ore: si tratta del lavoro di/con la modella, l'atto di posare a cui viene consegnata/sottoposta Marianne/Béart. Questo accade fin dalla prima sessione in cui la lieve agitazione del corpo dell'attrice/modella e il suo respiro tremolante, forse un po' ovvio (anche se necessario), corrisponde nel romanzo originale con il rossore intenso e le lacrime della giovane Gillette, che si vergogna della sua messa in posa.

Gli sguardi della donna durante quella prima sessione si possono descrivere con alcune parole che Georges Bataille dedica a Manet, nelle quali, se si cambia il nome di Berthe Morisot con quello di Emmanuelle Béart, sembra si riferiscano perfettamente al film di Rivette: «Berthe Morisot’s jewel-like face, lit up from within by the combined glow of art and feminine beauty.» (18).

È un altro dipinto di Manet a cui il film, in un certo senso, rinvia. Le Déjeuner sur l'Herbe presenta una disposizione tipica che si realizza tra la modella e il pittore, in cui la donna posa nuda accanto a un uomo completamente vestito (anche se il quadro non rappresenta materiali o strumenti pittorici, come fa, in forma ristretta, il quadro di Lucian Freud Painter and model, che inverte i ruoli, mostrando la nudità dell'uomo, -il modello del titolo-, che posa giacente per la pittrice Celia Paul). La scena d'altra parte non è troppo lontana dalla situazione che narra The Woman in the Window (Fritz Lang, 1944). In entrambi i casi la bellezza della donna (nuda) si dispone davanti all'uomo alla maniera di una visione.

Una certa stranezza presente nella pittura, lo sguardo alienato (allucinatorio?) di uno degli uomini, assorto nei suoi pensieri, è analogo ai torbidi sogni dell'eroe del film di Lang. La donna è quasi un'apparizione, una chimera (l'espressione è usata da Esquenazi per caratterizzare la donna fatale): un'immagine ambigua, sulla soglia di due mondi: il sogno e la realtà materiale, il mito e la modernità. Ma c'è una differenza fondamentale nell'atteggiamento del personaggio che sta di fronte al nudo. Il testo di Histoire(s) du cinéma propone la chiave per leggere la fascinazione del professor Wanley (Edward G. Robinson) per Alice Reed (Joan Bennett). Inoltre, spiega in generale l'attrazione di altri personaggi maschili di film noir verso la donna del ritratto (la cui ripetizione nel genere e nei generi connessi è notoria): «e il piano americano / l'inquadratura all'altezza della cintura / era per la pistola / per il sesso / ma per quello dell'uomo / perché le donne /erano sempre inquadrate /all'altezza del petto» (19).

Lo sviluppo di The Woman in the Window, cioè il sogno del protagonista, potrebbe essere equiparato a una versione lavorata da ellissi, in ogni caso repressa, della visione sessuale di Un perro andaluz (Luis Buñuel, 1928). La ricerca di Esquenazi sul genere noir illumina le condizioni di produzione e di censura del film e apporta elementi per pensare al suo onnipresente erotismo. «Le allusioni a una sessualità illecita dovevano essere cancellate; il personaggio di Alice Reed non doveva essere una prostituta provocante né spogliarsi» (20). Tuttavia, «l'appartamento in cui si svolge l'azione di The Woman in the Window sembra una casa d'appuntamenti» (21). E poi, poiché si tratta del sogno del professor Wanley, che crea il personaggio di Alice Reed, non è possibile che «la sontuosa offerta dei suoi due seni» (22), troppo visibili sotto la trasparenza del vestito, passi inosservata all'uomo (il weak guy, secondo Esquenazi).

L'avvenenza che caratterizza Joan Benett, una figura di secondo ordine (23), così come tante attrici consumate di Hollywood, contrasta con il debole appeal e persino la bruttezza delle donne rappresentate nei dipinti di Reginald Marsh, nelle quali appare il sordido e stridente background del film noir (curiosamente mostrato a colori, forse per la prima volta). Impiegate principalmente per la loro bellezza, come Gene Tierney in Laura (24), le star sono individualizzate, distinte dalle numerose donne sono relegate senza eccezioni a scene di gruppo in base al loro status di comparse o figuranti.

