Immaginario minimo della città trascritta, allucinata, politicizzata

(Traduzione di Giovanni Festa)

Questo testo è stato scritto lontano da La Plata, senza poter disporre di una parte fondamentale dell'archivio esistente sugli argomenti trattati. Le seguenti note preliminari sono rivolte ad alcune opere di grande rilevanza da/su questa città di formazione. Per vari motivi, altre opere di pari interesse non verranno approfondite. In fondo si tratta di uno scritto che mescola il gusto personale con l'avvio di un'indagine storica. Il suo principio costruttivo si ispira vagamente a una frase dello storico Carlo Ginzburg: «L'artificio, che si concentra su certi elementi e non su altri, permette di cogliere la ricchezza della realtà» (Serna & Pons, 2019, p.100 ). Tuttavia, il saggio, in procinto di disintegrarsi, sembra articolare insieme una serie incostante di analisi e immagini; come scrive Jean-Luc Nancy (2013, p. 130):

 

Città tutta istantanea

senza visione panoramica

senza paesaggio, senza geografia

istanti bloccati

luoghi spalmati

articolazioni incerte

Tra tutte le possibili linee di composizione di La Plata come idea, verranno privilegiate quelle di esistenza fantasmatica, no-fiction e provinciale, che, autonomamente o intersecandosi, organizzano una certa immagine della città; ci sono almeno tre modi, tra gli altri, per valutarla.

Il primo è intenderla, come telone di (fondo)−nome, riferimento, scenografia, ecc.− di certe opere d'arte che sembrano essere regolate da una rigida legge negativa che incide sul motivo: (secondo una parafrasi che combina frasi rubate a Schönberg e Godard) si scrive un'opera (filmata, dipinta o composta), non ciò che rappresenta. Tracce flebili della metropoli, la fugacità delle sue immagini deficitarie nella letteratura dell’esiguo corpus consultato, che la prendono come scenario di storie e la conducono fino all'allucinazione (la narrativa di Gabriel Báñez o Aurora Venturini, per citare due scrittori platensi). Vedremo così «districarsi le immagini e le idee, le forme della città» (Ivi, p. 49). Il secondo è invece l'ambito del fattuale, nella saggistica − il genere attribuito a Rodolfo Walsh per il suo libro Operación Masacre (1956 circa), il cui inizio e parte del suo sviluppo si collocano esattamente nelle strade della città − e, naturalmente, anche al di fuori degli schermi e dei testi. Infine, invece di considerare La Plata come un ambiente “superprovinciale”, come la città apparve al poeta Arnaldo Calveyra (Gianera & Saimolovich, 2008, p.15) negli anni Cinquanta, andrebbe pensata oggi come un “spazio provinciale”. In questo senso è più appropriata la versione del barone Biza (che in alcuni casi particolari può compiersi in maniera imperfetta) sull'arte provinciale nella sua fase matura: la provincia comunica «con la sua metropoli senza sentimenti di inferiorità e attraverso di essa con i paesi del centro» (2010, pp. 179-180).

Iniziamo senza dubbio dalla bellezza geometrica dell'impianto urbanistico schematico e reticolare di La Plata, dovuto a (l'ufficio di) Pedro Benoit. Progettazione razionale e pensiero magico (positivismo, massoneria, esoterismo) si intrecciano in questa città utopica sin dalla sua fondazione. Il fatto di materializzare improvvisamente l'idea di una città nel deserto non solo produsse una perfetta forma superlativa, concretizzata nell'immensa estensione di uno spazio fisico −il centro storico−, ma anche la parte più fittizia di tale impresa iniziò presto a proliferare. Da allora, dal capoluogo di provincia proliferano tracce iridescenti, come se fossero miraggi in una landa desolata che si accovaccia in attesa del suo osservatore. Subito dopo la fondazione di La Plata, nel 1882, veniva segnalato ripetutamente, tra i suoi tratti più noti, il contrasto tra la grandezza del paesaggio urbano e la sua condizione spopolata: nelle parole di Lupati Guelfi: «le strade immense e poco pulite, aperte a una folla ipotetica, sono deserte e ricoperte d’erba (...) si potrebbe dire che sono le strade di una città morta». (De Diego, 2019, p. 36).

Evidentemente, la scrittura propaga i suoi effetti incerti sulla città. Archivi e documenti che in linea di principio sono dovute al dominio della verità (o, se si vuole, della realtà) verranno profondamente colpiti dall'immaginario, dal marciume dell'umorismo e dell'ironia, saranno esacerbati dalle affabulazioni o sostituite dalle bugie. Una tendenza perfettamente esemplificata da “La Plata”, “cronaca” piena di esagerazioni e visioni eccentriche scritta da Sarmiento nel 1885: «là tutto, governo, gente, ingegneri, fanno le ore piccole con l'oppio, e realizzano tutto eccessivo, colossale, come per una città di giganti» (Ivi, p. 21). Il suo testo mette in evidenza il carattere nuovo e artificiale della città:

[Dal] suo insieme, dalle strade che nascondono la propria corretta pavimentazione sotto uno strato di conchiglie (che Dio abbia la vista dei passanti!), dalle sue stazioni che ripetono per duecento metri di lunghezza, anche se su due file, il Louvre a Parigi, dai palmizi lungo le strade e nelle piazze, e dalla foresta oscura che cresce tra il porto e la città, si produce oggi una sensazione unica sulla terra, senza la grandiosità delle dimensioni e della distanza, con i dettagli degli edifici pubblici e privati tra i quali non c’è un vecchio muro, un tetto fatiscente, nulla che non sia nato ieri, secondo un piano e una direzione. (Ivi, pp. 22-23)

Alcuni punti nevralgici della città suscitano associazioni fantasmatiche. Il Museo di La Plata, ad esempio, uno dei maggiori simboli cittadini, è un'estrema condensazione di spazio e tempo. «Pregevoli reperti rappresentano l'intero anello biologico conosciuto, che inizia nel mistero originario e, di evoluzione in evoluzione, giunge fino all'uomo» (Blasco Ibáñez, in Ivi, p. 41). Allo stesso modo, attorno a questo sito si congiungono termini distanti come Milward-Ameghino-Chatwin-Herzog; Moreno-Lehmann-Nitsche-Inacayal-Báñez, ecc. Il Museo di Scienze Naturali come punto di intersezione di numerose storie che vengono da lontano e che trascinano quei nomi in molteplici maniere (Deleuze & Parnet, 1980). Nel 1886, ad esempio, a ricoprire gli incarichi di vicedirettore e segretario dell'istituto fu scelto Florentino Ameghino, autore di alcune illustre occorrenze pseudoscientifiche −«una volta attaccò l'intero patrimonio scientifico» (Chatwin, 2014, sp) − . Secondo Bruce Chatwin, Ameghino:

Falsificò le prove per dimostrare che tutti i mammiferi a sangue caldo apparvero in Sud America e migrarono verso nord. Poi si lasciò trasportare dall'entusiasmo: pubblicò un saggio in cui lasciava intendere che lo stesso uomo fosse nato dal suolo patrio, ed è per questo che alcuni circoli mettono il nome di Ameghino alla pari con quelli di Platone e Newton. (Ivi, s.p.)

A proposito dello scrittore inglese, che iniziò il suo viaggio raccontato in In Patagonia (1977) nelle sale dello stesso museo, si può dire quello che scrisse a proposito di un personaggio del libro: «per lui sogno e realtà si erano già fuse ed erano la stessa cosa» (Ivi, sp). È estremamente difficile dissociare, nel testo, tante invenzioni, confuse tra loro in un groviglio inestricabile. In questa letteratura, come in un favoloso labirinto di specchi, i riferimenti si perdono in generici amalgami, mentre la narrazione, posta en abyme, diffrange l'antica demarcazione aristotelica tra arte e storia. Un artificio, questo, praticato da scrittori argentini come Borges, e, tra i più rilevanti degli ultimi decenni, Andrés Rivera, con la sua scrittura politica, o Ricardo Piglia, che ha studiato Storia a La Plata. Gabriel Báñez appartiene allo stesso gruppo. A proposito del suo Jitler, Chitarroni ha scritto:

[L]a esecuzione di un piano narrativo che non perde di vista il precedente disegno di un piano nella realtà, aneddoti e dettagli che non permettono mai che scemi l’interesse, la vibrazione delle fantasie nazionali come guida apparentemente astratta, ma che possiedono una densa concretezza, grazie all'esodo di dettagli che migrano (in Báñez, 2017, p. 10)

Ancor più di Aurora Venturini, la cui opera (Las primas, Las amigas, El marido de mi madrastra o Cuentos secretos, tra gli altri testi) scivola sempre più lontano down the rabbit hole attraverso la sua prosa fantasiosa e fervida, senza che alla fine importi che praticamente tutte le sue trame si svolgano nella «città di Dardo Rocha» (2021, p. 139), come ama scrivere l'autora, Báñez diventa, attraverso un personaggio straniero (l'antropologo tedesco Lehmann -Nitsche) situato nell'ultimo decennio del XIX secolo in prossimità della stazione ferroviaria della città, un narratore acuto e malizioso della vita platense:

La Plata è una città ordinata e strana, collocata dentro un paese ancora più strano. Nelle zone rurali, le persone si accontentano di mangiare viscere di manzo sorseggiando un infuso antigienico che chiamano mate. Qui, dove mi sono temporaneamente insediato, mi sono imbattuto in personaggi stravaganti che hanno il contegno elegante dei funzionari (la maggioranza) e il resto svolgono incarichi di giudici, amministratori, scienziati, scrittori, avvocati e burocrati di tutti i livelli. Persone di un certo lustro ricercano una vita sociale di auspici, come se dietro ogni movimento li attendesse un titolo nobiliare. Devi vederli! Tutti cercano di essere ciò che non sono (Báñez, 2017, pp. 21-22)

In modo simile a quanto accade con il personaggio di questa nouvelle, che evade attraverso un alter ego notturno e licenzioso, liberandosi dalla sequela dei giorni anonimi (e del suo lavoro al Museo de La Plata), grazie alla sperimentazione le fantasie sfrenate dissolvono o volatilizzano la città che, allucinata, si distacca dal regno dei fatti. Questi, dal canto loro, ogni tanto si salvano prima di perdersi «nelle discariche della storia, che a loro volta stanno perennemente crollando nelle discariche del vuoto» (Bolaño, 2004, s.p.). In un primo caso, i passaggi letterari si riferiscono generalmente più a forme di vita (come in tutta la narrativa di Venturini) che agli spazi municipali in cui si svolgono, senza alcuna traduzione semiotica o tentativo di passaggio da un ordine all'altro, nel senso di una «corretta riproduzione dei luoghi della narrazione, degli angoli, dei limiti spaziali» (Handke, 1990, s.p.) della città. Il secondo caso, controparte del primo, riguarda necessariamente la topografia (La casa dei conigli, di Laura Alcoba), anche se un certo frazionamento continua ad operare sul territorio, e la geografia politica comporta sempre una certa cancellazione dei punti cardinali.

