La città furiosa degli Ultimi Giorni

(Traduzione di Giovanni Festa)

«I grandi viali si fanno strada e non smettono di venire»

Nicola Pino (1)

Denominare escatologicamente una città, come se fosse una città nei suoi ultimi giorni, alla quale è stata rivelata la fine dei tempi; o che, appesa a un filo, si avvicina al precipizio e si equilibra nella sua stessa caducità, su un asse debole; ma, anche, una città che ha appena subito un cataclisma e sta definendo, a tentoni, cosa ne sarà di lei in questo tempo post-apocalittico. Ecco di cosa parla questo testo. Gli Ultimi Giorni vogliono qui denominare quell’ambiguo statuto, quel momento critico tra la profezia – che alcuni, con entusiasmo mistagogico (2), si affrettano a marcare a fuoco sul proprio corpo: «sarai punita» – e il tempo post, quando la rivelazione è già avvenuta. Vale la pena notare che questi Ultimi Giorni non segnano solo una città, ma si riferiscono all’epoca intera in cui si inscrive la sua contemporaneità, perché sono gli ultimi (ultimi e recentemente giunti) giorni non solo di Santiago del Cile, ma di un mondo che cade e nel quale oscilliamo tutti (questa e le altre città) in equilibrio instabile, su basi logore, che non bastano più. Perché le nostre città invecchiano e non invecchiano bene; le finzioni ultramoderne sono diventate la loro versione peggiore, scenari altisonanti del consumo che alimentano povertà e umiliazione.

C'è stata una rivolta nel Nuevo Extremo (3), sulla punta del mondo, nella sua debole frangia, quella che, accudita solo dalle Ande, temevamo prima o poi vedere inghiottita dalla terra o risucchiata dal mare. La rivolta ha mostrato l’incapacità della città centrale di esprimere i desideri dei popoli che la abitano. Incatenata con i suoi emblemi ai conquistatori e alle loro guerre; con i suoi mezzi di trasporto riproduttori di umiliazioni; col suo fiume impetuoso trasformato in un letto di povertà e di morte; e con le sue scuole superiori pubbliche vessate da spionaggio e castigo, la città che i colonizzatori spagnoli battezzarono Santiago de Nueva Extremadura, invecchia e muore nell’impotenza di esprimere i desideri dei popoli, che credeva fossero fantasmi, e che adesso sorgono inusitati, senza presentazioni, circondandola e facendola esplodere (4). Perché c’è stata una rivolta nel Nuevo Extremo.

E Santiago è stato un argomento in più di indignazione popolare. Sebbene i giovani delle periferie abbiano ballato un giorno dopo l’altro, irradiando la loro danza K-Pop nelle fredde vetrine delle élite; sebbene i popoli indigeni abbiano danzato e cantato per decenni ai piedi del colle battezzato dal conquistatore, per poi ribattezzarlo in onore delle prime nazioni; sebbene studenti, pensionati e donne abbiano marciato a centinaia di migliaia, avanti e indietro, più e più volte lungo il suo viale principale chiedendo cose basilari, istruzione, lavoro, giustizia, uguaglianza, i rituali non erano sufficienti, la città non poté essere salvata. Il Santiago del Cile che per tutto il XX secolo – e anche durante la dittatura di Pinochet – aveva raccolto ogni tipo di pratica mutualistica, controculturale, dissidente (5), stava invecchiando senza rimedio. Le sue strade non riuscivano più a contenere i desideri e le frustrazioni che dagli angoli, dai sotterranei e dalle periferie, si agitavano senza trovare un canale di sfogo.

Ma le città, in quanto spazializzazioni del desiderio collettivo, sono paradossali: quella stessa città così estemporanea era l'unica cosa che i popoli avevano. Le sue strade inospitali erano, infatti, le uniche in cui potevamo incontrarci, le sole su cui poteva concretizzarsi la lotta per la sua stessa deposizione. La materia della nostra lotta ci è stata donata dalla stessa città che ci era aliena. E così, una dialettica implacabile ci ha fatto venire voglia di fondere la nostra pelle con quella della città che tante volte ci aveva maltrattato. E, dialetticamente, ci fondemmo. La pelle della città è diventata nostra e ci ha aiutato a dire, ha trascritto i nostri pensieri, desideri, progetti politici, rivendicazioni, amori e odi. Paure. E come la pelle d’oca, ci ha sempre tenuti all'erta. Abbiamo finito per conoscerci meglio. Il buono, il cattivo e il marcio.

Come noi, le sue/ i suoi abitanti, la città sta cambiando di pelle, drammaticamente. Santiago è, come il Cile, una città dell'interregno, quello in cui, come ha avvertito Antonio Gramsci, emergono tutti i tipi di fenomeni morbosi (6); poiché tutto è aperto, illuminato (disposto alla visione, all'immaginazione visionaria), nella crisi, ed è risentito, in irritazione lacerante a causa delle premesse che questi fenomeni hanno alimentato. Se in qualsiasi contesto esprimere una città è impossibile (ci sono solo città al plurale, come ci sono solo popoli plurali), come è possibile dare a vedere uno spazio in trance di trasformazione grazie ai suoi popoli, desideranti, scossi, visionari e in rivolta contro le loro stesse basi? e come scrivere di una città post-apocalittica, che sanguina e ha tanta sete? Come rendere giustizia alle sue rivelazioni?

Di fronte al presente effimero della globalizzazione che, tuttavia, agisce «nascondendo il limite estremo dell'effimero, la morte» (7), sarebbe necessario costruire immagini capaci di catturare questa qualità dell'effimero come espressione del presente in quanto «a-presente, [cioè,] come una costellazione di tempi plurali» affiancati da una qualità estrema che è la finitezza nella morte. Georges Didi-Huberman sostiene che “rendere sensibile” il passaggio dei popoli richiede “rendere visibili” «le faglie, i luoghi [...] attraverso i quali, dichiarandosi come “impotenza”, i popoli affermano allo stesso tempo ciò che manca loro e ciò che desiderano».

Seguendo questi pensatori, tenteremo di produrre alcune immagini o figure in grado di rendere sensibili i modi in cui i popoli della città hanno ricreato il loro presente come una costellazione di tempi che, tagliando l'oggi effimero, separandosi dall'ora chiusa su se stessa, lo scandalizzano sincopaticamente (8). E lo faremo entrando nella città dai suoi margini, da quei luoghi ed esperienze negate dal presente assoluto del capitale. Da quei territori/soggetti che mostrano la città come una costellazione di tempi/spazi ripidi in un dialogo che è rimasto in sospeso e otturato, e la sua superficie condivisa come una pelle increspata. Pelle d'oca della città che emerge dai suoi margini, che favorisce la rivelazione della trama che stabilisce il presente della crisi e lo rende, così, visibile come il lavoro della potenza anche lento delle memorie, come riverbero di tempi plurali, sempre indocili di fronte ai calcoli di qualsiasi dominio.

Fig. 1: A una lega dal centro: il mistagogo è del margine

Nel documentario Hola mi nombre es Óscar Lucero i les tengo una pregunta (Juan Carreño, 2018) (9), il protagonista si sposta nel raggio di pochi isolati dentro l’abitato di La Legua, dove vive. La Legua è un quartiere popolare con una lunga storia di impegno sociale e politico che, però, dalla fine degli anni '80, durante la dittatura, è stato associato con il traffico di droga e la criminalità. Il quartiere deve il suo nome al fatto che si trova a una lega da Plaza de Armas a Santiago, cioè a soli cinque chilometri di distanza. Durante il secondo e il terzo decennio del XX secolo, le famiglie dei lavoratori dell'industria del salnitro in declino nel nord del Cile accrebbero la popolazione. Nelle sue vicinanze si installarono una serie di industrie, tra le altre, manifatture tessili come Yarur e Sumar, che durante il governo di Unità Popolare guidato da Salvador Allende, vennero espropriate dallo Stato e cedute all'organizzazione e al controllo produttivo operaio, formando poi parte dei “cordoni industriali”, gruppi di fabbriche costituiti dal movimento operaio in risposta al sabotaggio delle associazioni imprenditoriali contro il governo popolare. I cordoni e le città circostanti, come La Legua, divennero quindi un tragico centro di resistenza autonomo durante il primo momento del colpo di stato del 1973 (10), e vennero repressi con la massima violenza dai militari.

Durante la dittatura, quartieri come El Pinar, Germán Riesco, Aníbal Pinto, Yungay e La Legua divennero emblemi della resistenza cilena; In effetti, nel corso del 1986, uno degli anni di maggiori mobilitazioni contro la dittatura, l'area concentrò quasi la metà degli arresti nei raid da parte della polizia di stato di tutta la regione metropolitana (Garcés 144-45) (11). Lo stesso accadde con il quartiere João Goulart, dal nome del presidente democratico del Brasile deposto dal colpo di stato avvenuto in quel paese nel 1964.

Óscar Lucero è un uomo di La Legua di questo secondo decennio degli anni 2000. Senza lavoro, con una storia di dipendenze, abita la periferia dalla marginalità: «Sono separato da tutti voi», afferma. E inscrive la sua differenza non solo dentro l’abitato – «è matto, è drogato», suggerisce il droghiere vicino – ma nell'intero sistema della città del duemila, perché scrive... Perché Lucero scrive tutto il tempo – «il poeta de La Legua», lo chiama lo stesso droghiere –, e lo fa sulla superficie della città, da quel luogo speciale della città che è il quartiere di La Legua. Lui scrive sui pali, sui muri, sulle grondaie (12), il motivo della sua scrittura è pubblico e performativo, e trova senso solo in questo incontro con la comunità.