Che accadrebbe se la donna dimenticata alla fine di The Woman in the Window fosse interpretata da Joan Bennett? In Scarlet Street, Christopher Cross (Edward G. Robinson) è di nuovo sedotto da una volgare manipolatrice, Kitty March (Joan Bennett), che non ha altro fascino che il suo sex appeal. La donna fatale, centro assoluto del genere noir, tra le altre cose, è «l'immagine scintillante dello star system dell'industria hollywoodiana» (25).

Se l'attrazione dei protagonisti maschi del noir per quadri di cattivo gusto, pittura mediocre di pittori sconosciuti, è forse dovuta a un hobby nascosto per l'arte, l'ossessione che li distrugge risiede sicuramente più nei piaceri venerei che il ritratto a volte abbozza che nella loro qualità artistica. Nel film di Rivette il personaggio di Frenhofer, nella furia della creazione del ritratto, dice alla sua modella: «voglio vedere il sangue sul quadro». Le sue parole possono essere integrate dall'apprezzamento di Serge Daney: «gli attori sono la carne e il sangue del cinema» (26).

 

NOTE

(1) C. Paul. Autorretrato. Ciudad Autónoma de Buenos Aires: Chai Editora, 2021. Pág. 11

(2) E. Siety. “Frente al cuadro”. En J. Balló y A. Bergala (eds.) Motivos visuales del cine. Barcelona: Galaxia Gutenberg, 2016.

(3) J.-L. Godard, Youssef Ishaghpour. Cinema: the archeology of film and the memory of a century. Nueva York: Berg, 2005

(4) J.-L. Godard. Historia(s) del cine. Buenos Aires: Caja Negra, 2007. Pág. 105.

(5) J.-P. Esquenazi. El film noir: historia y significaciones de un género popular subversivo. Ciudad Autónoma de Buenos Aires: El cuenco de plata, 2018. Pág. 247.

(6) H. de Balzac. La obra maestra desconocida. Buenos Aires: Libros del Zorzal, 2006. Pág. 37.

(7) La obra maestra desconocida. Pág. 47.

(8) Ivi, Pág. 36.

(9) L. Sciascia. Adorable Stendhal. Buenos Aires: Adriana Hidalgo editora, 2005. Pág. 77.

(10) La obra maestra desconocida. Pág. 24.

(11) Ivi, pag. 40.

(12) Ivi, pag. 42.

(13) Ivi,pag. 52.

(14) André Bazin. ¿Qué es el cine? Madrid: Rialp, 2008.

(15) E. Stupía. “La pintura y el cine”. Revista de cine, N° 9 - 2022. (45-56).

(16) La obra maestra desconocida. Pág. 56.

(17) Ivi, pag. 56.

(18) G. Bataille. Manet. Cleveland: Editions d'Art Albert Skira, 1955. Pág. 120.

(19) Historia(s) del cine. Pág. 107.

(20) El film noir: historia y significaciones de un género popular subversivo. Pág. 107.

(21) Ivi, pag. 251.

(22) Michel Leiris. The Ribbon at Olympia’s Throat. South Pasadena: Semiotext(e), 2019 pág. 194.

(23) El film noir: historia y significaciones de un género popular subversivo. pag. 117.

(24) Ivi, pag. 104.



TESTO ORIGINALE

Galerías de mujeres, galerías de retratos


La pintora Celia Paul escribió que: «ningún objeto ubicado en el centro de una habitación o de una galería, por más potente que sea, puede captar la atención con la misma intensidad que un cuadro colgado en la pared.» (1). Sus palabras se refieren a un espacio de exhibición de arte y a objetos artísticos u obras de arte. Ahora, considérense las circunstancias análogas que plantea el escenario de Laura (Otto Preminger, 1944): en una habitación presidida por un retrato, un sujeto/objeto de deseo ciertamente puede captar la mirada con mayor fuerza que la pintura. ¿No es acaso lo que sucede en la escena en que la desaparecida Laura Hunt (Gene Tierney) vuelve de entre los muertos y el teniente de policía McPherson (Dana Andrews), cautivado primeramente y de manera inconfesable por el cuadro, solo tiene ojos para la joven?