In L'avventura di un fotografo a La Plata di Bioy Casares, il personaggio del titolo cerca immagini tipiche della città per comporre un album fotografico per il turismo, tuttavia, il tour di superficie (le descrizioni sono minime) che fa attraverso il circuito di viali, diagonali, strade e piazze non si esaurisce nel compito di produrre semplici cartoline della città. L'ancoraggio urbanistico-architettonico, ancora oggi verificabile (il libro, scritto nel 1985, potrebbe fungere come guida letteraria abbastanza completa della città), cade nello straniamento di un'atmosfera rarefatta: l'immagine del lago nella foresta, «orgoglio da La Plata», che è stato dragato per ritrovare l'arma con cui venne commesso un delitto, convertito in «un quartiere infame»; Plaza Moreno, che fotografata «alla luce del sole, sembrava innevata e spettrale»; oppure «l'incomparabile luce di La Plata, (...) quella nebbia sottile che in alcuni pomeriggi avvolge gli edifici e dona loro un fascino particolare, come l'aculeo dei santi» (Ivi, s.p.). Evidentemente in questa nouvelle nemmeno il catalogo più realistico e sistematico delle attrazioni di La Plata rimane stabile nell’universo della finzione.

Hotel Almagro, un racconto di Piglia presente nel primo volume de I diari di Emilio Renzi (2015), estrae dalla quotidianità un diffuso effetto di irrealtà. Come la vita del narratore, la storia si svolge tra due città (La Plata e Buenos Aires). Nella pensione platense (caratteristica forma abitativa della città), dove soggiorna alcuni giorni alla settimana, il narratore (Renzi?) trova alcune lettere di una donna nascoste in un armadio, «dissimulate in un buco come se qualcuno avesse nascosto un pacchetto di droga» (Piglia, 2015, sp). Leggendole, grazie alle poche informazioni sparse in esse contenute, ricostruisce in modo incompleto una storia (un dramma amoroso). Poi, dimentica la faccenda. Qualche tempo dopo, nella stanza d'albergo che affitta a Buenos Aires, il narratore, spinto da una intuizione, fruga nell'armadio e trova incredibilmente nascoste due lettere scritte da un uomo, che rimarrà sconosciuto, e che sono la risposta alle epistole precedentemente trovate a La Plata. L'inclusione di informazioni dalla biografia dello scrittore (le lezioni che Piglia tiene a La Plata, la pubblicazione del suo primo libro, la menzione del suo editore, ecc.) lavorano fortemente sul lato della realtà mentre la storia narrata si muove nella direzione opposta. In questo senso, il racconto soddisfa uno dei precetti enunciati per il genere del racconto breve da Julio Ramón Ribeyro: «La storia del racconto può essere reale o inventata. Se è reale, deve sembrare inventata e se è inventata, reale» (2019, p. 21).

 Presa dentro questi frammenti, La Plata appare come «l'idea di un luogo, di un nome, di un modo di vivere e di passare» (Nancy, 2013, p. 15). Trapiantate, senza esperienze, a queste risponderanno opportunamente le narrazioni sulla città. Storie che, pur rinunciando quasi completamente all'architettura, collocano «una cittadella nella città» (Venturini, 2021, p. 120). Costruite sulla base di nomi e sintassi, le loro configurazioni sono scritturali, piatte, senza volume, costituiscono proiezioni, parallelismi, dispiegamenti testuali, forme di a-urbanismo, insomma detriti della città. Secondo la lettura critica di Piglia, che vale per molti di questi casi:

«I rapporti della letteratura con la storia e con la realtà sono sempre ellittici e criptati. La finzione costruisce enigmi con materiali ideologici e politici, li maschera, li trasforma, li mette sempre in un altro posto». (Piglia, 2006, s.p.)

Il singolare registro di letteratura non-fiction inaugurato in America Latina da Rodolfo Walsh, che percorrerà come un filo rosso le varie inchieste sulle dittature argentine, è differente. A partire dal momento storico in cui scrive Walsh – mosso da alcuni eventi innescati dal colpo di Stato del 1955, che rovesciò il peronismo al potere – c'è soprattutto una politicizzazione nelle coordinate della città. Almeno a partire da Operación Masacre, lo spazio – il territorio nazionale – diventa un campo di forze impiegate da tattiche e strategie (repressive o di liberazione, a seconda della parte in questione). La narrazione degli eventi è, nel caso di Walsh, la narrazione di un unico teatro di operazioni in cui la dittatura militare di Aramburu controlla la Provincia di Buenos Aires, e la Resistenza peronista, tra spontaneità e organizzazione, compie azioni ribelli con l’ordine di minare ovunque il potere totalitario. I fatti sono ricostruiti attraverso la meticolosa indagine del giornalista, che rivela le circostanze che hanno condotto dalla fallita rivolta rivoluzionaria del generale Valle in diverse zone della città di La Plata, alle esecuzioni illegali di civili nella località di José León Suárez, nella stessa provincia.

La straordinaria opera memoriale che compone La casa de los conejos, così come la sua scrittura, sono dovuti soprattutto all'evidenza degli spazi rivisitati. «Negli stessi luoghi, ho indagato, ho trovato persone. Ho cominciato a ricordare con molta più precisione di prima, quando potevo solo contare sull'aiuto del passato» (Alcoba, s.p.). Questa finzione che parte dall'esperienza diretta di Laura Alcoba, la sua autrice, dimostra quanto sia importante orientarsi o perdersi nella città, una questione che all’epoca diventa decisiva per la vita e la morte di molte persone. La vicenda si svolge a La Plata tra il 1975 e il 1976 − il primo disastroso anno dell'ultima dittatura militare argentina −, tra le operazioni criminali dell'Alleanza Anticomunista Argentina (AAA) e l'ufficialità del genocidio. La realtà minacciosa e paranoica in cui vivono i militanti Montoneros passati alla clandestinità non coincide con la apparente quiete urbana osservata anche il narratrice. Vede passanti, bambini e coppie in Plaza Moreno, la stessa piazza dove è parcheggiata un'auto sinistra da cui qualcuno sta guardando la casa dei nonni. Sembra che ci siano due realtà parallele, anche se una è molto più consapevole dell'altra, forse perché segnata dalla guerra in cui si trova: «anche quando la città è piena di gente che non partecipa di essa e che, in certi casi, sembra addirittura ignorare che esiste. Se solo sembrano ignorarlo, beh, ci riescono sorprendentemente bene» (Ivi, s.p.).

Intere aree della città sono occupate in forma aleatoria dalle forze di sicurezza del governo de facto.

Questa mattina, a pochi isolati da casa nostra, un intero quartiere è stato recintato. Lo fanno in modo che la polizia possa entrare nelle case del perimetro prescelto e perquisirle da cima a fondo, una dopo l'altra. E spesso lo fanno. La durata di queste operazioni è semplicemente imprevedibile. Non si sa mai nemmeno se rimarranno nel quartiere prescelto o se all'improvviso continueranno con quello accanto. A meno che non continuino con un altro quartiere più vicino al centro città. (Ivi, s.p.)

La narrazione descrive il meccanismo di sicurezza attraverso il quale le persone giungono alla casa che dà il nome al libro, in cui l'allevamento dei conigli è una copertura in più, annientata alla fine dai colpi di mortaio dell’operazione militare, durante la quale moriranno tutte le persone che erano presenti, eccetto una neonata, che si crede sia stata “appropriata” [ossia data in adozione illegalmente a famiglie conniventi con la dittatura; di solito il neonato veniva sottratto subito dopo il parto alle madri sequestrate nei centri di tortura e detenzione illegali n.d.T] e non è stata ancora ritrovata. Nessuno conosce l'ubicazione esatta di questo palazzo che nascondeva la principale tipografia dei Montoneros. La militante dell'organizzazione e madre della bimba (che sarà poi la voce narrante) deve chiudere gli occhi quando viene portata lì in macchina da un collega che compie una serie di manovre per disorientarla, mentre la ragazza viene severamente rimproverata dall'autista quando indica innocentemente fuori dal finestrino alcuni luoghi (un angolo dove sua madre le ha comprato una bambola) che ha visto di recente, identificandoli e interrompendo così l'erratica operazione che dovrà essere così ripresa daccapo. Dal canto loro, l'Ingegnere e l'Operaio che costruiscono l' “embute” - la stanza, chiusa e nascosta dietro un finto muro che in realtà è una porta segreta, dove funzionerà la tipografia che produrrà centinaia di copie del quotidiano Evita Montonera − arrivano alla casa segreta e da lì escono nascondendosi sul sedile posteriore di un furgone coperto da una coperta che fornisce «oscurità e mimetizzazione» (Ivi, sp), sia impedendo loro di vedere il percorso e il luogo di destinazione, sia nascondendoli da qualsiasi sguardo esterno. Verso la fine del libro, l'autrice riproduce un comunicato stampa (recuperato a sua volta dal ricercatore Leónidas Chávez) che rivela l'ubicazione (l'isolato situato tra la 29a e la 30a, 55a e 56a strada) della casa che era stata così accuratamente protetta dal militanti, e che continuò a rimanere sconosciuta anche ad alcuni di coloro che vissero lì per mesi. Il romanzo deduce anche il metodo con cui la casa dei conigli venne trovata dai militari, che poterono contare sulla delazione dell'ingegnere che aveva costruito la stanza per nascondere la stampa offset. Ricordando una conversazione su La lettera rubata che ha avuto in situ con l'uomo che in seguito avrebbe tradito i suoi compagni, e grazie alla rilettura del racconto di Poe, la narratrice racconta il modo in cui la casa nascosta venne localizzata e identificata tra tutte le case di tutti i quartieri della città da un elicottero da qualcuno che ne aveva visto solo l'interno, ma «ne conosceva perfettamente il progetto e la costruzione, conosceva anche i materiali di cui era fatta». (Ivi, sp)

Da “bravo giocatore” e da lettore informato, l'Ingegnere aveva trasposto il gioco che Dupin aveva visto eseguire su una mappa nella configurazione di una città reale. Solo cambiò la scala. E la posta in gioco. Se così era, non gli era necessario conoscere il numero della porta di casa e nemmeno il numero civico, perché sapeva leggere, dall'alto del cielo, le linee e le tracce che sarebbero bastate a denunciare a casa. Seppe decifrare le lettere enormi. (Ivi, s.p.)