Nonostante sembri soffrire di qualche disturbo che affetta la sua memoria e la sua percezione della realtà, la sua scrittura ha una funzione chiara. Lucero scrive soprattutto spinto da una missione: vuole metterci in guardia, aiutarci a vedere, invogliarci imperativamente alla riflessione, ad andare oltre la superficie, compresa la superficie della sua stessa scrittura. E scrive anche per farsi conoscere, lui, come agente di rivelazione: perché lui vede, e ce lo indica, attraverso segni che sono vie per approfondire il mistero che osserva: come spiega, i segni del corpo, le cicatrici, i nei e la sua strana apparizione/scomparsa sono la prova che viviamo in un'illusione, che un’altra realtà ci abita, e altri esseri, invisibili ad occhio nudo, camminano per le strade insieme a noi. Dieci anni fa era dipendente dal neoprene e adesso da nuovi vizi, però, egli vede, afferma, vede e soprattutto scrive, sente l'irrefrenabile desiderio di comunicare, di raccontare e di svelare. Spera che le persone raccolgano questi segnali e diano loro un senso. A lui interessa che indaghiamo, come lui, la realtà oltre la superficie: «Sono io quello vero o sono un impostore?» Condivide con noi una delle sue preoccupazioni. I suoi appunti nella città iniziano regolarmente con la formula: «Ciao, mi chiamo Óscar Lucero e ho una domanda per te». Lucero ci fornisce indizi sul mistero e ci interpella, perché vuole che tutti ci interroghiamo con lui, ma sa, a un certo punto, che in questo mondo né lui né la sua rivelazione si accomodano completamente. Perché si droga, lo sa e lo riconosce. E soprattutto perché quella città che gli ha toccato in sorte ha perso il suo dono, non si concede più di vedere.

Fig. 2: Hola mi nombre es Óscar Lucero i les tengo una pregunta. Dir. Juan Carreño, 2018

Il documentario è diretto e filmato dal poeta Juan Carreño (1986), che vive in un quartiere vicino a Lucero. In “DESAPARICIÓN DE LA POBLACIÓN SANTO TOMÁS, LA PINTANA”, una delle sue poesie appartenenti al volume Compro fierro (2007) (13), il narratore condivide l'esperienza apocalittica della popolazione:

Ho conosciuto la Ragazza qualche giorno prima

della fine del mondo.

Cristo era venuto tempo fa

e viveva a Santo Tomás.

A quei tempi la gente camminava nella magia

applaudendosi la testa.

Eravamo puro rumore.

Abbiamo visto i supermercati trasformarsi in canili

e le macchine di sopaipillas

in colombaie.

Solo bastava per rimanere ad ascoltare gli alberi.

In quei giorni già eravamo tutti così

soli

che non ci siamo nemmeno accorti

quando con una sciabolata

il cielo

ci si è incrinato.

Nel documentario di Carreño, Lucero è l'uomo marginale di quel quartiere emblematico per la sua organizzazione operaia e per la sua inflessibile resistenza, ora colonizzato dai narcotrafficanti e dalla polizia militare, che ci chiama a riflettere su questioni fondamentali: sulla densità della realtà, ma anche sui nostri atrofizzati compiti collettive. Per questo, soprattutto, la sua figura intercetta, come una rarità, come una dissonanza, le dinamiche di quella popolazione oggi immersa nella macchina necropolitica della compravendita e nel calcolo di vite/morti. Lucero illumina gli angoli polverosi di quella città esclusa con una passione ermeneutica che tutti sembrano aver perso. La sua scrittura sul corpo della città è un grido disperato e appassionato alla sanità mentale ben pensante, fatto da un uomo colpito da tutte le esclusioni. Ed è così che questa passione, cresciuta nei decenni come accumulo delle lotte delle/degli ex lavoratori/trici del salnitro e del tessile, dei/delle militanti in resistenza, risuona nella sua visionaria passione e continua a battere in quella popolazione che vive a una lega dal centro.

Nella poesia il narratore di La Pintana ci avverte: l'apocalisse è già avvenuta, la profezia si è avverata e il cielo è caduto. Nulla rimane in questo post- in cui Lucero sta adesso scrivendo la città, in modo irrefrenabile, freneticamente, solo i suoi messaggi effimeri a una città che immagina, ma che non lo capisce, una città sonnambula, che non riesce a vedere. Quindi abbiamo il dovere di chiederci: perché questa città sia uno spazio così inospitale per il monito del poeta di La Legua, per il suo dire, per chi, con la sua scrittura, si prende cura della nostra profondità.

Santiago, il centro straniero degli scacciati

Il documentario País en vías de desarrollo (Jorge Catoni, 2013) ci offre uno sguardo dei dintorni de la Vega Central (mercato di approvvigionamento) della capitale cilena, che si trova sul lato nord del fiume Mapocho, che taglia. Fin dall'epoca coloniale, il settore, chiamato “La Chimba”, ha funzionato come mercato popolare e punto di incontro, giochi e intrattenimento per il proletariato di Santiago. Dal 1895 vennero costruite le nuove strutture del mercato. Le persone più umili vi trovavano un lavoro sporadico e, soprattutto, i più poveri, una minima fonte di sussistenza per tirare avanti. Il documentario mostra quell'estrema precarietà: persone accanto a cani randagi che frugano in cerca di cibo tra gli avanzi.

Il fiume Mapocho, che attraversa Santiago dalle Ande fino a fondersi con il fiume Maipo e raggiungere il mare, è la fonte di ogni tipo di immagine della vita cittadina. In primo luogo è una specie di diagramma della divisione sociale cilena. All'inizio del canale, verso la cordigliera, si trova il cosiddetto "Barrio Alto" di Santiago, dove risiedono i gruppi più ricchi del paese, tra cui 15 famiglie il cui reddito mensile raggiunge, in media, 2.000 milioni di pesos (circa $ 2,5 milioni) (14). Alla memoria del fiume sono legati i suoi sporadici straripamenti, che distrussero i ponti e i precari fabbricati installati sulle sue sponde. Nella memoria ci sono anche i corpi assassinati dei militanti di sinistra che furono visti galleggiare nelle sue acque e che rivelarono precocemente ai residenti di Santiago l’estrema brutalità della dittatura civico-militare di Pinochet. Il fiume è come una spaccatura nel corpo della città, un dolore che non si può sanare perché la città non ha ancora compiuto i riti che lo consentono.

 Uno degli ultimi corsi d'acqua affluenti del Mapocho prima di sfociare nel fiume Maipo è lo Zanjón de la Aguada, nel settore occidentale della città. Dalla metà del XX secolo, i margini dello Zanjón videro l'insediamento di campi e discariche di rifiuti, soggetti al continuo straripamento del fiume che distrusse quelle installazioni precarie. Come raccontava lo scrittore e interprete Pedro Lemebel, nato proprio sulle rive dello Zanjón, negli anni '50 quello era un palinsesto di case precarissime, fatte di tavole, lamine, cartone, dove vivevano migliaia di persone, soggette a continui sgomberi, una dei tanti centri abitati residuali di Santiago costruiti alla periferia della città, i cosiddetti “quartieri callampa”. Lemebel ricorda che lo Zanjón de la Aguada, dove «i bambini correvano accanto ai cani a caccia di ratti» (15), fu la sua prima casa: alla madre vendettero solo un muro, bene prezioso, che bastò alla donna per costruire, ai suoi piedi, una casa. Lemebel racconta l'esperienza nel fosso dalla sua prospettiva di ragazzo del campo, evidenziando soprattutto il senso collettivo che dava forma alla vita quotidiana, nonostante l'estrema precarietà di quegli anni; e che tracciava una tragica linea di demarcazione tra i bambini del fosso e gli altri, i più poveri tra i poveri, i bambini di strada, che vedeva negli autobus, segnati dall'estrema solitudine e dalla perdita dei legami; esseri di un altro mondo, che apparivano al suo sguardo di bambino con «voci roche di tabacco e di freddo [... e] risate di vecchi nani [...che,] dediti a tutti i vizi, gonfiano la borsa di neoprene con le loro caramelle appiccicose e soffocate dall'esilio e dalla fame».

 Alla stessa epoca a cui fa riferimento Lemebel, il documentario Las Callampas (Rafael Sánchez, 1958) (16), prodotto dalla Chiesa cattolica, mostra proprio uno degli episodi narrati dalla cronaca dello scrittore, quello dell'incendio avvenuto nello Zanjón de la Aguada, che lasciò migliaia di persone senza casa e beni di prima necessità. La tragedia, però, segnò un nuovo inizio per gli abitanti del villaggio, che decisero di abbandonare l'alveo del fiume per trasferirsi in una zona vicina. Così, piantando le loro bandiere cilene, fecero “patria” e si impadronirono della terra dove edificarono nuove case, fondando con quell'atto il sobborgo di La Victoria. La Victoria è un quartiere riconosciuto fino ad oggi per il suo grande livello di organizzazione comunitaria e la sua combattività durante la dittatura di Pinochet (17). Il fiume a volte espelle “in meglio”.