Aun así, tanto en el film de Preminger, como en numerosos films, el retrato de la mujer, en cuanto motivo cinematográfico establecido (2), es sobre todo una cuestión de intensidad. La mujer, modelo del cuadro, y la pintura, compuesto sumamente ambiguo de forma y representación, son fuerzas de atracción y embelesamiento. Afectan de manera exacerbada a ciertos personajes masculinos, en historias donde el retrato de una mujer tiene una función central.

Cierto pasaje del diálogo entre narradores en la banda sonora de Liberté et Patrie (2004), el video ensayo de Jean-Luc Godard y Anne Marie Miéville sobre el pintor apócrifo Aimé Pache (que “nunca ha sido mencionado en la historia del arte y nunca lo será”), proporciona la visión que es propia del artista cachorro, del aprendiz de pintor:   

_“Una vez Aimé Pache acompañó a su padre al casino de Yverdon, donde vio su primera mujer desnuda y eso le hizo algo, como dicen…”

_“Creo que no fue por la mujer, era ya la pintura”

A semejante conmoción estética, producida por el descubrimiento de la pintura, a la fascinación que deviene incluso en un cierto estado extático ligado a la contemplación de la belleza del arte se arribará forzosamente a través de diferentes materiales. Conforme al tardío método de montaje ensayístico de J.-L. G., es necesario unir (dos o más) imágenes, para que se formen otras (en principio, una tercera) (3). De los fragmentos breves de films que son mezclados en al audiovisual a gran velocidad, interesa destacar el plano (de una película de Ingmar Bergman) de un niño que, deambulando por las suntuosas habitaciones de un palacio, encuentra fortuitamente un cuadro de gran formato en el que puede verse un desnudo femenino; así como una centelleante y fugaz imagen de fuegos artificiales tomada de To Catch a Thief (1955). Restituida a su contexto original, la imagen en el film de Hitchcock es un componente diegético de la escena nocturna en que Frances Stevens (Grace Kelly) seduce a John Robie (Cary Grant). Los fuegos de artificio que estallan en el cielo oscuro y se observan en el fondo, a través de la habitación del hotel en que se encuentran los amantes, filmados a su vez de manera separada, son montados súbitamente causando vuelcos en la emoción de la escena. Cuando esa fulguración abrasa la pantalla ocupando gran parte del cuadro o su totalidad, se vuelve prácticamente una imagen metonímica, que, articulada a partir de los besos visibles, estará en lugar del encuentro erótico sexual de la pareja. En el texto de “Fatale beauté”, capítulo 2b. de las Histoire(s) du cinéma, se evoca una imagen similar que puede relacionarse con cualquiera de los afectos considerados: «nuestros corazones / que tu conoces / están colmados de destellos» (4). No muy lejos, Esquenazi, en su libro sobre el film noir (volveremos sobre esto), habla por su parte de «deseo ardiente y fulgurante» (5). 

Ambas cuestiones tradicionales circundantes al retrato de la mujer y asociadas al deseo masculino −la obsesión por el arte; la pasión amorosa− son narradas de una manera casi arquetípica en Le Chef-d'œuvre inconnu (Balzac). No obstante, en las visiones enardecidas de sus personajes esas posiciones por principio esquemáticas son desbordadas (sin salir del marco del deseo masculino) por una fluencia de matices y cualificaciones que las acercan. La nouvelle cuenta los destinos del joven pintor, Nicolás Poussin y su hermosa amante Gilette, y del viejo maestro Frenhofer y su obra de arte secreta, La Belle Noiseuse, el retrato de la cortesana Catherine Lescault. Frenhofer, único discípulo de Mabuse, quien le legó el secreto del relieve, «el poder de dar a las figuras esa vida extraordinaria» (6), trabaja desde hace años en el misterioso cuadro, que preserva de las miradas de otros con el celo del enamorado. El relato culmina cuando Frenhofer revela su obra a Poussin y Pourbus (un maestro menor), aunque únicamente acepta hacerlo porque ese es el término de un intercambio. "¿Pero qué marido, qué amante es lo suficientemente vil como para llevar a su mujer a la deshonra?" (7), pregunta Frenhofer horrorizado por la idea de exponer su pintura de Catherine Lescault a otro pintor. La simetría con el caso de Poussin es evidente: para ver la obra maestra desconocida, el pretendiente del arte accede a que Gilette exhiba su desnudez ante Frenhofer, quien busca "un cuerpo cuyos contornos sean de una belleza perfecta" (8) que pueda comparar con la del retrato.