Le case di sicurezza, la protezione di persone, documenti, armi, ecc., hanno avuto un'importanza cruciale in Argentina per le organizzazioni armate e i gruppi politici a partire dal 1974. L'archivio cinematografico del Cine Peronista La Plata venne portato via dalla città nel 1975 e trasferito in una casa con collocazione imprecisa a Buenos Aires, prima di essere definitivamente nascosto nell'edificio dei Laboratori Alex. L'esistenza e l'integrità del materiale si devono all'efficacia dell'operazione di sicurezza e al silenzio fedele dei membri del gruppo (alcuni di loro non parlarono nemmeno quando furono torturati in carcere). Per diversi decenni, il luogo in cui si trovavano i contenitori del film rimase incerto. L'archivio era costituito da registrazioni cinematografiche di eventi politici (eventi come il ritorno di Perón in Argentina, riprese nelle fabbriche, nelle villas [i quartieri periferici n.d.T], ecc.), avvenuti in diversi quartieri di La Plata, nelle città circostanti e in altre località della Provincia di Buenos Aires.

Esiste ancora un altro tipo di eliminazione dei punti di riferimento spaziali che acquista grande rilevanza negli anni dell'ultima dittatura militare, ma in questo caso dal punto di vista del terrorismo di Stato. Sono gli interni indifferenziati delle stanze di tortura improvvisate (costituite da un letto, un tavolo o semplicemente il pavimento e, fondamentalmente, un pungolo elettrico) o gli esterni suburbani − proprietà disseminate nella periferia della città, di difficile accesso −, aree dismesse o canali fognari.

Il sottomondo della criminalità di stato si svolge a volte ai margini della città, in spazi clandestini dove è possibile stuprare, torturare, assassinare e nascondere corpi. Qualcosa che venne anticipato dal film Rapporti e testimonianze sulla tortura politica in Argentina 1966-1972 (autori vari, 1973). Se non fosse per i titoli che affermano che il film è stato girato a La Plata nel 1972, sarebbe difficile identificare gli spazi dove avvengono le scene, poiché la maggior parte di essi sono prive di segni identificativi. Grazie ad ulteriori informazioni sul film (Peña, 1994, p. 35), è noto che il gruppo di cineasti ha utilizzato alcune aule della Facoltà di Belle Arti per mettere in scena alcune sequenze di tortura. L'edificio, qualche anno dopo (dal 1974), diventerà una vera e propria trappola per tutti coloro che partecipavano a qualche forma di militanza universitaria di sinistra: quegli studenti ritenuti eversivi (Calveiro, 1998) dalle autorità furono marcati e sequestrati sul posto o nelle sue immediate vicinanze.

Prima del colpo di stato del 1976 −che a La Plata portò a un numero di persone desaparecidas considerato tra i più alti del paese (Fabián, 2018, pp. 133-134)−, la città conobbe un'escalation di violenza repressiva – soprattutto da parte, tra gli altri gruppi parastatali di destra, dall'AAA, che determinò la fine del Grupo de Cine Peronista La Plata. Questo gruppo di cineasti militanti, emerso dalla Scuola di Cinema della Facoltà di Belle Arti all'inizio degli anni '70, ha dedicato la sua attività alla politica: la politicizzazione permeava l'università, e la militanza universitaria si riversava all'esterno. Nei film del collettivo si possono vedere i graffiti della FURN (Federación Universitaria de la Revolución Nacional) sulla facciata dell'edificio centrale della Facoltà di Arti, così come le masse che riempiono completamente Piazza San Martín, che si può solo discernere nel tumulto per il monumento osservato dall’alto. Alcune parti della città si possono comunque intravedere in queste registrazioni cinematografiche, ma è praticamente impossibile conoscere l'ubicazione approssimativa dei sindacati, delle unità di base, delle case private, ecc., dove i membri del gruppo organizzavano le proiezioni (semi)clandestine di cinema militante, in cui si proiettavano soprattutto i film dei collettivi Cine Liberación e Cine de la Base.

È possibile che il più trascendentale film platense in grado di aggiornare questi problemi e ad inscriversi nella tradizione del cinema politico di Informes y testimonios… sia Todxs somos López. Donde termina la muerte y comienza la vida (Marcos Tabarrozzi y Nicolás Alessandro, condirettore, 2017) (che contiene anche alcuni archivi del Grupo Cine Peronista La Plata). Il documentario è straordinario per i diversi motivi visivi (e ideologici) che rivelano la città in modi del tutto insoliti. Sicuramente questo è uno dei film degli ultimi anni che meglio mostra La Plata, la sua area urbana o il centro attraverso lunghi percorsi spettrali in cui viene riprodotta una performance sonora come forma di avvertimento alla popolazione a proposito della nuova scomparsa di Jorge Julio López; lo splendore interno del Palazzo Giudiziario e del Passage Dardo Rocha; le piazze occupate dai manifestanti, che si radunano anche fuori dal Comune, chiedendo l'apparizione con vita di López e che traboccano nelle strade. Tuttavia, altre sequenze del documentario colpiscono per l'eccesso del loro significato, rivelando un aspetto nascosto della città: sono le riprese in esterni ad Arana, vicino al campo di concentramento di Pozo de Arana. Gli spazi rurali che la cinepresa percorre con il figlio del desaparecido, che racconta come da bambino giocasse in quei luoghi con il fratello accompagnato dal padre, mentre questi indagava inosservato sul centro di detenzione in cui era passato durante il suo primo sequestro negli anni '70; un'altra formidabile sequenza è realizzata attraverso il montaggio della voce del figlio che ricostruisce il percorso fatto dal padre il 18 settembre 2006, poco prima della sua seconda scomparsa, e dalle immagini di una mappa della città in cui è segnalato il viaggio di López così come la posizione dei testimoni che lo videro quel giorno, alternate ad immagini aeree delle stesse strade percorse durante quel fatidico tragitto; e, infine, nella stessa linea di prova testimoniale, le immagini del fascicolo giudiziario in cui López riconosce i centri di detenzione clandestini in cui venne tenuto prigioniero.

Questi frammenti strappati alla realtà mostrano colui che era stato desaparecido (tra il 1976 e il 1979) e sarebbe scomparso di nuovo (dal 2006 ad oggi) mentre esamina gli spazi adesso anonimi che un tempo erano serviti da campi di concentramento, ricostruendo con grande lucidità e chiarezza gli atti abietti avvenuti in passato. Questi brani costituiscono un documento inestimabile e potente.

Le opere considerate, di cui il romanzo Operación Masacre è il precursore, costituiscono versioni alternative alla storia ufficiale, alla materia pesante e magniloquente dei suoi monumenti e della sua urbanizzazione, ai suoi documenti e istituzioni statali, registri della città burocratica che coprono altre realtà. Queste opere rivendicano una historia de lo oculto; titolo tratto da un formidabile film horror (platense?), realizzato da studenti e laureati della Facoltà di Lettere dell'Università Nazionale di La Plata. Secondo Schwarzböck, il terrore è il genere attraverso il quale l'estetica deve introdursi nel «post-dittatoriale in Argentina» (2017, p. 21). Tuttavia, nel corso dei decenni la città ha prodotto numerosi esempi in cui la realtà si è addentrata in maniera intensiva nel terrificante (dalla saggistica al horror): il famoso Museo, sopra citato, venne ad esempio trasformato da Francisco P. Moreno in una mostra vivente di esemplari umani, un spazio di prigionia per una dozzina di nativi rapiti dopo la “Conquista del Deserto”, tra cui il capo Inacayal [sulla vicenda, vedi il testo di A. Bottinelli su Uzak https://www.uzak.it/rivista/uzak-40-estate-2021/speciale-giovanni/apparire-indigeno-resistenze-restituzione-e-montaggio-utopico.html ], che pose fine alla sua vita suicidandosi; o anche il “fuori campo assoluto” del libro di Chatwin, il cui viaggio attraverso l'Argentina si svolge nel mezzo della dittatura del Proceso, anche se non tiene conto di ciò che veniva devastato in quegli anni. Solo alcune vestigia sono citate in modo “antropologico”, come, ad esempio, i graffiti che ricoprono le pareti del Museo de La Plata, alcuni dovuti a Montoneros, altri appartenenti a gruppi non peronisti: «una marea rossa di frasi di Guevara si diramavano sulla facciata classica» (2014, sp). Si tratta di incursioni di diversa entità che modificarono per sempre il volto della città argentina, mentre la memoria storica della sua popolazione veniva cancellata.

Resti del passato vengono, al contrario, temporaneamente sottratti all'oblio, mentre acquistano visibilità, in e attraverso una molteplicità di manifestazioni artistico/politiche che operano come testimonianze. Tra i memoriali sparsi per la città, ce n'è uno che riunisce le immagini del volto di Jorge Julio López e l'emblematico fazzoletto delle madri di Plaza de Mayo dipinto vicino al nucleo di Plaza Moreno, il punto centrale della città. Funziona come un ricordo dell'ignominia che incombeva su La Plata durante la dittatura militare del 1976 (-1983) e della ferita causata dalla seconda scomparsa dell'operaio e militante Julio López nel 2006; ma anche come simboli politici della memoria incarnati nelle loro figure. Queste iscrizioni sulla superficie della città, allo scoperto, sotto gli occhi di tutti, hanno il loro correlato nello spazio-tempo dell'archivio, protetto da mura, collocato in stanze sotterranee, ecc. Nei suoi diari scritti negli anni vissuti a La Plata (tra il 1960 e il 1965), Ricardo Piglia evoca lo storico argentino Enrique Barba, che trascorse gran parte della sua vita sotto la Galleria Rocha, nell'Archivio della Provincia di Buenos Aires, «tra gli infiniti e molteplici documenti che ricoprono le pareti» (2015, sp).