In El pejesapo (18) (José Luis Sepúveda, 2007), invece, il protagonista, Daniel SS, è stato espulso dal fiume «in peggio». Daniel è un suicida fallito che, dopo essersi gettato nelle acque del fiume Maipo, nella Cordigliera, è stato trascinato giù dal fiume: «Mi sono gettato nel fiume [...] il fiume mi ha rigettato fuori», racconta. Anche se in un primo momento la sua sopravvivenza viene interpretata come una nuova opportunità per superare un'esistenza estremamente precaria («Hai mai mangiato un gatto? ... E la carne di cane, di questi cuccioli nuovi? La carne di cane è deliziooosa...», gli rivela una anziana del luogo appena riprende conoscenza), a poco a poco, a colpi, si rende conto del suo nuovo posto nel mondo: è entrato a far parte, in quel margine di semiruralità dimenticata dalla città, della strana coorte stigmatizzata degli esseri abietti rigettati dal fiume. Daniel SS ci prova, però. Senza nulla, espulso dalla propria morte, si dà al compito ossessivo di trovare un posto nuovo nel mondo, nonostante nulla sembri certo, né la sua stessa esistenza, né il tempo, né la realtà: «Tu sei trapassata, sei morta», dice alla vecchia che, impantanata nell'alcolismo, vive con il marito in una casa colonica su quella sponda del fiume. Disprezzato e denigrato anche da quella donna ai margini, Daniel si è comunque convinto che la vita gli abbia dato una seconda possibilità. Così, in stato di delirio, cerca qualche occupazione “dignitosa” e gli viene in mente di raccogliere le rocce che si trovano nel letto del fiume per venderle, dando loro un valore di mercato. Probabilmente per anni, noi non lo sappiamo e nemmeno lui, riprova ancora e ancora con questa assurda occupazione che gli attira solo maggior disprezzo e umiliazione da parte della gente del posto. Daniel SS vive su quel bordo del fiume e della sanità mentale, procurandosi a malapena il cibo per sopravvivere.

 Però la rivelazione arriva, e allora si rende conto che il fiume non lo ha salvato affinché vivesse, ma è stato da esso rigurgitato, il suo corpo espulso come avanzo; il fiume è il suo cattivo padre. Da quel momento assume una condizione di essere senz'anima. Uccide, ruba e si dirige verso la città, dove imbroglia, utilizza e si forgia una vita "normale" basata sull’abiezione. E sopravvive, come il pesce rospo (il pesce rospo è una specie di pesce che aderisce alle rocce per resistere all'assalto delle onde, e grazie alla sua capacità metamorfica è in grado di sopravvivere negli ambienti marini più ostili). Così, la città del Pejesapo, alla periferia di Santiago, emerge dall'inautenticità della propria esperienza, che appare sempre presa in prestito, irreale. La forma del film rafforza questa ambiguità e l'incertezza che implica; in un quadro di ibridazione tra documentario, mockumentary e finzione, ci impone costantemente di interrogarci sulla qualità del mondo di Pejesapo: cosa è reale, cosa non lo è. Fedele alla sua natura, confermato dall'ostilità di una città che gli ricorda sempre la sua condizione di espulso, di residuo di quel fiume crudele, il Pejesapo diventa un cinico, il frutto di quella stessa società; come nella poesia di Opazo, in quella città neoliberista «I suicidi/ sono il frutto/ maturo dei/ grattacieli» (19).

Excursus: Daniel SS è anche il nome che lo scrittore Juan Carreño -regista del documentario su Óscar Lucero e autore di Compro Fierro- assegna a uno dei personaggi principali del suo primo romanzo, Budnik (2018) (20). Nella commedia, da bambino, Daniel SS decide di fuggire dall'ambiente violento della sua casa per vivere in un lotto libero all'interno di un tubo di cemento, uno di quelli che vengono regolarmente utilizzati per le fognature: «Sono andato a vivere in un tubo di cemento marca Budnik, dietro o davanti alle piantagioni di Antumapu. Vivevo da solo e disegnavo ciò che volevo. Era completamente libero. E vivevo della spazzatura», di quello che la gente buttava via. In gioventù, quest'altro Daniel SS si iscrive al Fronte ContraCine, un gruppo neoavanguardistico di controinformazione artistica che rivendica il cinema fatto in e dalla periferia, in contesa con la rappresentazione egemonica della realtà marginale. Così, quest’altro Daniel SS riesce a dirigere un film, Mr. White, che mette in scena il problema della censura negli spazi della città, a partire dagli anni Settanta e Ottanta, e la disputa per l'espressione sulle sue pareti, fino agli anni Novanta, dove la lotta si sposta nella metropolitana di Santiago, divenuto uno spazio pubblicitario per le multinazionali (21).

Fig. 3: Santiago furioso, apocalittico: il risveglio

«I santiaguini che si alzano alle 5 del mattino saranno premiati e l'aumento del biglietto di locomozione collettivo non verrà applicato loro», affermò il ministro dell'Economia nell'ottobre 2019 (22). Dio aiuta chi si alza presto, dovreste saperlo santiaguini pigri, avrebbe voluto aggiungere; Noi donne e uomini di Santiago la intendemmo così.

Un anno prima, Margarita Ancacoy Huircán è stata uccisa da cinque giovani che le hanno rubato cinquemila pesos (6 dollari) e un cellulare all'ingresso del suo posto di lavoro in uno dei campus più moderni dell'Università del Cile, la Facoltà di Ingegneria, situata nel quartiere della Repubblica. Margarita dove lavorava come addetta alle pulizie: il suo contratto le imponeva di entrare alle 5:30 del mattino per pulire l'università, prima dell'arrivo di studenti e accademici. Margarita viveva a Maipú, un comune alla periferia di Santiago, e probabilmente si alzava prima delle 4 del mattino per andare al lavoro. La sua famiglia era del sud, di Huilio, a Cautín, mapuche. I resti di Margherita fecero ritorno nella sua terra (23). Le rotte di Margherita sono quelle della sua genealogia. Molti mapuche arrivarono a Santiago dopo la seconda conquista – dello stato cileno sul Wallmapu, o paese mapuche –, alla fine del XIX secolo, in cerca di opportunità di lavoro. Si stabilirono in comunità alla periferia della città, e trovarono lavoro soprattutto come addetti alle pulizie, braccianti o fornai, nella città straniera.

Quando il ministro pronunciò nel 2019 le sue indolenti raccomandazioni rivolte alla gente della città, incolpando loro dell'ingiustizia di cui erano vittime – dovevano sforzarsi di più, gente comune, qui non si regala niente –, le sue parole si tradussero in una formula magica o meglio, in un’epifania. Sentite tante volte, proprio in questa occasione, non si sa perché (benedetto sia il mistero del popolo), hanno avuto un tale effetto sui maltrattati da operare come una rivelazione: l'intero regime dell'ingiustizia e della violenza venne così esposto, in piena luce. E poi: «Il patriarcato è un giudice / che ci giudica per essere nati, / e il nostro castigo / è la violenza che non vedi», migliaia di donne iniziarono a cantare e ballare (24). Perché era esattamente così, né il ministro, né la polizia, ma nemmeno l'istituto accademico, volevano vedere l'aggressione che era alla base del regime di lavoro che reprimeva e maltrattava Margherita e tante altre donne e popoli in quel Santiago del Cile.

E fu così che a questa prima rivelazione ne seguì un’altra e poi un’altra, e un giorno venne smascherata l'intera rete di esclusioni che sosteneva la città. E la città che prima solo mormorava («il paese era un mormorio, mormoravano tutti», diceva la poetessa Carmen Berenguer) (25), smise di farlo. Cantava, ballava e lottava come pochi ricordavano che potesse fare. E tutto cambiò. Le sue mura raccoglievano le grida e le canzoni, ed è successo a molti, come esprime la regista Claudia Huaiquimilla:

Da bambina mio padre mi raccontava come Leftraru, dopo essere stato rapito dagli spagnoli e aver visto la sua famiglia torturata, apprese le tecniche del nemico, in particolare l'uso del cavallo. Un giorno riuscì a scappare e ad insegnare quello che aveva appreso al suo popolo per sbarazzarsi degli invasori. Mi ha detto che il cavallo assume molte forme e, nel mio caso, potrebbe essere una macchina da presa. È così iniziai a studiare cinema in un terreno inospitale, dove la disuguaglianza di classe mi è subito diventata chiara. Non mi sono mai sentita a mio agio in città e meno qui, fino ad ora, quando i muri urlano Wallmapu libero mentre i volti di Catrillanca e Lemun mi accompagnano (26)

Avvenne allora che tutti quei dolori, sussurrati, nascosti, cancellati, dalla sua periferia e dai suoi sotterranei, furono rivelati. Uno dopo l'altro vennero fuori senza gerarchie, nella più pura democrazia dello spazio, aggiungendosi al corpo della città; mostrando le mille forme dei desideri di quella periferia che si scopriva massiccia e satura della pura forza creatrice messa in atto: «Combatti come una donna», «Combatti come un cane nero»; «Viva gli studenti»; Camilo Catrillanca; Clotario Blest; Victor Jara; Allende vive!; Violeta Parra; «In Baquedano stanno torturando»; «Acque libere!»; «Qui violentano»; «L'America è stata violentata» (27); «Finché valga la pena vivere», «Dignità», tra centinaia e migliaia di slogan e appelli, redatti su cartelloni, murales, graffiti, stencil e attraverso performance. Tutto questo mentre la moglie del presidente della repubblica allertava le ricche signore dell'invasione aliena a cui stavano assistendo in città, e suo marito aggrottava le sopracciglia sulla televisione nazionale e minacciava parlando di «una guerra... contro un nemico potente» annunciando una mano forte e… il coprifuoco, con un appello ai militari di lasciare le caserme per reprimere le strade. I militari, come il '73. I militari, come durante la dittatura. Un déjà vu.