Para Frenhofer la pintura es «motivo de atracción, de amor, de exaltación» (9). Experto en arte, devoto de la pintura y pintor megalómano, sus ideas prenuncian la ambivalencia de la que será su obra maestra, su objeto de deseo. Es a través de su doctrina extremista −la «figuración absoluta» (asequible por la pintura), la transfiguración, como objetivos supremos del arte−, que juzga el cuadro de Pourbus: 

Mira tu santa, Pourbus. A primera vista parece admirable, pero al segundo vistazo se percibe que está pegada al fondo de la tela y que no se podría rodear su cuerpo. Es una silueta que tiene una sola cara, una apariencia recortada, una imagen que no podría girar ni cambiar de posición. No siento aire entre ese brazo y el campo del cuadro, faltan el espacio y la profundidad. Sin embargo, todo está bien en perspectiva y la degradación aérea se cumple perfectamente: pero, pese a tan loables esfuerzos, no podría creer que ese bello cuerpo estuviera animado por el tibio aliento de la vida. ¡Se me hace que si llevara la mano sobre ese seno de tan firme redondez lo encontraría frío como el mármol! No, amigo mío, la sangre no corre bajo esa piel de marfil, la existencia no hincha con su rocío purpúreo las venas y las fibrillas que se entrelazan en redes bajo la apariencia ambarina de las sienes y el pecho. Este lugar palpita, pero este otro está inmóvil, la vida y la muerte luchan en cada detalle: aquí es una mujer, allí una estatua, más allá un cadáver. Tu creación está incompleta. (10)

Nicolás Poussin en cambio es presa de una indecisión irresoluble, se revuelve a causa de unas pasiones que lo queman: «desbordaba en el amor antes de apoderarse del arte» (11). Cuando la joven y bella Gilette está sentada en su regazo, no puede dejar de declararle su amor:

Prefiero ser amado a tener gloria. Para mí, tú eres más bella que la fortuna y los honores. Anda, tira mis pinceles, quema esos bocetos. Me he equivocado. Mi vocación es amarte. Ya no soy pintor, soy enamorado. ¡Mueran el arte y todos sus secretos! (12).

Pero Poussin finalmente entrega a su amante a una causa mayor: la pintura. Al reconocer la desventaja en que se encuentra respecto del gran arte, la joven condesciende al contrato de Frenhofer y Poussin: «cuando (…) vio a su amante entregado nuevamente a la contemplación del retrato que poco antes había tomado por un Giorgione, dijo: -¡Ah, subamos! Él jamás me ha mirado así.» (13)