Le performance si perdono nella notte della città, che segretamente illuminano. Ricordo una conferenza di Adrián Cangi, filosofo e saggista argentino, durante la quale infilò una poesia gauchesca di Leónidas Lamborghini dedicata al mate. La trasfigurazione (cacofonica) in cui sprofondava la voce di Cangi durante la lettura ricordava lontanamente (nel doppio senso di qualcosa che viene da lontano e va considerata secondo le distanze del caso) il tono portentoso di Artaud in Pour en finir avec le jugement de dieu (che conosciamo grazie alla sua registrazione sonora). È accaduto nella galleria Cariño, vicino all'ippodromo della città, in una notte d'estate del 2018. La stessa galleria in cui Valentina Rivas Robles (Varr) ha esposto i suoi bellissimi dipinti.

Il suo è un corpus di opere che prende La Plata come vasta cornice di numerose azioni artistiche: le sue tele sono appese ed esposte (e anche rubate o forse riciclate, come fa instancabilmente la pittrice con immagini e materiali) per le strade, nel Museo Provinciale di Bellas Artes Emilio Pettoruti o, più recentemente, in un gabinetto magico itinerante che si insedia nelle piazze e nei marciapiedi della città facendosi largo attraverso nuovi vasi comunicanti con un pubblico popolare. Altra performance degna di nota è stata la lettura di Kawabata, la escritora, el filósofo travesti y el pez (2015) di Mario Bellatin, che ha accompagnato il suo testo con la proiezione di un video realizzato dall'artista. La presenza ascetica dello scrittore messicano è rimasta nell'oscurità, delineata in controluce dal fascio di proiezione delle immagini video che mostravano stanze distrutte, i ruderi di un'impresa di pompe funebri; una scrittura audiovisiva virtuosa ispirata al Salón de belleza (1994), presentato durante una notte a Malisia. In questa libreria, situata a pochi metri da Plaza Rocha, la notte del 27 maggio 2017 sono state proiettate alcune opere audiovisive, nell'ambito del primo Pantallazo di La Plata. Questo è stato l'ultimo grande evento politico che ha riunito registi, videomaker, case di produzione, insegnanti, studiosi dell’audiovisivo, ecc., che hanno organizzato numerose proiezioni simultanee di cinema locale e nazionale in una miriade di spazi pubblici e privati, diffondendo le loro istanze − la difesa del cinema argentino− per la città. L'iniziativa viene ripetuta l'anno successivo, nella stessa data − che rievoca la giornata del documentarista in omaggio alla figura di Raymundo Gleyzer (regista che ha studiato per un periodo alla Scuola di Cinematografia di La Plata) −. L’iniziativa, replicata poi in diverse parti del paese, ma non avrà lo stesso impatto. Tuttavia, dopo questa esperienza politica, si è consolidato il Movimento Audiovisivo di Platense (MAP).

Il MAP è attualmente composto da Igor Galuk, Paula Asprella, Marcos Tabarrozzi, Nicolás Alessandro, Betiana Burgardt, Marcelo Gálvez, Martín Bastida e Adriana Sosa. I suoi membri stanno svolgendo un lavoro encomiabile, lungo e laborioso che riguarda la scoperta, il restauro, la classificazione, l’indagine e la circolazione dell'archivio cinematografico della Scuola di Cinema dell'Università Nazionale di La Plata (1955-1978). Non è stato, questo, il primo tentativo volto al recupero di questo patrimonio: il Progetto “Indagine sul patrimonio cinematografico del Dipartimento di Cinematografia della Facoltà di Belle Arti. Periodo 1956-1976” di Eduardo A. Russo e Marcelino López; e il seminario sulla Mediateca Fernando Martín Peña costituiscono due esempi precedenti. In effetti, le informazioni raccolte nel libro Escuela de cine Universidad Nacional de La Plata: creación, rescate y memoria (2006) di Carlos Vallina, Romina Massari e Fernando Peña risultarono molto utili per stabilire un primo catalogo del materiale cinematografico.

Il lavoro del MAP è superiore però per grado di avanzamento, concretizzazione e sistematizzazione, che caratterizza sia il lavoro archivistico in generale, legato allo specifico momento storico, sia il peculiare accesso a informazioni, finanziamenti, formazione tecnica, costituzione di reti di lavoro, partecipazione istituzionale, ecc. Il Map si è concentrato nel lavoro di digitalizzazione di numerosi film platensi inediti e la loro diffusione attraverso il canale YouTube del Dipartimento di Arti Audiovisive della Facoltà di Lettere. Il MAP prepara la pubblicazione di un libro, Huellas e historias del cine platense 1955-1978 che include un capitolo dedicato alla storia della prima laurea in cinema. Pur trattandosi di una cronaca storica (scritta da Igor Galuk e dal sottoscritto) senza di note a piè di pagina, non appartiene alla narrativa, a differenza di quanto avvertiva Enrique Barba in una lezione riprodotta da Ricardo Piglia. «Qualsiasi libro di storia che non abbia cinque note per pagina (...) è un romanzo» (2015, s.p.). Al contrario, il MAP (e il suddetto capitolo), intende recuperare la tradizione del cinema La Plata, nonché la storia della nostro corso di studi. In questo senso, il suo (nostro) compito vorrebbe essere più simile alla versione di Jules Michelet dell'opera dello storico:

Mai nella mia carriera ho perso di vista il dovere dello storico. Ho dato a molti morti dimenticati l'assistenza di cui io stesso avrò bisogno. Li ho riesumati per una seconda vita... La storia accoglie e rinnova quelle glorie diseredate; Dà la vita ai morti e li resuscita. La sua giustizia associa coloro che non hanno vissuto nella stessa epoca e offre riparazione a coloro che, apparsi solo per un solo momento, sono poi scomparsi. Adesso vivono con noi... è così che si forma una famiglia, una città comune tra vivi e morti. (Ruiz, 2009, pag. 59)

Attualmente stiamo assistendo a una sorta di rimozione dall’ipnosi che ha permeato gli anni di formazione di diverse generazioni di studenti di Comunicazione Audiovisiva (prima) e di Arti Audiovisive (poi), passati attraverso l'UNLP dopo la riapertura della laurea in cinema di La Plata nel 1992, estinta dalla dittatura nel 1978. Un evento che per un certo tempo e in un certo senso sembrava una sorta di conclusione storica (un’epoca che si chiudeva su se stessa), i cui effetti, però, si sarebbero estesi fino ad almeno tre decenni dopo nei diversi approcci storici al nostro cinema: il libro El silencio de las cámaras di Daniel Fabián (che recupera la storia del Grupo de Cine Peronista La Plata), il lavoro del MAP, la rivista cinematografica Pulsión, ecc. Prima di questo la città, trapassata, a stento era dotata di una memoria esangue, labile, sussidiaria, effetto della grande morte prodotta dagli anni di terrore e di indifferenza o dalla scarsità di conoscenze ed esperienze determinate dalla vita di destra della post-dittatura ( Schwarzbock, 2017). Nonostante ci fossero delle eccezioni (l'eredità di Carlos Vallina, ad esempio, la rivista el extranjero, ecc.) la storia del cinema locale (come la storia in generale) è stata affogata dallo Stato totalitario, per venire più tardi ignorata dallo stato di cose neoliberista. Con il passare del tempo, a La Plata, la storia del cinema si sarebbe però pian piano rianimata.

Nel capitolo 2A: Seul le cinéma delle Histoire(s) du cinéma (1988-1998), Serge Daney dice a Godard: «È chiaro che oggi per uno che ha venti, venticinque anni non è possibile, a meno di passare dieci o quindici anni nelle cineteche, recuperare ciò che non ha visto, inoltre ha più di un asse attorno a cui costruire la propria storia (...)». L'anno in cui terminava la monumentale serie godardiana venne fondato l'unico spazio cittadini che rendesse possibile un uso così corretto del tempo, anche se non si trattava né di una cineteca né di una sala cinematografica (o di una stanza in cui si proiettano copie in video). A seguito del fallimento del videoclub Griffith, specializzato nel cinema classico, la Videoteca Aquilea (che ebbe come padrino Edgardo Cozarinsky) fu inaugurata nel 1998 e ricevette il nome dalla città di Invasión (1968), immaginata da Borges, Bioy Casares e Hugo Santiago: in questo senso, si trattava di resistere attraverso il cinema. Il fondatore e poi amministratore della videoteca, C.G., trasferì in Plaza Islas Malvinas una montagna di videocassette che costituivano il catalogo iniziale dello spazio che andava nascendo. Alla fine del primo periodo della videoteca, corrispondente alla gestione del primo responsabile, con lo sviluppo del dvd, il locale possedeva praticamente le filmografie integrali di Rossellini, Herzog, Wenders, Fassbinder, la Nouvelle Vague e altre “nuove onde” del cinema mondiale e numerosi film di registi classici come Keaton, Lang, Hitchcock, Welles, Ford, Ray, Sirk, Hawks o Preminger.

Il momento storico di transizione tra video analogico e digitale ha portato ad una progressiva e crescente accelerazione del traffico cinematografico: grazie alla cinefilia su internet, negli ultimi anni la videoteca ha acquisito immediatezza, eguagliando qualsiasi centro mondiale per quanto riguarda l'offerta delle novità cinematografiche più recenti. In vent'anni si è passati dal considerare un’impresa l'acquisizione di una copia VHS di Le Mépris ad aggiungere, settimana dopo settimana, gli ultimi titoli di registi come Rivette, Varda, Lynch, Verhoeven, Jarmusch, i fratelli Safdie, Petzold, Almodovar, Scorsese , De Palma, Godard, Panahí, Sokurov, Bela Tarr, Sion Sono, Claire Denis, Loznitsa, Kiarostami, Kaurismaki, Pawlikowski, Ceylan, Ferrara, Apichatpong Weerasethakul, Tsai Ming-liang, Wong Kar-wai, Takeshi Kitano, Raúl Ruiz, Patricio Guzmán, Naomi Kawase, Manoel de Oliveira, tra molti altri registi. La crescita esponenziale del catalogo nel corso dell'ultimo lungo decennio si deve a M.C., storico gestore di questo prodigioso archivio un po' segreto, senza dubbio uno dei più importanti del paese. M.C. possiede una conoscenza così vasta e precisa del cinema giapponese classico e contemporaneo da riuscire a stupire anche il pubblico cinefilo di quel paese asiatico, amante del cinema, soprattutto di quello classico, cercava come un segugio i film che gli venivano richiesti, quasi sempre con risultati soddisfacenti. Non è possibile ricostituire qui il numero o la diversità di film disponibili (ne venivano aggiunte diverse centinaia all'anno). Il compito di arconte è stato infine affidato a un terzo ragazzo, R. S., appassionato di cinema moderno, realizzando così una sorta di dialettica che la pandemia di Covid-19 ha interrotto, in un momento in cui i discorsi sulla morte del cinema non terminavano di dimostrarsi veri. Conservati in una piccola stanza, gli innumerevoli dischi salvaguardano umilmente la storia del cinema mondiale, ma corrono il rischio dell'obsolescenza tecnologica, in attesa che cinefili e amici (come il critico cinematografico Román Ganuza o il poeta Juan Pablo Calleja) si riuniscano di nuovo lungo i viali dandosi appuntamento in questo posto infinito di mistero e meraviglia.