E allora ci siamo resi conto che sì, eravamo alieni in una città che ci aveva espulsi, e lo stesso coprifuoco faceva parte della rivelazione, perché paradossalmente apriva e convocava tutti i tempi della città: le repressioni ai “cafoni” della Poblaciones Callampas negli anni '50; le razzie, le morti e le torture contro gli operai organizzati dei cordoni industriali; il castigo contro i militanti di sinistra; ma anche la resistenza, quella di La Legua, di La Victoria, della Joao Goulart, della Yungay e di tanti altri quartieri e popoli. La secolare resistenza del popolo Mapuche.

Il coprifuoco e i camion militari funzionarono così: aprirono un portale in cui tutti i tempi convergevano in una volta sola. Stavano lì, fluttuanti, sospese nell'aria, tutte le storie, tutte le resistenze, parlandoci all’orecchio, e ci rendemmo conto di abitare dentro una costellazione di tempi plurali. E i popoli ricevemmo l'incarico da questi strani messaggeri mistagogici: e noi tutti/e diventammo aliens, estranei, altri. E respingemmo il coprifuoco e sfidammo i militari. E gli stencil rispondevano con immagini di ghigliottine, cani meticci guidando il popolo, santi e sante popolari. La repressione fu feroce. Centinaia di giovani vennero accecati e altri torturati e uccisi (28). Ma quegli stessi giovani che avevano perso gli occhi ci hanno accompagnato, e ci hanno detto che avevano donato la vista perché potessimo tutti affinarla, perché potessimo tornare a vedere insieme. Perché avevamo perso la paura, insieme.

La città degli angoli e dei margini si svegliò. E gli venne la pelle d'oca. E volle porre fine agli abusi...per sempre.

NOTE

1 In La ciudad como texto. Fotomontaggio e libro. Diretto e fondato da Carola Ureta Marín, con la partecipazione congiunta del fotografo Daniel Corvillón e di 36 ospiti, che hanno contribuito con testi riflessivi inseriti come note in vari punti del percorso. Il tragitto ritrae le pareti del marciapiede sud dell'Alameda da via Seminario fino via Nataniel Cox, davanti al Palazzo del Governo, durante il 36° giorno della rivolta cilena del 2019. Web: https://www.laciudadcomotexto.cl/ La piattaforma è stata progettata e programmata dal creatore insieme allo disegnatore web Felipe Sologuren. Il libro La ciudad como texto LCCT, 2020, di Carola Ureta Marín, è disponibile per il download sulla stessa piattaforma.
2 “Mystagogue” deriva dal greco “μυσταγωγια” (mystagōgia), formato da “μυστης” (mystēs) “iniziatore” e “αγωγος” (agōgós), “colui che guida”. I mistagoghi sono coloro che, sottolinea Derrida, «dicono di essere in un rapporto immediato e intuitivo con il mistero […e] vogliono attrarre, sedurre, condurre verso il mistero e attraverso il mistero» (par. 24).
3 Durante il periodo coloniale spagnolo, il territorio di quello che fu chiamato Capitanato del Regno del Cile era anche conosciuto come Regno di Nueva Extremadura o Nuevo Extremo, in riferimento all'omonima regione spagnola.
4 Per una forza di polizia che arrivò a prelevare gli studenti dalle proprie aule “basta essere giovani e avere uno zaino per essere fermati ovunque in città, si controlla l'identità e si perquisisce lo zaino, senza che a volte ci sia un protesta”, sintetizza un politologo. Gonzalo León, La caída del jaguar, crónica del estallido social en Chile. Città Autonoma di Buenos Aires: Andrea Alvarez, 2020, 169.
5 Un nuovo libro di Cristián Opazo (in fase di stampa), Rímel y gel… parla della scena controculturale nella Santiago della dittatura, e si può già conoscere nel docu-podcast condotto da Alberto Fuguet, disponibile sul web : https://www.centroparalashumanidadesudp.cl/documental-un-nuevo-estilo-de-baile-la-niebla-de-chile/
6 “§ (34). Passato e presente. […] Se la classe dominante ha perduto il consenso, cioè non è più «dirigente», ma unicamente «dominante», detentrice della pura forza coercitiva, ciò appunto significa che le grandi masse si sono staccate dalle ideologie tradizionali, non credono più a ciò in cui prima credevano ecc. La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati.” Antonio Gramsci. Quaderni del carcere. Volume primo. Giulio Einaudi, Torino, 1977. Pág. 311. P. 311.
7 Christine Buci-Glucksmann: Estética de lo efímero, trad. Santiago E. Espinosa, Madrid: Arena Books, 2006.
8 «La rappresentazione è portatrice di effetti strutturali antagonisti o paradossali, che potrebbero chiamarsi “sincopi” a livello del suo funzionamento semiotico, o “lacrime” sintomatiche a livello più metafisico o antropologico” (Didi-Huberman).
9 Hola mi nombre es Óscar Lucero i les tengo una pregunta (Dir. Juan Carreño, 2018). Disponible en web: https://www.youtube.com/watch?v=yKw8gi4nTJ0
10 el testimonio de Eduardo Silva Aranda, trabajador de Sumar: “La inteligencia militar en la industria Sumar Nylon S.A. el 11 de septiembre de 1973” (11 de septiembre, 2012): https://www.ciperchile.cl/2012/09/11/la-inteligencia-militar-en-la-industria-sumar-nylon-s-a-el-11-de-septiembre-de-1973/
11 Mario Garcés Durán. “Los pobladores y la política en los años ochenta: reconstrucción de tejido social y protestas nacionales”. HISTORIA 396, Nº 1 - 2017 (119-148).
12 Bordo del marciapiede, in Cile è popolare l’uso della parola “cuneta” estensivamente: ad esempio, i giovani “carretean” [“gironzolano” n.d.T] sui bordi dei marciapiedi, cioè in strada, in senso lato.
13 Juan Carreño. Compro fierro. Monte Patria: Lagartija ediciones, 2007. Disponibile sul web: https://issuu.com/lagartija_ediciones/docs/compro_fierro. Il titolo allude alla vendita di metalli al chilo, che viene effettuata anche dal padre del poeta.
14 Gonzalo León, La caída del jaguar,
15 Pedro Lemebel. Zanjón de la Aguada. Santiago: Editorial Planeta, 2003. Pedro Lemebel è cresciuto a La Legua.
16 Las callampas. Dir. Rafael Sánchez, 1958. Disponibile sul web: http://archivofilmico.uc.cl/archivo/las-callampas/
17 Juan Carlos Gómez Leyton. Las poblaciones callampas. Una expresión de la lucha social de los pobres, Santiago, 1930-1960”. Santiago: Flacso, serie Estudios Sociales n°60, 1994
18 El pejesapo. Dir. José Luis Sepúveda, 2007. Disponible sul web: https://www.youtube.com/watch?v=1CGgiytNE_s
19 Johnnatan Opazo y Rodrigo Figueroa. Junkopia. Talca: Editorial Bifurcaciones, 2016.
20 Juan Carreño. Budnik. Santiago: Los Perros Románticos, 2018.
21 Felipe Valencia Barrera. “Imagen, ciudad y disputa en la novela Budnik de Juan Carreño”. Seminario de graduación para optar al grado de Licenciado en Lingüística y Literatura. PUCV, Valparaíso, 2019.
22 Juan Andrés Fontaine ctd. en Gonzalo León. La caída del jaguar,
23 Gabriela Pizarro, “Mujeres invisibles: el submundo del aseo que reveló la muerte de Margarita Ancacoy”. Ciper. 10.07.2018. https://www.ciperchile.cl/2018/07/10/mujeres-invisibles-el-submundo-del-aseo-que-revelo-la-muerte-de-margarita-ancacoy/
24Parte del testo de “El violador eres tú”, canzone creata dal collettivo femminista Lastesis e che in seguito è diventata un'azione globale contro la violenza di genere. Il collettivo LASTESIS è stato fondato da Dafne Valdés, Paula Cometa, Sibila Sotomayor e Lea Cáceres. https://www.instagram.com/lastesis/?utm_source=ig_embed. Annoto che oggi LALASTESIS insieme a Delight Lab stanno promuovendo una discussione su "La città del futuro".
25 Carmen Berenguer. Crónicas en transición. Los amigos del barrio pueden desaparecer. Talca: U. de Talca, 2017.
26 In La ciudad como texto. El texto de Claudia Huaiquimilla scritto in mapuzungun e spagnolo.
27 Queste due ultime consegne, sopra i mirti della chiesa di San Francesco La ciudad como texto.
28 Il centro della città sembrava infatti a volte un campo di guerra: “Ci sono diversi centri [sanitari] intorno a Plaza Dignidad, con nomi ed emblemi diversi: la Brigata Zona Zero e la Brigata Caschi Rossi sono due di questi. A volte, come accadrà in seguito, i Carabineros gasano i posti di assistenza medica. Così morirà in piazza uno dei manifestanti. Il suo nome: Abel Acuña, di 29 anni. Gonzalo León, , La caída del jaguar, 146. «Amnesty International ha documentato come, durante le massicce manifestazioni dell'ottobre 2019, i Carabineros cileni abbiano commesso gravi e diffuse violazioni dei diritti umani, in particolare il diritto all'integrità personale, e possibili crimini di diritto internazionale. Secondo i dati del marzo 2021 della Procura e dell'Istituto nazionale dei diritti umani, ci sono più di 8.000 vittime della violenza di stato e più di 400 casi di traumi oculari. Amnesty International, “Cile: due anni dopo l'epidemia sociale”, Amnesty International presenta un rapporto sulla responsabilità del comando alla Procura nazionale». 15 ottobre 2021. https://www.amnesty.org/es/latest/news/2021/10/chile-two-years-on-from-social-unrest-amnesty-international-presents-report-on-command-responsibility-to-national-prosecutors-office-espanol/




Santiago de Chile, ciudad embravecida de los Últimos Días

di Alejandra Bottinelli W.