La Belle Noiseuse (1991) de Jacques Rivette, film basado libremente en el libro de Balzac, expande el campo semántico designado por el título. Si bien refiere a la pintura diez años antes abandonada por Frenhofer (Michel Piccoli), quien la considera como aquella que posiblemente será su obra maestra, la expresión "bella alborotadora" permite pensar en la función catalizadora del cuadro. A partir de la decisión de Frenhofer de retomar su obra para terminarla se desencadenan ciertos desarreglos en las vidas del pintor y su modelo, Marianne (Emmanuelle Béart), y en las relaciones amorosas de las dos parejas del film. Frenhofer no ve a la mujer en la pintura, como sucede con el personaje del mismo nombre en el libro (que considera a la Belle Noiseuse su criatura, su amante, su esposa), ve la pintura en la pintura (así como ciertas ideas metafísicas, pero no del tipo amoroso) y considera el extremo peligro de pintar el cuadro, que en el pasado casi los destruye a él y a su pareja Liz (Jane Birkin). La mayor pasión de Frenhofer parece ser su obra irrealizada, al punto de que el pintor no duda en cubrir con una nueva pintura uno de los retratos de su mujer más queridos por ella. Según Liz, la modelo original de la Noiseuse, lo que hace diez años era la posibilidad de hacerlo todo, hoy solo se trata del final de todo. Marianne, recelosa de su amante, que, como ella dice, vendió su cuerpo (el de la joven) al viejo pintor para poder ver la obra terminada, no duda en arriesgar su primorosa relación con Nicolás. En su pertinacia querrá llegar hasta el final, hasta el límite que supone la creación de la obra maestra.

Le Chef-d'œuvre inconnu no narra el proceso en el que se pinta el cuadro del título (o ningún otro cuadro), la pintura aparece en el libro como tema del que se habla (el narrador, los personajes), el film al contrario trasluce la materialidad de la pintura. Las acciones de Frenhofer, que dibuja con lápiz y carbonilla (una técnica no tratada con profundidad en el texto original) ocupan gran parte de la extensión total de la adaptación. Esta se demora en numerosos ejercicios preliminares, esbozos que trazan la fisonomía del cuerpo de la modelo en diferentes poses, abandonados luego para acumularse en el estudio. Si la gracia de los cuerpos y sus interacciones (amorosas, sociales, profesionales) son desplegadas por la puesta en escena, el montaje predispone la mano del artista, que es aislada, fijada en su actividad. Una separación inquietante entre ambos mundos acontece por el corte. La modelo está siempre en un plano diferente respecto del dibujo que el espectador ve aparecer ante sus ojos sobre la superficie pálida del papel-pantalla. Aun si se produce cierta transitividad (la mano esboza el dibujo de una mujer posando), es evidente que el film incurre en un artificio al encuadrar simultáneamente a la modelo y a la mano del pintor (que pertenece a Bernard Dufour, doble de cuerpo de Picoli); algo que recuerda a cierto análisis de André Bazin (14) según el cual, gracias a la profundidad de campo, el montaje es absorbido por la composición de la imagen, al incluir diferentes planos en un mismo cuadro. La relación que en el film se establece entre la modelo y la pintura durante el proceso de creación del cuadro aparece como reflejada en un fragmento del texto sobre pintura y cine de Eduardo Stupía:

la propiedad primera y última de la pintura es la negación radical de la ajenidad; su potencia y su límite están marcados por la tácita certidumbre de que todo lo pintado le es propio, es ella misma: su eventual capacidad mimética, aún en los estratos más referenciales de la ilusión icónica en la que elija detenerse, es al mismo tiempo la aparición y su backstage. (15)

A su manera, el film produce traslaciones de la riqueza lexical y las sutilezas lingüísticas del texto sobre la pintura a la imagen propia de la pintura. El guión y la puesta en escena incluyen algunos guiños al relato de Balzac. Sobre el final de la nouvelle, por ejemplo, al ver la Noiseuse, Poussin y Pourbus se encuentran con «colores confusamente amontonados y contenidos por una multitud de líneas extrañas que forman una muralla de pintura» (16). En el film, la pintura verdadera (Frenhofer pinta subrepticiamente otro cuadro y lo presenta como si fuera la Noiseuse) es ocultada en la pared del estudio del pintor, quien levanta un muro de concreto sepultando la obra de manera secreta e indefinidamente. El espectador no ve el cuadro terminado, solo una pequeña parte de este es entrevista por un instante, cuando se corre el plástico opaco que cubre el lienzo: el pie de una mujer recortado sobre un fondo de tonos rojos. En la novela, el único elemento del cuadro que alcanzan a distinguir los personajes en el caos de pintura es un pie desnudo: «Aquel pie aparecía allí como el torso de alguna Venus de mármol de Paros que surgiera entre los escombros de una ciudad incendiada.» (17).