Infine, non c'è (non ci fu) trapasso: all’ora di lasciare la città in subbuglio, ne usciremo come si esce dal cinema; e se, in qualche strano modo, la sua facies inesistente si può intravedere in qualche segno, lo sarà solo grazie ad una fantasia allucinata. Persiste però una certa superstiziosa impossibilità di lasciare La Plata (senza esservi entrati). Vorremmo ad esempio, ancora soffermarci sulla memoria della poesia platense e sulla sua trasmigrazione; vorremmo contemplare la bellezza del fiume nell'opera di Galuk: la città che sgorga verso le sue periferie (Berisso, Ensenada) e scorre ritmicamente e muta come il movimento delle sue acque fluviali

 

 

Testi citati:

 

G. Deleuze, C. Parnet, Diálogos, Valencia, Pre-Textos, 1980.

J. Serna, A. Pons, “Cómo se escribe la microhistoria”, Microhistoria. Las narraciones de Carlo Ginzburg, Granada, Editorial Comares, 2019.

J.-L. Nancy, La ciudad a lo lejos, Buenos Aires, Manantial, 2013.

P. Gianera, D. Saimolovich, “Cronología”, en A. Calveyra Poesía reunida, Buenos Aires, Adriana Hidalgo editora, 2008.

J. Baron Biza, “El arte y la provincia”, Por dentro todo está permitido, Buenos Aires, Caja Negra, 2010.

L. De Diego, La Plata, una geografía literaria, La Plata, Universidad Nacional de La Plata. Facultad de Humanidades y Ciencias de la Educación; Instituto de Investigaciones en Humanidades y Ciencias Sociales; Malisia Editorial, 2019.

B. Chatwin, En la Patagonia, Barcelona, Ediciones Península, 2014.

G. Báñez, Jitler, La Plata, La Comuna Ediciones, 2017.

A. Venturini, Cuentos secretos, Ciudad Autónoma de Buenos Aires, Tusquets Editores, 2021.

R. Bolaño, 2666, Barcelona, Anagrama, 2004.

P. Handke, “Sobre la traducción: imágenes, fragmentos, un par de nombres”, 1990.

A. Bioy Casares, La aventura de un fotógrafo en La Plata, Buenos Aires, Emecé, 1985.

R. Piglia, Los diarios de Emilio Renzi. Años de formación, Barcelona, Anagrama, 2015. Crítica y ficción, Barcelona, Anagrama, 2006.

J. Ramón Ribeyro, “Introducción”, La palabra del mudo, Barcelona, Seix Barral, 2019.

L. Alcoba, La casa de los conejos, Buenos Aires, Edhasa, 2008.

F. Peña, “Dossier Política y cine argentino”, Film, N° 10, 1994.

P. Calveiro, Poder y desaparición: los campos de concentración en Argentina, Buenos Aires, Colihue, 1998.

D. Fabián. El silencio de las cámaras, Ciudad Autónoma de Buenos Aires, Dunken, 2018.

N. Ruiz, N. En busca del cine perdido. “Histoire(s) du cinéma”, de Jean-Luc Godard, Bilbao, País Vasco, Universidad del País Vasco, 2019.



Mínimo imaginario de la ciudad trascordada, alucinada, politizada.

 

¿Para apropiarse de una ciudad abandonada, hay que tocar la puerta con la mano, o

basta con lanzar la jabalina a distancia? (Deleuze & Parnet, 1980, p. 66).

 

Este texto fue escrito lejos de la ciudad de La Plata, sin disponer de una parte fundamental del archivo existente sobre los temas tratados. Las siguientes notas preliminares tienen como objeto algunas obras sumamente relevantes de/sobre aquella ciudad de formación. Por diferentes motivos, otras obras de igual importancia no serán abordadas en este lugar. En el fondo se trata de un escrito que mezcla el gusto personal con el comienzo de una investigación histórica. Su principio constructivo se inspira vagamente en una proposición del historiador Carlo Ginzburg: «El artificio, que se centra en ciertos elementos y no en otros, nos permite captar la riqueza de la realidad» (Serna & Pons, 2019, p.100). Sin embargo, el ensayo, a punto de disgregarse, pareciera articular una inconstante serie de análisis e imágenes; tal como escribe Jean-Luc Nancy (2013, p. 130):

 

ciudad toda instantánea

sin vista de conjunto

sin paisaje sin geografía

instantes pegados

lugares empalmados

junturas inciertas

 

Entre todas las posibles líneas de composición de La Plata como idea, se privilegiarán las de existencia fantasmática, no-ficción y carácter provincial, que, de manera autónoma o entrecruzándose, organizan una cierta imagen de la ciudad; son al menos tres maneras, entre otras, de aquilatarla. Por una parte, como (telón de) fondo −nombre, referencia, decorado, etc.− de ciertas obras de arte que parecen regirse por una estricta ley negativa que afecta al motivo: (según una paráfrasis que combina frases robadas de Schönberg y de Godard) se escribe (filma, pinta o compone) una obra, no lo que representa. Tenues trazas de la metrópolis, fugacidad de sus imágenes deficitarias en la literatura del exiguo corpus revisado, que aun así la toman como escenario de unas historias que la llevan al punto de alucinación (la narrativa de Gabriel Báñez o de Aurora Venturini, por nombrar dos escritores platenses). Entonces, así «vemos deshacerse las imágenes y las ideas, las formas de la ciudad» (Ivi, p. 49); por otra parte, en lo que atañe al dominio de lo fáctico, en la no-ficción −el género atribuido a Rodolfo Walsh por su libro Operación Masacre (circa 1956), cuyo comienzo y parte de su desarrollo se sitúan con exactitud en las calles de esta ciudad− y, lógicamente, también fuera de las pantallas y de los textos; finalmente, en lugar de considerar a La Plata como un ambiente “superprovinciano”, tal como la ciudad se le aparecía al poeta Arnaldo Calveyra (Gianera & Saimolovich, 2008, p.15) en los años 1950, habría que pensarla actualmente como un espacio provincial. En este sentido, es más apropiada la versión de Baron Biza (que en ciertos casos particulares puede no cumplirse perfectamente) sobre el arte provincial en su etapa de madurez: la provincia se comunica «con su metrópolis sin sentimientos de inferioridad y a través de ella con los países centrales>> (2010, pp. 179-180). Empezando sin duda por la belleza geométrica del trazado urbano diagramático y reticular de La Plata, debido a (la oficina de) Pedro Benoit.

Planeación racional y pensamiento mágico (positivismo, masonería, esoterismo) se imbrican en esta ciudad utópica desde su fundación. El hecho de materializar súbitamente la idea de una ciudad en el desierto no solo produjo una perfecta forma superlativa, concretizada en la inmensa extensión de un espacio físico −el casco histórico−, sino que la parte más ficticia de tal empresa comenzó a proliferar. Rastros iridiscentes dimanan desde entonces de la capital de provincia, como si se tratara de espejismos en un erial que esperan agazapados a su observador. Apenas después de la creación de La Plata, en 1882, ya era señalado reiteradamente, entre sus rasgos más notorios, el contraste entre la magnitud del paisaje urbano y su condición despoblada: en palabras de Lupati Guelfi: «las calles inmensas y no muy limpias, abiertas para una multitud hipotética, están desiertas y cubiertas de hierba (…) dijérase que son las vías de una ciudad muerta. » (De Diego, 2019, p. 36).

Evidentemente, la escritura propala sus efectos inciertos sobre la ciudad. Registros y cosas que por principio se deben al dominio de la verdad (o, si se quiere, de lo real) se verán profundamente afectados por lo imaginario, por la carcoma del humor y la ironía, serán exacerbados por fabulaciones o desplazados por mentiras. Una tendencia perfectamente ejemplificada por “La Plata”, “crónica” llena de exageraciones y visiones excéntricas escrita por Sarmiento en 1885: «todo allí, gobierno, pueblo, ingenieros, hacían la mañana con opio, y hacen todo desmesurado, colosal, como para un pueblo de gigantes» (Ivi, p. 21). Su texto destaca el carácter nuevo y artificial de la ciudad:

[D]e su conjunto, de las calles que disimulan su correcto empedrado bajo una capa de conchilla (¡que Dios haya la vista de los transeúntes!), de sus estaciones que repiten en doscientos metros de largo aunque en dos filas el Louvre de París, y de las líneas de palmeras de las calles y plazas, y del bosque sombrío que media entre el puerto y la ciudad, se produce una sensación única hoy en la tierra, sin la grandeza de los tamaños y de la distancia, con los detalles de los edificios públicos y privados entre los cuales no se encontraría una muralla vieja, un techo desvencijado, nada que no haya nacido ayer, bajo plan y dirección. (Ivi, pp. 22-23)

Determinados puntos neurálgicos de la ciudad suscitan asociaciones fantasmáticas. El Museo de La Plata, uno de sus mayores símbolos, por ejemplo, constituye una condensación extrema de espacios y tiempos. «Valiosos ejemplares representan en él todo el anillo biológico conocido, que empieza en el misterio original y, de evolución en evolución, llega hasta el hombre.» (Blasco Ibáñez, en Ivi, p. 41). Asimismo, en torno de este sitio se unen términos distantes entre sí como Milward-Ameghino-Chatwin-Herzog; Moreno-Lehmann-Nitsche-Inacayal-Báñez, etc. El Museo de ciencias naturales como un punto de intersección de numerosas historias que vienen de lejos y que arrastran a esos nombres de múltiples maneras (Deleuze & Parnet, 1980). En 1886, por caso, ejerció los cargos de vicedirector y de secretario de la institución Florentino Ameghino, autor de algunas ilustres ocurrencias pseudocientíficas −«[e]n una ocasión arremetió contra todo el acervo científico» (Chatwin, 2014, s.p.)−. Según Bruce Chatwin, Ameghino:

Adulteró las pruebas para demostrar que todos los mamíferos de sangre caliente aparecieron en América del Sur y emigraron hacia el norte. Y luego se dejó llevar por el entusiasmo: publicó un ensayo en el que sugería que el mismísimo hombre había brotado del suelo patrio, y ésta es la razón por la cual algunos círculos colocan el nombre de Ameghino a la par de los de Platón y Newton. (Ivi, s.p.)