“Las Alamedas se abren camino y no dejan de venir”

Nicolás Pino (1)

 

Nombrar escatológicamente una ciudad, como si fuera una ciudad en sus días postreros, a la que le ha sido revelado el fin de los tiempos; o una que pende de un hilo, que se acerca a su precipicio y se balancea en su propia caducidad, sobre un eje débil; a la vez, una ciudad que ha sufrido un cataclismo y se halla en el trance de definir, a tientas, qué va a ser de ella en este tiempo postapocalíptico. De eso se trata este ensayo. Los Últimos Días quieren nombrar aquí ese estatuto ambiguo, ese tiempo crítico entre la profecía -que algunos, con afán mistagógico se apuran en marcar a fuego en su cuerpo: serás castigada (2) y el tiempo post, cuando ha ocurrido la revelación. Valga sí advertir desde ya que estos Últimos Días no marcan solo a esta ciudad, sino que refieren la época entera en la que se inscribe su contemporaneidad, porque son los últimos (postreros y reciénvenidos) días no solo de Santiago de Chile, sino de un mundo entero que cae y en el que oscilamos todos (esta y las otras ciudades) débilmente equilibrados, sobre bases gastadas, que no alcanzan. Pues envejecen nuestras ciudades, y no envejecen bien; ficciones de ultramodernidad, se han convertido en su peor versión: escenarios altosinantes del consumo que alimentan pobreza e indignidad. 

Ha habido una revuelta en el Nuevo Extremo (3), en la punta del mundo, en su franja débil, esa que, temíamos, cuidada solo por la Cordillera de los Andes, más temprano que tarde sería tragada por la tierra o fagocitada por el mar. La revuelta ha mostrado la incapacidad de su ciudad central para expresar los deseos de los pueblos que la habitan. Encadenada por los emblemas a sus conquistadores y guerras, colgando de sus medios de transporte reproductores de humillación; con su río apremiado, vuelto lecho de pobreza y muerte, acosados sus liceos públicos por al soplonaje y el castigo, la ciudad que los colonizadores españoles bautizaron como Santiago de Nueva Extremadura, esa ciudad envejece y caduca en su impotencia para expresar los deseos de los pueblos, que creía fantasmas, pero que le surgen ahora inusitados, sin presentaciones, y la envuelven y la hacen estallar (4).

 

Ha habido pues, una revuelta en el Nuevo Extremo. Y Santiago ha sido un argumento más de la indignación popular. Aunque lxs jóvenes de las periferias bailaran día tras día posando su danza K-Pop en las vidrieras frías de las élites; aunque los pueblos indígenas danzaran y cantaran por decenios a los pies del cerro bautizado por el conquistador, aunque lo renombraran, incluso, como las primeras naciones; aunque estudiantes, jubilados y mujeres marcharan en cientos de miles, de ida y de vuelta, una y otra vez por su avenida principal exigiendo las cosas básicas, educación, trabajo, justicia, igualdad, los rituales no alcanzaron, la ciudad no pudo ser salvada. Pues el Santiago de Chile que durante todo el siglo XX -e incluso durante la dictadura pinochetista- había recogido todo tipo de prácticas mutualistas, contraculturales, disidentes (5), Sus calles no lograron ya más contener los deseos y frustraciones que por lo bajo y por sus esquinas, en sus subterráneos y periferias, la recorrían sin hallar cauce.

Pero las ciudades, como espacializaciones del deseo colectivo, son paradójicas. Ocurrió, así, que esa misma ciudad, extemporánea para los pueblos, fue lo único que los pueblos tuvimos. Sus calles inhospitalarias eran, sin embargo, las únicas en las que podíamos encontrarnos, las únicas sobre las cuales podía materializarse la lucha por su misma deposición. La materialidad de nuestra lucha estaba donada por esa ciudad ajena. Y, así, una dialéctica implacable nos hacía desear fundir nuestra piel con la de la ciudad que tantas veces nos maltrató. Y, dialécticamente, nos fundimos. La piel de la ciudad se volvió nuestra y nos ayudó a decir, transcribió nuestros pensamientos, deseos, planes políticos, reivindicaciones, amores y odios. Miedos. Y como una piel de gallina nos mantuvo siempre alertas. Nos conocimos más. Lo bueno, lo malo y lo podrido.

Como nosotrxs, sus habitantes, la ciudad está cambiando de piel, dramáticamente. Santiago es, como Chile, una ciudad del interregno, aquél en el que, como advirtió Antonio Gramsci, emergen todo tipo de fenómenos morbosos (6); pues todo está abierto, iluminado (dispuesto a la visión, a la imaginación visionaria), en la crisis, y está crispado, es decir, en irritación lacerante con las premisas que lo han sustentado. Entonces, si de antemano en cualquier contexto expresar una ciudad es un imposible (siempre hay ciudades, en plural, como solo hay pueblos plurales), ¿cómo dar a ver un espacio en trance de transformación por sus pueblos, deseantes, crispados, visionarios y en revuelta contra sus propias bases?, y ¿cómo escribir de una ciudad posapocalíptica, que sangra y tiene tanta sed?, ¿cómo hacer justicia a sus revelaciones?

Ante el presente efímero de la globalización que, sin embargo, actúa «ocultando el límite extremo de lo efímero, la muerte» (7), sería dable construir imágenes que capturen esa cualidad de lo efímero como expresión del presente en tanto «“a-presente”, [es decir,] como una “constelación de tiempos” plurales» flanqueados por su cualidad extrema que es la finitud en la muerte. Propone Georges Didi-Huberman que “volver sensible” el paso de los pueblos requiere volver visibles «las fallas, los lugares […] a través de los cuales declarándose como ‘impotencia’, los pueblos afirman a la vez lo que les falta y lo que desean».

Siguiendo a estos pensadores, tentaremos aquí producir algunas imágenes o figuras que vuelvan sensibles los modos en que los pueblos de la ciudad han recreado su presente como una constelación de tiempos que, cortando el hoy efímero, separándose del ahora cerrado sobre sí mismo, lo escanden -sincopáticamente (8)-. Y esto lo haremos ingresando a la ciudad desde sus márgenes, por aquellos lugares y experiencias negadas por el presente absoluto del capital; por esos territorios/sujetos que evidencian la ciudad como tiempos/espacios ríspidos de un diálogo que quedó en suspenso y fue obturado, y su superficie compartida como una piel crispada.

Piel de gallina de la ciudad que emerge desde sus márgenes, que propician la revelación de la trama que constituye el presente de la crisis y lo vuelve, así, visible como trabajo de la potencia también lenta de las memorias, como reverberación de tiempos plurales, indóciles ante los cálculos de cualquier dominio.

 

A una legua del centro: el mistagogo es del margen

En el documental Hola mi nombre es Óscar Lucero i les tengo una pregunta (Juan Carreño, 2018) (9), el protagonista se desplaza en un radio de algunas cuadras en la población La Legua, donde habita. La Legua es un barrio popular con una larga historia de compromiso social y político que, sin embargo, desde finales de los años ’80, en dictadura, ha sido asimilado con el narcotráfico y la delincuencia. La población debe su nombre a que se encuentra a una legua de distancia de la plaza de Armas de Santiago, es decir, a tan solo cinco kilómetros. Durante la segunda y tercera décadas del siglo XX, familias de obreros provenientes de la declinante industria salitrera del norte de Chile levantaron allí la población. En sus cercanías se ubicó una serie de industrias, entre otras, manufacturas textiles como Yarur y Sumar, que durante el gobierno de la Unidad Popular encabezado por Salvador Allende fueron expropiadas por el estado y entregadas a la organización y control productivo obrero, y formaron parte los “cordones industriales”, agrupaciones fabriles constituidas por el movimiento obrero en respuesta al sabotaje de los gremios empresariales contra el gobierno popular. Los cordones y sus poblaciones aledañas, como La Legua, se convirtieron, por ello, en un foco trágico de resistencia autónoma durante el primer momento del golpe de Estado de 1973, siendo reprimidos con la mayor violencia por los militares (10). Durante la dictadura, poblaciones como El Pinar, Germán Riesco, Aníbal Pinto, Yungay y La Legua fueron emblema de la resistencia de las y los pobladores; en efecto, durante 1986, uno de los años de mayores movilizaciones contra la dictadura, la zona concentró casi la mitad de las detenciones en allanamientos por agentes del Estado de toda la región metropolitana (Garcés 144-45) (11). También lo fue la población João Goulart, nombrada así en honor al presidente democrático del Brasil depuesto por el golpe de estado en ese país, en 1964.