La forma fílmica en torno al cuerpo de la mujer es trabajada en el vacío dejado por la novela (por aquello que no cuenta). Lo que en el relato de Balzac es un momento decisivo, pero solo un momento, se dilata durante horas, se trata del trabajo de/con la modelo, el acto de posar al que se entrega/es sometida Marianne/Béart. Esto sucede desde la primera sesión en que la leve agitación del cuerpo de la actriz/modelo y su respiración trémula, posiblemente un poco obvia (aunque necesaria), se corresponde en la novela original con el rubor intenso y las lágrimas de la joven Gillette, avergonzada por su exposición. Las miradas de la mujer durante esa primera sesión pueden describirse con unas palabras que Georges Bataille dedica a Manet, las que, si se cambia el nombre de Berthe Morisot por el de Emmanuelle Béart, refieren perfectamente al film de Rivette: «Berthe Morisot’s jewel-like face, lit up from within by the combined glow of art and feminine beauty.» (18).

Es otro cuadro de Manet al que envía en cierto sentido el film. Le Déjeuner sur l'Herbe presenta una disposición típica que se da entre la modelo y el pintor, en la cual la mujer posa desnuda al lado de un hombre completamente vestido (aun si el cuadro no representa materiales o instrumentos pictóricos, como sí lo hace, en forma acotada, el cuadro de Lucian Freud Painter and model, que invierte los roles, al mostrar la desnudez del hombre, el modelo del título, que posa yacente para la pintora Celia Paul). La escena por otra parte no está demasiado alejada de la situación que narra The Woman in the Window (Fritz Lang, 1944). En los dos casos la belleza de la mujer (desnuda) se dispone ante el hombre a la manera de una visión. Cierta extrañeza que campea en la pintura, la mirada enajenada (¿alucinatoria?) de uno de los hombres, absorto en sus pensamientos, es análoga a las turbias ensoñaciones del héroe del film de Lang. La mujer es casi una aparición, una quimera (la expresión es usada por Esquenazi para caracterizar a la mujer fatal): una imagen ambigua, en el umbral entre dos mundos: la ensoñación y la realidad material, el mito y la modernidad.

Pero hay una diferencia fundamental en la actitud del personaje que está frente al desnudo. El texto de Histoire(s) du cinéma propone la clave para leer el deslumbramiento del profesor Wanley (Edward G. Robinson) con Alice Reed (Joan Bennett). Asimismo, explica en general la atracción de otros personajes masculinos de films noirs con la mujer del retrato (cuya repetición en el género y en géneros conexos es notoria): «y el plano americano / el encuadre a la altura del cinturón / era para el revólver / para el sexo / pero para el del hombre / porque las mujeres /siempre eran encuadradas /a la altura del pecho» (19). El desarrollo de The Woman in the Window, es decir, el sueño del protagonista, podría equipararse a una versión trabajada por elipsis, en todo caso refrenada, de la visión sexual de Un perro andaluz (Luis Buñuel, 1928). La investigación de Esquenazi sobre el género del film noir ilumina las condiciones de producción y de censura del film y aporta elementos para pensar su ubicuo erotismo. «Las alusiones a una sexualidad ilícita debían ser borradas; el personaje de Alice Reed no debía ser una prostituta provocativa ni desnudarse.» (20). No obstante, el «departamento donde se desarrolla la acción de The Woman in the Window parece un lugar de citas» (21). Y, además, debido a que se trata del sueño del profesor Wanley, que crea al personaje de Alice Reed, no es posible que «la suntuosa ofrenda de sus dos senos» (22), demasiado visibles bajo la transparencia del vestido, sea desapercibida por el hombre (el weak guy, según Esquenazi). 