Así y todo, del escritor inglés que comenzó en ese mismo museo su viaje plasmado en In Patagonia (1977) ciertamente puede decirse lo mismo que escribió sobre un personaje de este libro: «para él el ensueño y la realidad ya se habían fusionado y eran una misma cosa» (Ivi, s.p.). Resulta en extremo difícil disociar tantas invenciones, confundiéndose en una maraña inextricable. En esta literatura, a la manera de un fabuloso laberinto de espejos, las referencias se extravían en amalgamas genéricas, mientras que la narración, puesta en abismo, difracta la antigua demarcación aristotélica de arte e Historia. Un artificio practicado por escritores argentinos como Borges, (y, entre los más conspicuos de las últimas décadas) Andrés Rivera, con su escritura política, o Ricardo Piglia, que estudió la carrera de Historia en La Plata. Gabriel Báñez pertenece al mismo grupo. Sobre su Jitler, Chitarroni escribió:

[L]a ejecución de un plan narrativo que no pierde de vista el dibujo anterior de un plan en la realidad, anécdotas y pormenores que no permiten jamás la pérdida del interés, la vibración de las fantasías nacionales como guía en apariencia abstracta, pero que tienen una espesa concreción, gracias al éxodo de detalles que trasladan (en Báñez, 2017, p. 10)

Aún más que Aurora Venturini, cuya obra (Las primas, Las amigas, El marido de mi madrastra o Cuentos secretos, entre otros libros) se desliza cada vez más lejos down the rabbit hole a través de su inventiva y férvida prosa, sin que al final importe que prácticamente todas sus tramas tengan lugar en “la ciudad de Dardo Rocha” (2021, p. 139), como le gusta escribir a la autora, Báñez se vuelve, por medio de un personaje extranjero (el antropólogo alemán Lehmann-Nitsche) situado en la última década del siglo XIX en las cercanías de la estación de trenes de la ciudad, un agudo y malicioso descriptor de la vida platense:

La Plata es una ciudad ordenada y extraña, asentada sobre un país más extraño aún. En las zonas rurales las gentes se satisfacen comiendo vísceras de ganado vacuno mientras sorben una antihigiénica infusión a la que denominan mate. Aquí donde me he instalado provisoriamente he dado con personajes extravagantes que llevan un porte atildado en calidad de funcionarios la mayoría y el resto en comisión de jueces, gerentes, científicos, escritores, abogados y burócratas de todo nivel. Las gentes de cierto lustre procuran una vida social de auspicios, como si detrás de cada movimiento les aguardara un título nobiliario. ¡Hay que verlas! Todos muestran ser lo que no son (Báñez, 2017, pp. 21-22)

De manera similar a lo que sucede con el personaje de esta nouvelle, que se evade a través de un nocturno y licencioso alter ego, librándose de lo anodino de los días (y de su trabajo en el Museo de La Plata) gracias a la experimentación, las imaginaciones salvajes disuelven o volatilizan la ciudad, que, alucinada, abandona el reino de los hechos. Estos, por su parte, son ocasionalmente salvados antes de perderse «en los basurales de la historia, que a su vez se están desplomando permanentemente en los basurales del vacío>> (Bolaño, 2004, s.p.). En un caso, pasajes literarios referidos por lo general más a formas de vida (como en toda la narrativa de Venturini) que propiamente a los espacios municipales donde se desarrollan. Sin traslación semiótica alguna o intento de pasaje de un orden a otro, en el sentido de una «reproducción correcta de los lugares de la narración, los rincones, los límites espaciales» (Handke, 1990, s.p.) de la ciudad; la segunda de las vertientes consideradas, contraparte de la primera, implica necesariamente a la topografía (La casa de los conejos, de Laura Alcoba), incluso si sobre el territorio no deja de operarse un cierto fraccionamiento, aun si la geografía política comporta una cierta borradura de los puntos cardinales.

En La aventura de un fotógrafo en La Plata de Bioy Casares, el personaje referido en el título busca imágenes típicas de la ciudad para componer un álbum de fotografías para el turismo, sin embargo, el recorrido de superficie (las descripciones son mínimas) que efectúa por el circuito de avenidas, diagonales, calles y plazas no se agota en el encargo de producir tarjetas postales de La Plata. El indicativo anclaje urbanístico-arquitectónico, aun hoy verificable (el libro, escrito en 1985, podría funcionar como una guía literaria bastante completa de la ciudad), cae en el extrañamiento de una atmósfera enrarecida: la imagen del lago del bosque, “orgullo de La Plata”, que ha sido dragado para encontrar el arma con la que se cometió un crimen, convertido en «un barrial infame» (Ivi, s.p.); la Plaza Moreno, que fotografiada «al rayo del sol, parecía nevada y fantasmagórica» (Ivi, s.p.); o «la incomparable luz de La Plata, (…) esa niebla sutil que algunas tardes envuelve los edificios y les da un encanto particular, como el nimbo a los santos» (Ivi, s.p.). Como sucede en esta nouvelle, evidentemente, ni el más realista y sistemático catálogo de atracciones platenses permanecerá estable en la ficción.

“Hotel Almagro”, un cuento corto de Piglia que secciona el primer volumen de Los diarios de Emilio Renzi (2015), también extrae de lo cotidiano un difuso efecto de irrealidad. Como la vida del narrador, la historia ocurre entre dos ciudades (La Plata y Buenos Aires). En la pensión platense (característica forma habitacional de la ciudad), donde se aloja algunos días a la semana, el narrador (¿Renzi?) encuentra escondidas en un armario las cartas de una mujer, «disimuladas en un hueco como si alguien hubiera escondido un paquete con drogas» (Piglia, 2015, s.p.). Al leerlas, reconstruye de manera incompleta una historia (un drama de amor) a partir de la escasa información dispersa contenida en ellas. Luego, olvida el asunto. Algún tiempo después, en la habitación de hotel que alquila en Buenos Aires, el narrador, llevado por la intuición, revisa el armario e increíblemente encuentra escondidas dos cartas escritas por un hombre, que permanecerá ignoto, que son una respuesta a las epístolas antes encontradas en La Plata. La inclusión de informaciones provenientes de la biografía del escritor (las clases que Piglia dicta en La Plata, la publicación de su primer libro, la mención de su editor, etc.) trabaja fuertemente en el sentido de la realidad mientras que la historia narrada lo hace en la dirección opuesta. El relato cumple en este sentido uno de los preceptos enunciados para el género del cuento por Julio Ramón Ribeyro: «La historia del cuento puede ser real o inventada. Si es real debe parecer inventada y si es inventada real» (2019, p. 21).

Tomada en estos fragmentos, La Plata aparece como «la idea de un lugar, de un nombre, de una manera de habitar y de pasar» (Nancy, 2013, p. 15). Implantada, sin experiencias, estas serán repuestas oportunamente por las narraciones sobre la ciudad. Relatos que, a pesar de que prescinden casi por completo de la arquitectura, emplazan «una ciudadela dentro de la ciudad» (Venturini, 2021, p. 120). Construidos en base a nominaciones y sintaxis, sus configuraciones son escriturarias, planas, sin volumen, constituyen proyecciones, paralelismos, desdoblamientos textuales, formas de a- urbanismo, en definitiva, detritus de la urbe. De acuerdo con la lectura crítica de Piglia, que se aplica a varios de estos casos:

«Las relaciones de la literatura con la historia y con la realidad son siempre elípticas y cifradas. La ficción construye enigmas con los materiales ideológicos y políticos, los disfraza, los transforma, los pone siempre en otro lugar». (Piglia, 2006, s.p.)

El singular registro de no-ficción inaugurado en Latinoamérica por Rodolfo Walsh, que atravesará como un hilo rojo diversas investigaciones sobre las dictaduras argentinas, es diferente. A partir del momento histórico en que Walsh escribe −movido por ciertos eventos desencadenados a causa del golpe de Estado de 1955, que derroca al peronismo en el poder− hay ante todo politización en las coordenadas de la ciudad. Desde Operación Masacre al menos, el espacio −el territorio nacional− se vuelve un campo de fuerzas tomado por tácticas y estrategias (represivas o de liberación, dependiendo del bando de que se trate). La narración de los eventos es en el caso de Walsh la narración de un singular teatro de operaciones en el que la dictadura militar de Aramburu controla la Provincia de Buenos Aires, y la Resistencia Peronista, entre el espontaneísmo y la organización, realiza acciones insurgentes con el fin de socavar por todas partes el poder totalitario. Los hechos son reconstruidos a través de la minuciosa investigación por el periodista, que devela las circunstancias que llevaron del fallido alzamiento revolucionario del general Valle en diferentes zonas de la ciudad de La Plata a los fusilamientos ilegales de civiles en la localidad de José León Suárez, en la misma provincia.

El trabajo memorístico extraordinario que conforma La casa de los conejos, así como su escritura, adviene sobre todo gracias a la evidencia de los espacios revisitados. «En los mismos lugares, yo investigué, encontré gente. Empecé a recordar con mucha más precisión que antes, cuando sólo contaba con la ayuda del pasado.» (Alcoba, s.p.). Esta ficción que parte de la experiencia directa de Laura Alcoba, su autora, demuestra hasta qué punto es importante orientase o perderse en la ciudad, una cuestión que en la época se torna decisiva para la vida y la muerte de muchas personas. La historia sucede en La Plata durante 1975 y 1976 −el funesto primer año de la última dictadura militar argentina−, entre las operaciones criminales de la Alianza Anticomunista Argentina (AAA) y la oficialización del genocidio. La realidad amenazante y paranoica en la que viven los militantes de Montoneros que han pasado a la clandestinidad no coincide con la apacibilidad urbana que también observa la narradora. Ella ve a paseantes, niños y parejas en la Plaza Moreno, la misma plaza donde se encuentra estacionado un siniestro automóvil desde el que alguien vigila la casa de sus abuelos. Pareciera que hay dos realidades paralelas, aunque una sea mucho más consciente de la otra, quizás porque está marcada por la guerra en que se encuentra: «aun cuando la ciudad esté llena de gente que no participa de ella y que en ciertos casos, incluso, parece ignorar que existe. Si sólo aparentan ignorarlo, bueno, lo consiguen sorprendentemente bien.» (Ivi, s.p.).