Óscar Lucero es un hombre de La Legua de esta segunda década de los dosmil. Sin trabajo, con una historia de adicciones, habita la población periférica desde la marginalidad: “soy apartado de todos ustedes”, afirma. E inscribe su diferencia no solo al interior de la población -es loco, drogadicto, sugiere el almacenero vecino- sino que en el entero sistema de la ciudad de los dosmil, pues él escribe… Porque Lucero escribe todo el tiempo -“el poeta de La Legua”, le llama el mismo almacenero-, y lo hace sobre la superficie de la ciudad, de ese especial lugar de la ciudad que es la población La Legua. El hombre escribe en los postes, en las paredes, en las cunetas (12); la razón de su escritura es pública y performativa y solo encuentra sentido en ese encuentro con la colectividad. Aunque parece sufrir algún trastorno que afecta su memoria y su percepción de la realidad, su escritura tiene una función clara. Lucero escribe sobre todo alentado por una misión: quiere advertirnos y ayudarnos a ver, y convocarnos imperativamente a la reflexión, a traspasar la superficie, incluida la superficie de su propia escritura. Y escribe también para darse a conocer, él, como agente de la revelación: porque él ve, y nos indica a nosotros a través de señales que son vías para adentrarnos en el misterio: como nos explica, las marcas corporales, cicatrices, lunares y su extraña aparición/desaparición son evidencia de que vivimos un engaño, de que otra realidad nos habita, otros seres, invisibles a quien no sabe observar, andan las calles junto a nosotros. Hace diez años estuvo enganchado al neoprén y ahora a un nuevo vicio, empero, él ve, afirma, visiona y sobre todo escribe, siente el deseo irrefrenable de comunicar, de contar historias y de revelar. Aspira a que la gente reúna esas señales y les dé sentido. Le interesa que indaguemos, como él, en la realidad más allá de la superficie: “¿Soy el verdadero o soy un impostor?”, nos comparte una de sus preocupaciones. Sus notas en la ciudad comienzan regularmente con la fórmula: “Hola mi nombre es Óscar Lucero i les tengo una pregunta”. Lucero nos otorga pistas sobre el misterio, y pregunta, pues quiere que nos preguntemos todos con él, pero sabe, en algún punto, que en este mundo ni él ni su revelación caben por completo. Porque se droga, lo sabe y lo reconoce. Y sobre todo porque esa ciudad que a él ha tocado ha perdido su don, ya no se permite ver.

 

Hola mi nombre es Óscar Lucero i les tengo una pregunta. Dir. Juan Carreño, 2018.

El documental está dirigido y filmado por el poeta Juan Carreño (1986), quien vive en un barrio cercano al de Lucero. En “DESAPARICIÓN DE LA POBLACIÓN SANTO TOMÁS, LA PINTANA”, uno de sus poemas pertenecientes al volumen Compro fierro (2007) (13), el hablante comparte la vivencia apocalíptica poblacional:

Conocí a la Chica días antes

del fin del mundo.

Cristo había llegado hace tiempo

y vivía en la Santo Tomás.

Por esos días la gente andaba en la magia

aplaudiéndose la cabeza.

Éramos pura bulla.

Vimos los supermercados transformarse en perreras

y los carros de sopaipillas

en palomares.

Sólo alcanzaba para quedarnos escuchando árboles.

Por esos días ya estábamos todos tan

solos

que ni nos dimos cuenta

cuando de un sablazo

el cielo

se nos rajó.-

 

En el documental de Carreño, Lucero es el hombre marginal de aquella población emblemática por su organización obrera y por su resistencia inclaudicable, hoy colonizada por el narcotráfico y por la policía militar, que nos hace el llamado a reflexionar sobre las cuestiones fundamentales: sobre la densidad de la realidad, así como sobre nuestras atrofiadas misiones colectivas. Por ello, sobre todo, su figura intercepta, como una rareza, como una disonancia, la dinámica de esa población hoy sumida en la maquina necropolítica de la compra/venta y en el cálculo de vidas/muertes. Lucero ilumina las esquinas polvorientas de esa ciudad excluida con una pasión hermenéutica que todos parecen haber perdido. Su escritura en el cuerpo de la ciudad es un grito desesperado, pasional, a la cordura bienpensante, realizado por un hombre afectado por todas las exclusiones. Y es así que esa potencia acrecida durante décadas como una acumulación de las luchas de las y los ex salitreros, de las y los obreros textiles, de las y los militantes en resistencia, reverbera en su pasión visionaria y sigue latiendo en esa población a una legua del centro.

En el poema, sin embargo, el hablante de La Pintana nos advierte: el apocalipisis ya ha ocurrido, la profecía está cumplida, y el cielo se ha caído. Nada queda ya en este post en el que está ahora Lucero escribiendo la ciudad irrefrenable, frenéticamente, solo sus mensajes efímeros a una ciudad que imagina mas no le comprende, a una urbe sonámbula, que no logra ver. Y entonces, uno tiene el deber de preguntarse: ¿Por qué es este Santiago un espacio tan inhóspito para la advertencia del poeta de La Legua, para su decir, para aquél que nos cuida con la profundidad con su escritura?

Santiago, el centro extranjero de los expulsados

El documental País en vías de desarrollo (Dir. Jorge Catoni, 2013) nos ofrece una mirada de los alrededores de la Vega Central (mercado de abastos), que se encuentra al costado norte del río Mapocho, que cruza la ciudad capital chilena. Desde el tiempo colonial, el sector, llamado “La Chimba”, funcionó como un mercado popular y núcleo de encuentro, juegos y diversión de la plebe santiaguina. Desde 1895 se edificaron las nuevas instalaciones del mercado. Las personas más humildes encontraron allí trabajo esporádico y, sobre todo, los más pobres, una fuente mínima del alimento del día. El documental muestra esa extrema precariedad: personas junto a perros callejeros hurgando por comida entre las sobras.

El río Mapocho, que recorre Santiago desde la Cordillera de los Andes hasta fundirse con el cauce del Maipo y llegar al mar, es fuente de todo tipo de imágenes sobre la vida de la ciudad. La primera es su carácter de diagrama de la división social chilena. En el comienzo del cauce, hacia la cordillera, se ubica el llamado “Barrio Alto” de Santiago, donde viven los grupos más acaudalados del país, entre ellos, 15 familias cuyo ingreso alcanza, mensualmente en promedio, los 2.000 millones de pesos (unos 2,5 millones de dólares) (14). Adherida a la memoria del río están sus esporádicos desbordes, que arrasaron con puentes y con las precarias viviendas instaladas en sus márgenes. También en la memoria están los cuerpos asesinados de militantes de izquierda que se vieron flotar en sus aguas, y que mostraron tempranamente a los santiaguinos la extrema brutalidad de la dictadura cívico-militar de Pinochet. El río es como una hendidura en el cuerpo de la ciudad, un dolor que no se deja restañar porque la ciudad no ha hecho aún los rituales que lo permitan.

Uno de los últimos cursos de agua tributarios del Mapocho antes de que se vierta en el río Maipo, es el Zanjón de la Aguada, hacia el sector poniente de la ciudad. Desde la mitad del siglo XX, los bordes del Zanjón vieron instalarse allí campamentos y vertederos de basura, sometidos a constantes desbordes del cauce que arrasaban con las precarias viviendas. Como compartía el escritor y performer Pedro Lemebel, quien nació justamente a orillas del Zanjón, en los años 50 eso era un palimpsesto de casas precarísimas, hechas de tablas, fonolas, cartones, donde convivían miles de personas que estaban sujetas a constantes desalojos; una de entre muchas poblaciones santiaguinas constituidas en los bordes de la ciudad, las llamadas “poblaciones callampa”. Recuerda Lemebel que el Zanjón de la Aguada, donde «los niños corrían junto a los perros persiguiendo guarenes» (15), fue su primer hogar, allí donde a su madre le vendieron solamente una pared, posesión preciada, que bastó a la mujer para levantar a sus pies un hogar. Lemebel narra la experiencia en el zanjón desde su perspectiva de niño de campamento, destacando sobre todo el sentido colectivo que daba forma a la cotidianidad, a pesar de la extrema precariedad, en esos años ’50; y que trazaba una línea divisoria trágica entre los niños del zanjón y los otros, los más pobres de los pobres, los niños de la calle, que podía ver en las micros, marcados por la extrema soledad y la pérdida de lazos; seres de otro mundo, que se aparecen a su mirada de niño con «voces roncas de tabaco y frío […y] risas de enanos viejos [… los que,] Adictos a todos los vicios, inflan la bolsa de neoprén con sus ñatas pegajosas y asfixiadas por el exilio y el hambre».

En la misma época a la que refiere Lemebel, el documental Las Callampas (Dir. Rafael Sánchez, 1958) (16), producido por la Iglesia católica, muestra justamente uno de los episodios que narra en su crónica el escritor: el del incendio del Zanjón de la Aguada, que dejó a miles de personas sin sus hogares y pertenencias básicas. La tragedia, sin embargo, resultó en un nuevo comienzo para los pobladores, quienes decidieron abandonar el lecho del río y trasladarse a una zona aledaña. Así, plantando sus banderas chilenas, hicieron “patria” y se tomaron los terrenos donde levantaron sus nuevos hogares, fundando con ese acto la población La Victoria. La Victoria es un barrio reconocido hasta hoy por su nivel de organización comunitaria y su combatividad durante la dictadura de Pinochet (17). El río a veces expulsa para bien.