La venustidad que caracteriza a Joan Benett, una figura de segundo orden (23), así como a tantas actrices de Hollywood consumadas, contrasta con el tenue atractivo e incluso la fealdad de las mujeres representadas en las pinturas de Reginald Marsh, en las que aparece el sórdido y estridente background del film noir (curiosamente mostrado en colores, quizás por primera vez). Empleadas fundamentalmente por su belleza, como Gene Tierney en Laura (24), las stars son individualizadas, diferenciadas de las numerosas mujeres que son relegadas sin excepción a escenas grupales de acuerdo con su estatus de extras o figurantes. ¿Qué pasaría si la mujer olvidada en el final de The Woman in the Window fuera interpretada por Joan Bennett? En Scarlet Street, Christopher Cross (Edward G. Robinson) igualmente es seducido por una vulgar manipuladora, Kitty March (Joan Bennett), que no posee otro encanto que su atractivo sexual. La mujer fatal, centro absoluto del género noir, entre otras cosas, es «la imagen centelleante del star system de la industria hollywoodense» (25).

Si la atracción de los protagonistas masculinos del noir por cuadros de mal gusto, pintura mediocre de pintores desconocidos, quizás se debe a una afición no advertida por el arte, la obsesión que los destruye sin duda reside más en los placeres venéreos que el retrato rara vez esboza que en su calidad artística. Ya bastante avanzado el film de Rivette, en el arrojo de la creación del retrato, el personaje de Frenhofer le dice a su modelo: “quiero ver la sangre en el cuadro”. Sus palabras pueden complementarse con la apreciación de Serge Daney: «los actores son la carne y la sangre del cine» (26).


NOTAS

(1) C. Paul. Autorretrato. Ciudad Autónoma de Buenos Aires: Chai Editora, 2021. Pág. 11.

(2) E. Siety. “Frente al cuadro”. En J. Balló y A. Bergala (eds.) Motivos visuales del cine. Barcelona: Galaxia Gutenberg, 2016.

(3) J.-L. Godard, Youssef Ishaghpour. Cinema: the archeology of film and the memory of a century. Nueva York: Berg, 2005

(4) J.-L. Godard. Historia(s) del cine. Buenos Aires: Caja Negra, 2007. Pág. 105.

(5) J.-P. Esquenazi. El film noir: historia y significaciones de un género popular subversivo. Ciudad Autónoma de Buenos Aires: El cuenco de plata, 2018. Pág. 247.

(6) H. de Balzac. La obra maestra desconocida. Buenos Aires: Libros del Zorzal, 2006. Pág. 37.

(7) La obra maestra desconocida. Pág. 47.

(8) Ivi, Pág. 36.

(9) L. Sciascia. Adorable Stendhal. Buenos Aires: Adriana Hidalgo editora, 2005. Pág. 77.

(10) La obra maestra desconocida. Pág. 24.

(11) Ivi, pag. 40.

(12) Ivi, pag. 42.

(13) Ivi,pag. 52.

(14) André Bazin. ¿Qué es el cine? Madrid: Rialp, 2008.

(15) E. Stupía. “La pintura y el cine”. Revista de cine, N° 9 - 2022. (45-56).

(16) La obra maestra desconocida. Pág. 56.

(17) Ivi, pag. 56.

(18) G. Bataille. Manet. Cleveland: Editions d'Art Albert Skira, 1955. Pág. 120.

(19) Historia(s) del cine. Pág. 107.

(20) El film noir: historia y significaciones de un género popular subversivo. Pág. 107.

(21) Ivi, pag. 251.

(22) Michel Leiris. The Ribbon at Olympia’s Throat. South Pasadena: Semiotext(e), 2019 pág. 194.

(23) El film noir: historia y significaciones de un género popular subversivo. pag. 117.

(24) Ivi, pag. 104.

(25) Ivi, pag. 20.

(26) S. Daney. “El ejercicio ha sido provechoso, señor”. El ejercicio ha sido provechoso, Señor. Cantabria: Asociación Shangrila Textos Aparte. Pág. 14.

(25) Ivi, pag. 20.

(26) S. Daney. “El ejercicio ha sido provechoso, señor”. El ejercicio ha sido provechoso, Señor. Cantabria: Asociación Shangrila Textos Aparte. Pág. 14.

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