Zonas enteras de la ciudad son sitiadas aleatoriamente por las fuerzas de seguridad del gobierno de facto.

Esta mañana, a pocas cuadras de nuestra casa, todo un barrio ha quedado cercado. Lo hacen para que la policía pueda entrar en las casas del perímetro elegido y revisarlas de arriba abajo, una después de la otra. Y lo hacen a menudo. La duración de estos operativos es perfectamente imprevisible. Nunca se sabe, tampoco, si permanecerán en el barrio elegido o si de pronto seguirán con el de al lado. A no ser que sigan con otro barrio más cercano al centro de la ciudad. (Ivi, s.p.)

La narración describe el mecanismo de seguridad por medio del cual las personas llegan a la casa que da nombre al libro, en la que la cría de conejos es una tapadera más, aniquilada al final por el fuego de mortero en un operativo militar, en el que morirían las personas que se encontraban en el lugar, excepto una bebé, que se cree que fue apropiada y no ha sido encontrada todavía. Nadie puede conocer la ubicación de ese inmueble que en realidad esconde la principal imprenta de Montoneros. La militante de la organización y madre de la niña narradora debe cerrar los ojos cuando es trasladada hasta allí en un automóvil por un compañero que realiza una serie de maniobras para desorientarla, mientras que la niña es reprendida con severidad por el conductor cuando inocentemente señala ciertos lugares (una esquina donde su madre le compró una muñeca) que vio recientemente, identificándolos y desbaratando la errática operación que es necesario recomenzar desde el principio. Por su parte, el Ingeniero y el Obrero que construyen el “embute” −la habitación, cerrada y escondida detrás de un falso muro que es en realidad una puerta secreta, en la que funcionará la impresora con la que se producirán cientos de ejemplares del periódico Evita montonera− llegan a la casa secreta y se van de allí en el asiento trasero de una furgoneta cubiertos por una manta que provee «oscuridad y camuflaje» (Ivi, s.p.), impidiendo que ellos vean el trayecto y el lugar de destino, a la vez que los oculta de cualquier mirada exterior. Hacia el final del libro, la autora reproduce una noticia de la prensa (recuperada a su vez por el investigador Leónidas Chávez) que revela la ubicación (la manzana situada entre las calles 29 y 30, 55 y 56) de la casa que fue cuidadosamente protegida por los militantes, que incluso era ignorada por algunos de ellos que vivieron durante meses en el lugar.

En la novela asimismo se deduce el método por el que la casa de los conejos fue encontrada por los militares, quienes contaron con la delación del Ingeniero que construyó la habitación destinada a ocultar la rotativa offset. Recordando una conversación sobre “La carta robada” que mantuvo in situ con el hombre que posteriormente traicionaría a sus compañeros, y gracias a la relectura del relato de Poe, la narradora expone la manera en que la casa escondida fue localizada e identificada entre todas las casas de todos los barrios de la ciudad desde un helicóptero por alguien que solo había visto su interior, pero «conocía perfectamente el diseño y la construcción, conocía hasta los materiales de que estaba hecha» (Ivi, s.p.)

Como “buen jugador” y como lector avisado, el Ingeniero había traspuesto el juego que Dupin había visto realizar sobre un mapa a la configuración de una ciudad real. Sólo cambió de escala. Y la apuesta. Si esto fue así, no debe de haber necesitado conocer, en efecto, el número de la puerta de la casa, ni siquiera el de la calle, porque era capaz de leer, desde lo alto del cielo, las líneas y los trazos que denunciaban la casa. Él supo descifrar las letras enormes. (Ivi, s.p.)

Las casas de seguridad, salvaguarda de personas, documentos, armamento etc., tuvieron en Argentina una importancia crucial para las organizaciones armadas y las agrupaciones políticas a partir de 1974. El archivo fílmico del Grupo de Cine Peronista La Plata fue extraído de la ciudad en 1975 para ser trasladado a una casa de ubicación imprecisa en Buenos Aires, antes de que fuera escondido definitivamente en el edificio de Laboratorios Alex. La existencia e integridad del material se deben a la eficacia del operativo de resguardo, tanto como al silencio acérrimo de los integrantes del grupo que sabían (alguno de ellos ni siquiera habló cuando era torturado en prisión). Durante varias décadas, el paradero de las latas de película permaneció incierto. Conformaban el archivo registros fílmicos de eventos políticos (acontecimientos como la vuelta de Perón a la Argentina, filmaciones en fábricas, en villas, etc.), que tuvieron lugar en diferentes barrios de La Plata, en las ciudades aledañas y en otras localidades de la Provincia de Buenos Aires.

Existe aún otro tipo de eliminación de los puntos de referencia espaciales que adquiere gran relevancia durante los años de la última dictadura militar, pero en este caso desde el punto de vista del terrorismo de Estado. Son los interiores indiferenciados de las salas de tortura improvisadas (que consisten en una cama, una mesa o simplemente el suelo y, fundamentalmente, una picana eléctrica) o bien los exteriores suburbanos −inmuebles situados en las afueras de la ciudad, de difícil acceso−, terrenos abandonados o sumideros. El submundo del crimen estatal sucede a veces en los márgenes de la ciudad, en espacios clandestinos en los que es posible violar, torturar, asesinar y esconder cuerpos. Algo que fue anticipado por el film Informes y testimonios sobre la tortura política en Argentina 1966-1972 (varios autores, 1973). Si no fuera por los títulos que consignan que la película fue hecha en La Plata en 1972, sería difícil identificar los espacios de las escenas, ya que en su mayoría están desprovistos de marcas identitarias. Gracias a información complementaria sobre el film (Peña, 1994, p. 35), se sabe que el grupo de cineastas utilizó unas aulas de la Facultad de Bellas Artes para escenificar ciertas secuencias de tortura. El edificio, pocos años más tarde (desde 1974), constituiría una verdadera trampa para quienes participaban en algún tipo de militancia universitaria de izquierda: aquellos estudiantes considerados subversivos (Calveiro, 1998) por las autoridades eran marcados y secuestrados en el lugar o en sus inmediaciones.

Antes del golpe de estado de 1976 −que en La Plata supuso un número de personas desaparecidas considerado entre los más altos del país (Fabián, 2018, pp. 133-134)−, la ciudad vivió una escalada de la violencia represiva −en la que actuó fundamentalmente la AAA, entre otros grupos paraestatales de derecha− que decidió el final del Grupo de Cine Peronista La Plata. Este colectivo de militantes cineastas, surgido de la Carrera de cinematografía de la Facultad de Bellas Artes a comienzos de los setenta, consagró su actividad a la política: la politización permeaba la universidad, de la misma manera que la militancia universitaria se volcaba hacia el exterior. En sus films pueden observarse las pintadas de la FURN (Federación Universitaria de la Revolución Nacional) en la fachada del edificio central de la Facultad de Artes, así como las masas que llenan por completo la Plaza San Martín, que únicamente se discierne en el tumulto por su monumento observado en la altura. Ciertas partes de la ciudad pueden vislumbrarse en estos registros fílmicos, pero es prácticamente imposible conocer la localización siquiera aproximada de los sindicatos, las unidades básicas, casas particulares, etc., donde los integrantes del grupo organizaron las proyecciones (semi)clandestinas de cine militante en las que sobre todo se exhibieron políticamente films de los colectivos Cine Liberación y de Cine de la Base.

Es posible que la más trascendente película platense abocada a actualizar estos problemas e inscribirse en la tradición del cine político de Informes y testimonios… sea Todxs somos López. Donde termina la muerte y comienza la vida (Marcos Tabarrozzi y Nicolás Alessandro, co-director, 2017) (aunque también incluye algunos archivos del Grupo Cine Peronista La Plata). El documental es extraordinario por diferentes motivos visuales (e ideológicos) que revelan la ciudad de maneras sumamente inusuales. Con seguridad, está es una de las películas de los últimos años que más exhibe a La Plata: el casco urbano o el centro en largos recorridos espectrales en los que se reproduce una performance sonora en tanto forma de aviso a la población acerca de la nueva desaparición de Jorge Julio López; los fastos interiores del Palacio Judicial y del Pasaje Dardo Rocha; las plazas ocupadas por manifestantes, que también se congregan afuera de la Municipalidad, exigiendo la aparición con vida de López y que se desbordan hacia las calles. Sin embargo, otras partes de este documental impactan por la desmesura de su significado, descubriendo una faceta escondida de la ciudad: son las filmaciones exteriores en Arana, en las proximidades del campo de concentración Pozo de Arana.

Los espacios rurales que la cámara recorre con el hijo del desaparecido, que comenta como cuando era un niño jugaba con su hermano en esos lugares, acompañados de su padre, mientras que este investigaba de manera desapercibida acerca del centro de detención por el que había pasado durante su secuestro en los años setenta; otra secuencia formidable se establece por el montaje de la voz del hijo que reconstruye el trayecto que hizo su padre el 18 de septiembre de 2006, justo antes de su segunda desaparición, y de las imágenes de un plano de la ciudad en la que es señalizado el recorrido de López además de la posición de los testigos que lo vieron ese día, que se alternan con imágenes aéreas de las propias calles que conformaron su fatídico trayecto; y, finalmente, en la misma línea testimonial probatoria, las imágenes del archivo judicial en las que López reconoce los centros clandestinos de detención en los que estuvo cautivo.

Estos fragmentos arrancados a la realidad muestran al que había sido desaparecido (entre 1976 y 1979) y lo sería nuevamente (en 2006, hasta la fecha) examinar los espacios otrora concentracionarios, reconstruyendo con gran lucidez y claridad los hechos abyectos que en el pasado acontecieron ahí mismo. Estos pasajes constituyen un documento invaluable y poderoso.