En El pejesapo (18) (Dir. José Luis Sepúveda, 2007), sin embargo, el protagonista, Daniel SS, ha sido expulsado para mal. Daniel es un fallido suicida que, habiéndose arrojado a las aguas del río Maipo en la Cordillera, ha sido devuelto por su cauce: «Me lancé al río […] el río me botó pa afuera», afirma. Si bien en un comienzo su sobrevida es interpretada como una nueva oportunidad para superar una existencia en extremo precaria («¿Ha comido gato alguna vez? … ¿Y carne de perro, de esos perritos nuevos? Es riiica la carne de perro…», dialoga con una anciana del lugar al recobrar la conciencia), poco a poco, a nuevos golpes, se va dando cuenta de su nuevo lugar: ha pasado a formar parte allí, en ese margen de una semiruralidad olvidada por la urbe, de la extraña cohorte estigmatizada como los seres abyectos que han sido expelidos por el río. Daniel SS intenta, sin embargo. Y sin nada, expulsado de su propia muerte, se da a la obsesiva tarea de encontrar un nuevo lugar en ese mundo, a pesar de que nada parece seguro, ni su existencia misma, ni el tiempo, ni la realidad: «Tú te moriste, tú estai muerta», le advierte a la anciana que, sumida en el alcoholismo, vive junto a su marido en un rancho en ese borde del río. Despreciado y denigrado incluso por esa mujer del margen, se convence, no obstante, de que la vida le ha otorgado otra oportunidad. Así, en un estado de delirio, busca alguna ocupación “decente” y se le ocurre juntar las rocas que están en el lecho del río para venderlas, darles un valor de mercado. Probablemente por años, no lo sabemos ni él tampoco, intenta una y otra vez con esta absurda ocupación que solo le atrae más desprecio y humillaciones de parte de los habitantes del lugar. Daniel SS vive en ese borde del río y de la cordura, apenas consiguiendo alimento.

Pero la revelación llega. Y entonces se da cuenta de que el río no lo ha salvado para vivir, sino que ha sido regurgitado por él, su cuerpo ha sido expelido como un desecho sobrante; padre malo, el río. Asume desde ese momento su condición de ser sin alma. Asesina, roba, y se va en dirección a la ciudad, donde engaña, utiliza y se forja una vida “normal” sobre su abyección. Y, como el pejesapo, sobrevive (el pejesapo es una especie de pez que se adhiere a las rocas para resistir el embate de las olas, y por su capacidad metamórfica es capaz de sobrevivir en los ambientes marinos más hostiles).

Así, la ciudad del Pejesapo, en las villas periféricas de Santiago, emerge sobre la inautenticidad de su propia experiencia, que le aparece siempre prestada, irreal. La forma del filme refuerza esta ambigüedad y la incertidumbre que supone; en un marco de hibridez entre documental, falso documental y ficción, la forma nos exige permanentemente preguntarnos sobre la cualidad del mundo del Pejesapo: qué es lo real, qué no lo es. Fiel a su naturaleza, confirmada por la hostilidad de una ciudad que le recuerda todo el tiempo que es un expulsado, un residuo de aquel río cruel, el Pejesapo se transforma en un cínico, fruto de esa misma sociedad; como en el poema de Opazo, en esa ciudad neoliberal «Los suicidas/ son los frutos/ maduros de los/ rascacielos» (19).

Excurso: Daniel SS es también el nombre que el escritor Juan Carreño -director del documental sobre Óscar Lucero y autor de Compro fierro- otorga a uno de los personajes principales de su primera novela, Budnik (2018) (20). En la obra, siendo un niño, Daniel SS decide escapar del ambiente violento de su casa para vivir en un sitio eriazo dentro de un tubo de cemento, de aquellos que se usan regularmente para el alcantarillado: “me fui a vivir a un tubo de cemento marca Budnik que hay atrás o delante de las plantaciones del Antumapu. Vivía solo y dibujaba lo que quería. Era totalmente libre. Y vivía de la basura” (17), de lo que la gente botaba. En su juventud, este otro Daniel SS se enrola en el Frente ContraCine, una agrupación neovanguardista de contrainformación artística que reivindica el cine realizado en y desde la periferia, en disputa con la representación hegemónica de la realidad marginal. Así, este Daniel SS llega a dirigir una película, Mr. White, que ficcionaliza el problema de la censura en los espacios de la ciudad, desde los años setenta y ochenta y expone la disputa por la expresión en sus muros, hasta los años noventa, donde la lucha es en el metro de Santiago, espacio de la publicidad de las corporaciones globales (21).

 

Santiago embravecido, apocalíptico: el despertar

“Los santiaguinos que se levanten a las 5 am serán recompensados y no se les aplicará el alza del pasaje de la locomoción colectiva”, dijo el ministro de Economía en octubre de 2019 (22). Al que madruga dios le ayuda, deberían saberlo, santiaguinos flojos, quiso agregar probablemente; las y los santiaguinos así lo comprendimos.

Un año antes, Margarita Ancacoy Huircán era asesinada por cinco jóvenes que le robaron cinco mil pesos (6 dólares) y un celular, a la entrada de su trabajo en una de las sedes más modernas de la Universidad de Chile, la Facultad de Ingeniería, ubicada en el Barrio República. Margarita trabajaba como aseadora, y el contrato le obligaba ingresar a las 5:30 AM para limpiar la Universidad, antes de que llegaran estudiantes y académicos. Margarita vivía en Maipú, una comuna en la periferia santiaguina y probablemente se levantaba antes de las 4:00 AM para ir al trabajo. Su familia era del sur, de Huilío, en Cautín, mapuche. Los restos de Margarita retornaron a su tierra. (23) Los recorridos de Margarita son los de su genealogía. Muchas/os mapuche llegaron a Santiago después de la Segunda Conquista -del estado chileno sobre el Wallmapu o país mapuche-, a fines del siglo XIX, buscando opciones de trabajo. Se instalaron en comunas periféricas, y se ocuparon sobre todo como aseadoras, jornales o panaderos, en esa ciudad ajena.

Cuando el ministro aquél pronunció en 2019 sus indolentes recomendaciones dirigidas a los pueblos de la ciudad, culpándolos a ellas y ellos mismos de la injusticia que resentían: tenían que esforzarse más, plebeyos, aquí nada se regala, sus palabras fueron como un conjuro o mejor, una epifanía. Oídas tantas veces, en esta ocasión nadie sabe por qué (bendito, el misterio de los pueblos) hicieron tal efecto en las y los maltratados que operaron como una revelación: todo el régimen de injusticia y violencia quedó allí expuesto, a plena luz. Y, entonces: El patriarcado es un juez/ que nos juzga por nacer,/ y nuestro castigo/ es la violencia que no ves”, cantaron y bailaron miles de mujeres (24). Porque era justamente así: ni el ministro, ni la policía, pero tampoco la institución académica, querían ver la agresión que estaba en la base del régimen de trabajo que obligaba y maltrataba a Margarita y a tantas otras mujeres y pueblos en ese Santiago de Chile.

Y fue así que a la primera revelación siguió una nueva y luego otra y otra, y así un día quedó expuesta toda la trama de exclusiones que sustentaba la ciudad. Y la ciudad que antes solo murmuraba («el país era un murmullo, todo el mundo murmuraba» (25), dijo la poeta Carmen Berenguer), lo dejó de hacer. Cantó y bailó y luchó como pocos recordaban que podía hacerlo. Y todo cambió. Sus paredes recogieron los gritos y los cantos, y pasó a muchos como expresa la cineasta Claudia Huaiquimilla: 

De pequeña, mi padre me contaba cómo Leftraru, tras ser raptado por españoles y ver cómo torturaban a su familia, aprendió las técnicas del enemigo, especialmente el uso del caballo. Un día logró huir y enseñarle todo a su gente para sacar a los invasores. Me dijo que el caballo toma muchas formas y, en mi caso, podría ser la cámara. Así llegué a estudiar cine a un terreno inhóspito, donde se me hizo patente la desigualdad de clases. Nunca me sentí cómoda en la ciudad y menos acá, hasta ahora, que las paredes gritan Wallmapu libre mientras los rostros de Catrillanca y Lemun me acompañan (26).

Ocurrió entonces que los dolores aquéllos, susurrados, escondidos, borrados, de su periferia y sus subterráneos, fueron revelados. Y uno tras otro emergieron, y uno sobre otro, sin afán de jerarquía, en la más pura democracia del espacio, se fueron añadiendo al cuerpo de la ciudad; y mostraron las mil formas de los deseos de esa periferia que se reveló multitudinaria y colmada de pura potencia creativa puesta en acto: “Pelea como mujer”, “Lucha como perro negro”; “Que vivan lxs estudiantes”; Camilo Catrillanca; Clotario Blest; Víctor Jara; ¡Allende vive!; Violeta Parra; “En Baquedano están torturando”; “Aguas libres!”; “Aquí violan”; “América fue violada” (27); “Hasta que valga la pena vivir”, “Dignidad”, entre cientos y miles de consignas y llamados, eran expresados por carteles, murales, grafittis, esténciles y performances. Todo ello, mientras la mujer del presidente de la república alertaba a las demás señoras ricas sobre la invasión alienígena que estaban presenciando sobre la ciudad, y su marido arrugaba el ceño en cadena nacional y amenazaba con que esto se trataba de “Una guerra… contra un enemigo poderoso”, y anunciaba mano dura y… toque de queda, con un llamando a los militares a salir de los cuarteles a reprimir a las calles. Los militares, como el ’73. Los militares, como en dictadura. Un déjà vu.

 

 

Y entonces, nos dimos cuenta de que sí, que éramos alienígenas en una ciudad que nos había expulsado. Y el toque de queda mismo fue parte de la revelación, porque paradójicamente, abrió y convocó todos los tiempos de la ciudad: las represiones a la “chusma” de las Poblaciones Callampas en los años ‘50; los allanamientos, la muerte y las torturas contra los obreros organizados de los cordones industriales; el castigo contra los militantes de las izquierdas; pero también la resistencia, la de La Legua, de la Victoria, de la Joao Goulart, de la Yungay y de tantas poblaciones y pueblos. La resistencia de siglos del pueblo mapuche. El toque de queda y los camiones militares funcionaron así: abrieron un portal en el que todos los tiempos convergieron de una sola vez. Estaban entonces ahí, flotando, suspendidas en el aire todas las historias, todas las resistencias, hablándonos al oído; habitábamos una constelación de tiempos plurales, nos dimos cuenta. Y fue así que los pueblos recibimos el encargo de tan extraños mensajeros mistagógicos: y todxs nos volvimos aliens, extrañxs, otrxs. Y rechazamos el toque de queda, y desafiamos a los militares. Y los esténciles respondieron con imágenes de guillotinas, de perros quiltros guiando al pueblo, de santas y santos populares. La represión fue feroz. Cientos de jóvenes fueron cegadxs, y otrxs, torturados y muertos (28). Pero esos mismxs jóvenes que habían perdido sus ojos nos acompañaron, y nos dijeron que habían donado su vista para que todxs la afináramos, para que pudiéramos volver a ver, juntos. Porque habíamos perdido el miedo, juntos.

Y fue así que la ciudad de las esquinas y los márgenes despertó. Y su piel se puso de gallina, y quiso terminar con los abusos… para siempre.

 

 

NOTAS

1 En La ciudad como texto. Fotomontaje y libro. Dirigido y fundado por Carola Ureta Marín, con la participación conjunta del fotógrafo Daniel Corvillón y 36 invitados, quienes aportaron textos reflexivos insertos como notas en diversos puntos del recorrido. El registro retrata los muros de la vereda sur de la Alameda desde la calle Seminario hasta Nataniel Cox, frente al Palacio de gobierno, durante el día 36 de la revuelta chilena de 2019. Web: https://www.laciudadcomotexto.cl/ La plataforma fue diseñada y programada por la creadora junto al desarrollador web Felipe Sologuren. El libro La ciudad como texto LCCT, 2020, de Carola Ureta Marín, está disponible para descarga en la misma plataforma.
2 “Mistagogo” proviene del griego «μυσταγωγια» (mystagōgia), formado por «μυστης» (mystēs) iniciador y «αγωγος» (agōgós), el que impulsa. Mistagogos son quienes, destaca Derrida, “se dicen en relación inmediata e intuitiva con el misterio […y] quieren atraer, seducir, conducir hacia el misterio y por el misterio” (párr. 24).
3 Durante el período colonial español, el territorio de lo que se llamaba la Capitanía del Reino de Chile era conocida también por Reino de Nueva Extremadura o Nuevo Extremo, en referencia a la región española del mismo nombre.
4 Con una policía que fue capaz de apresar estudiantes desde sus propios salones de clases “basta ser joven y tener una mochila para ser parado en cualquier parte de la ciudad, y se controla la identidad y se revisa la mochila, sin que a veces haya protesta”, sintetiza una politóloga. Gonzalo León, La caída del jaguar, crónica del estallido social en Chile. Ciudad Autónoma de Buenos Aires: Andrea Alvarez, 2020, 169.
5 Un nuevo libro de Cristián Opazo (a punto de salir de imprenta), Rímel y gel… trata sobre la escena contracultural en el Santiago dictatorial sobre el que ya puede conocerse en el docu-podcast conducido por Alberto Fuguet, disponible en web: https://www.centroparalashumanidadesudp.cl/documental-un-nuevo-estilo-de-baile-la-niebla-de-chile/
6 “§ (34). Passato e presente. […] Se la classe dominante ha perduto il consenso, cioè non è più «dirigente», ma unicamente «dominante», detentrice della pura forza coercitiva, ciò appunto significa che le grandi masse si sono staccate dalle ideologie tradizionali, non credono più a ciò in cui prima credevano ecc. La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati.” Antonio Gramsci. Quaderni del carcere. Volume primo. Turin: Giulio Einaudi, editore, 1977. Pág. 311.
7 Christine Buci-Glucksmann: Estética de lo efímero, Trad. Santiago E. Espinosa, Madrid: Arena Libros, 2006.
8 “La representación es portadora de efectos estructurales antagónicos o paradójicos, que podrían denominarse “síncopas” en el plano de su funcionamiento semiótico, o bien “desgarraduras” sintomáticas en un plano más metafísico o antropológico” (Didi-Huberman).
9 Hola mi nombre es Óscar Lucero i les tengo una pregunta (Dir. Juan Carreño, 2018). Disponible en web: https://www.youtube.com/watch?v=yKw8gi4nTJ0
10 el testimonio de Eduardo Silva Aranda, trabajador de Sumar: “La inteligencia militar en la industria Sumar Nylon S.A. el 11 de septiembre de 1973” (11 de septiembre, 2012): https://www.ciperchile.cl/2012/09/11/la-inteligencia-militar-en-la-industria-sumar-nylon-s-a-el-11-de-septiembre-de-1973/
11 Mario Garcés Durán. “Los pobladores y la política en los años ochenta: reconstrucción de tejido social y protestas nacionales”. HISTORIA 396, Nº 1 - 2017 (119-148).
12 Bordillo de la acera, en Chile es popular el uso de “cuneta” de manera extensiva: por ejemplo, los jóvenes “carretean” en las cunetas, es decir en la calle, en términos amplios.
13 Juan Carreño. Compro fierro. Monte Patria: Lagartija ediciones, 2007. Disponible en web: https://issuu.com/lagartija_ediciones/docs/compro_fierro. El título hace alusión a la compraventa de metales por kilo, que también realiza el padre del poeta.
14 Gonzalo León, La caída del jaguar,
15 Pedro Lemebel. Zanjón de la Aguada. Santiago: Editorial Planeta, 2003. Pedro Lemebel se crió en la población La Legua.
16 Las callampas. Dir. Rafael Sánchez, 1958. Disponible en web: http://archivofilmico.uc.cl/archivo/las-callampas/
17 Juan Carlos Gómez Leyton. Las poblaciones callampas. Una expresión de la lucha social de los pobres, Santiago, 1930-1960”. Santiago: Flacso, serie Estudios Sociales n°60, 1994
18 El pejesapo. Dir. José Luis Sepúlveda, 2007. Disponible en web: https://www.youtube.com/watch?v=1CGgiytNE_s
19 Johnnatan Opazo y Rodrigo Figueroa. Junkopia. Talca: Editorial Bifurcaciones, 2016.
20 Juan Carreño. Budnik. Santiago: Los Perros Románticos, 2018.
21 Felipe Valencia Barrera. “Imagen, ciudad y disputa en la novela Budnik de Juan Carreño”. Seminario de graduación para optar al grado de Licenciado en Lingüística y Literatura. PUCV, Valparaíso, 2019.
22 [1] Juan Andrés Fontaine ctd. en Gonzalo León. La caída del jaguar,
23 Gabriela Pizarro, “Mujeres invisibles: el submundo del aseo que reveló la muerte de Margarita Ancacoy”. Ciper. 10.07.2018. https://www.ciperchile.cl/2018/07/10/mujeres-invisibles-el-submundo-del-aseo-que-revelo-la-muerte-de-margarita-ancacoy/
24 Parte de la letra de “El violador eres tú”, canción creada por el colectivo feminista Lastesis y que se convirtió, luego, en una acción global contra la violencia de género. El colectivo LASTESIS fue fundado por Dafne Valdés, Paula Cometa, Sibila Sotomayor y Lea Cáceres. https://www.instagram.com/lastesis/?utm_source=ig_embed. Anoto que hoy mismo, LASTESIS junto a y Delight Lab estén promoviendo una discusión sobre “La ciudad del futuro”.
25 Carmen Berenguer. Crónicas en transición. Los amigos del barrio pueden desaparecer. Talca: U. de Talca, 2017.
26 En La ciudad como texto. El texto de Claudia Huaiquimilla está escrito en mapuzungun y castellano.
27 Estas dos últimas consignas, sobre los muros de la Iglesia de San Francisco. La ciudad como texto.
28 El centro de la ciudad efectivamente pareció a ratos un campo de guerra: “Hay varios centros de atención [de salud] en los alrededores de Plaza Dignidad, con distintos nombres y distintivos: Brigada Zona Cero y Brigada Cascos Rojos son dos. Algunas veces, como ocurrirá después, Carabineros gaseará los puestos de atención médica. Será así como uno de los manifestantes fallecerá en la plaza. Su nombre: Abel Acuña, tenía 29 años”. Gonzalo León, La caída del jaguar, “Amnistía Internacional documentó cómo, durante las masivas manifestaciones de octubre del 2019, Carabineros de Chile cometieron graves y generalizadas violaciones de derechos humanos, especialmente al derecho a la integridad personal, y posibles crímenes de derecho internacional. De acuerdo con cifras a marzo de 2021 de la Fiscalía y del Instituto Nacional de Derechos Humanos, se contabilizan más de 8.000 víctimas de violencia estatal y más de 400 casos de trauma ocular”. Amnesty International, “Chile: A dos años del estallido social” Amnistía Internacional presenta informe sobre responsabilidad de mandos a la Fiscalía Nacional”. 15 de octubre, 2021. https://www.amnesty.org/es/latest/news/2021/10/chile-two-years-on-from-social-unrest-amnesty-international-presents-report-on-command-responsibility-to-national-prosecutors-office-espanol/

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