Las obras consideradas, de las que Operación Masacre es precursora, conforman versiones alternativas a la historia oficial, a la materia pesada y magnificente de sus monumentos y su urbanización, a sus documentos e instituciones estatales, registros de la ciudad burocrática que recubren otras realidades. Estas reclaman una historia de lo oculto; título tomado de una formidable película de terror (¿platense?), hecha por estudiantes y egresados de la Facultad de Artes de la Universidad Nacional de La Plata. Según Schwarzböck, el terror es el género por el que la estética tiene que introducirse a lo «postdictatorial en Argentina» (2017, p. 21). No obstante, en todas las épocas la ciudad ha prodigado casos en los cuales la realidad se ha adentrado de manera intensiva en lo terrorífico (de la no-ficción al terror): el célebre Museo, antes mencionado, convertido por Francisco P. Moreno en una exhibición viviente de especímenes humanos, espacio de cautiverio de una decena de indios secuestrados tras la “Conquista del Desierto”, entre ellos el cacique Inacayal, quien terminó con su vida suicidándose; o también el “fuera de campo absoluto” del libro de Chatwin, cuyo viaje por Argentina ocurre en plena dictadura del Proceso, aunque no dé cuenta de lo que estaba siendo arrasado durante esos años.

Solo se mencionan, de manera “antropológica”, algunos vestigios, las pintadas que cubren las paredes del Museo de La Plata, unas debidas a Montoneros, así como otras pertenecientes a agrupaciones no peronistas: «una marea roja de sentencias de Guevara se ramificaba por la fachada clásica» (2014, s.p.). Se trata de desastres de diferente magnitud que modificaron para siempre la faz de la ciudad argentina, mientras que la memoria histórica de su población asimismo fue obliterada.

Restos del pasado son, por el contrario, temporalmente sustraídos al olvido, a la vez que adquieren visibilidad, en y por una multiplicidad de manifestaciones artísticas/políticas que operan como testimonios. Entre los memoriales dispersados por la ciudad, hay uno que reúne las imágenes del rostro de Jorge Julio López y el pañuelo emblemático de las madres de Plaza de Mayo pintadas cerca del núcleo de Plaza Moreno, punto central de la urbe. Funciona como un recordatorio de la ignominia que se cernió sobre La Plata durante la dictadura militar de 1976 (-1983) y de la funesta marca provocada por la segunda desaparición del obrero y militante Julio López en 2006; pero asimismo como los símbolos políticos de memoria encarnados en sus figuras. Estas inscripciones sobre la superficie de la ciudad, a la intemperie, a la vista de todos, tienen su correlato en el espacio-tiempo del archivo, resguardado por muros, situado en habitaciones subterráneas, etc. En sus diarios escritos en los años que vivió en La Plata (entre 1960 y 1965), Ricardo Piglia evoca al historiador argentino Enrique Barba, quien pasó gran parte de su vida debajo de la Galería Rocha, en el Archivo de la Provincia de Buenos Aires, «entre los documentos infinitos y múltiples que cubren las paredes» (2015, s.p.).

Las performances se pierden en la noche de la ciudad, que secretamente iluminan. Recuerdo una conversa de Adrián Cangi, filósofo y ensayista argentino, en la que este infiltró un poema gauchesco de Leónidas Lamborghini dedicado al mate. La transfiguración (cacofonía) en la que la voz se abismó en el lapso de la lectura recordaba lejanamente (en el doble sentido de algo que viene de lejos y que debe considerarse según las distancias del caso) al tono portentoso de Artaud en Pour en finir avec le jugement de dieu (que conocemos gracias a su grabación sonora). Esto ocurrió en Cariño galería, cerca del hipódromo de la ciudad, en una noche estival del año 2018. La misma galería en la que Valentina Rivas Robles (Varr) expuso alguna vez sus bellas pinturas.

La suya es una obra que toma La Plata como vasto escenario de numerosísimas acciones artísticas, sus telas son colgadas y exhibidas (y también robadas o quizás recicladas, como la pintora hace incansablemente con imágenes y materiales) en las calles, en el Museo Provincial de Bellas Artes Emilio Pettoruti o recientemente expuestas en un gabinete mágico itinerante que se establece en plazas y veredas de la ciudad abriéndose paso a través de nuevos vasos comunicantes con un público popular. Otra notable performance fue la lectura de Kawabata, la escritora, el filósofo travesti y el pez (2015) por Mario Bellatin, que acompañó su texto con la proyección de un video también hecho por el artista.

La ascética presencia del escritor mexicano permanecía en la oscuridad, recortada a contraluz por el lampo de las imágenes video que mostraban habitaciones destruidas, las ruinas de un tanatorio; una virtuosa escritura audiovisual inspirada en su Salón de belleza (1994), presentada durante una noche en Malisia. En esta librería, situada a unos metros de la Plaza Rocha, se proyectaron algunas obras audiovisuales la noche del 27 de mayo de 2017, como parte del primer Pantallazo platense. Se trató del último gran evento político que congregó a cineastas, videastas, casas productoras, docentes, investigadores del audiovisual, etc., que organizaron numerosas proyecciones simultáneas de cine local y nacional en una miríada de espacios públicos y privados, diseminando sus demandas −la defensa del cine argentino− a través de la ciudad. La iniciativa se repitió el siguiente año, en la misma fecha −que conmemora el día del documentalista en homenaje a la figura de Raymundo Gleyzer (cineasta que estudió un tiempo en la Escuela de Cinematografía de La Plata)−. Fue replicada en diferentes puntos del país, pero no tuvo el mismo impacto en la ciudad donde se originó. Sin embargo, luego de esta experiencia política se consolidó el Movimiento Audiovisual Platense (MAP).

El MAP se integra en la actualidad por Igor Galuk, Paula Asprella, Marcos Tabarrozzi, Nicolás Alessandro, Betiana Burgardt, Marcelo Gálvez, Martín Bastida y Adriana Sosa. Sus integrantes desarrollaron un encomiable trabajo que involucró sostenidas y laboriosas tareas en relación con el hallazgo, la restauración, clasificación, investigación y puesta en circulación del archivo fílmico de la Escuela de Cinematografía de la Universidad Nacional de La Plata (1955-1978). No se trató de la primera tentativa orientada a la recuperación de este acervo, fue antecedida por otras: el Proyecto “Investigación del patrimonio fílmico del Departamento de Cinematografía de la Facultad de Bellas Artes. Período 1956-1976” de Eduardo A. Russo y Marcelino López; y el Seminario de Mediateca de Fernando Martín Peña. De hecho, la información recabada en el libro Escuela de cine Universidad Nacional de La Plata: creación, rescate y memoria (2006) de Carlos Vallina, Romina Massari y Fernando Peña tuvo una gran utilidad en el establecimiento de una primera catalogación del material fílmico.

Pero el trabajo del MAP resultó superador en cuanto al grado de su avance, concreción y sistematización, algo que puede explicarse por diferentes causas que caracterizan el trabajo archivístico en general y que se relacionan con el momento histórico específico de este caso, así como con su particularidad: acceso a información, financiamiento, formación técnica, establecimiento de redes de trabajo, participación institucional, etc. Su tarea implicó la digitalización de numerosos films platenses inéditos y su divulgación a través del canal de YouTube del Departamento de Artes Audiovisuales de la Facultad de Artes. Por otra parte, el MAP prepara la publicación de un libro: Huellas e historias del cine platense 1955-1978. Este incluye un capítulo dedicado a la historia de la carrera de cine original. Si bien se trata de una crónica histórica (escrita por Igor Galuk y quien suscribe), carece de notas pero no pertenece a la ficción, a diferencia de lo que advierte Enrique Barba en una lección reproducida por Ricardo Piglia. «Cualquier libro de historia que no tenga cinco notas al pie por página (…) es una novela» (2015, s.p.). Al contrario, el MAP (y el capítulo aludido) se propone recobrar la tradición del cine platense, así como la historia de nuestra carrera universitaria. En este sentido, su (nuestra) tarea querría parecerse más a la versión del trabajo del historiador de Jules Michelet:

Nunca en mi carrera he perdido de vista ese deber del historiador. He brindado a muchos muertos demasiado olvidados la asistencia que yo mismo habré de necesitar. Los he exhumado para una segunda vida… La historia acoge y renueva esas desheredadas glorias; da vida a esos muertos y los resucita. Su justicia asocia a quienes no han vivido al mismo tiempo y ofrece reparación a los que sólo habían aparecido un momento para luego desaparecer. Ahora viven con nosotros… así se forma una familia, una ciudad común entre los vivos y los muertos. (Ruiz, 2009, p. 59)

Asistimos en la actualidad a una suerte de purga del hipnótico que impregnó los años de formación de varias generaciones de estudiantes de Comunicación Audiovisual (primero) y de Artes Audiovisuales (después), que pasaron por la UNLP luego de la acuciante recuperación efectuada por la reapertura de la Carrera de Cinematografía de La Plata en 1992, extinguida por la dictadura en 1978. Hito que durante un tiempo y en un cierto sentido (para los inadvertidos) pareció una suerte de conclusión histórica (algo que se cerraba en sí mismo), cuyos efectos, sin embargo, se extenderían por lo menos tres décadas más tarde en diferentes abordajes históricos de nuestro cine: el libro El silencio de las cámaras de Daniel Fabián (que recupera la historia del Grupo de Cine Peronista La Plata), el trabajo del MAP, la revista de cine Pulsión, etc. Antes de esto, la ciudad, trascordada, apenas se inscribía en una memoria exangüe, lábil, subsidiaria de la gran muerte producida por los años de terror y de la indiferencia o bien la escasez de conocimiento y experiencias determinadas por la vida de derecha en la postdictadura (Schwarzböck, 2017). Aunque hubo excepciones (el legado de Carlos Vallina, por ejemplo, la revista el extranjero, etc.) la historia del cine local (como la historia en general) fue anegada por el Estado totalitario, para más tarde ser ignorada en el estado de cosas neoliberal. Con el paso del tiempo, en La Plata, la historia del cine también sería lentamente reanimada.

En el capítulo 2A: Seul le cinéma de las Histoire(s) du cinéma (1988-1998), Serge Daney le dice a Godard: «Está claro que hoy para alguien que tenga veinte, veinticinco años no es posible, salvo que se pase diez o quince años en las cinematecas, recuperar lo que no ha visto, y además tendrá más de un eje en torno al cual constituir su propia historia (…)». El año en que esta monumental serie de videos es concluida, fue fundado el único espacio de la ciudad que haría posible semejante uso propio del tiempo, aun cuando no se trata de una cinemateca ni de una sala de cine (o de una sala en la que se proyecten copias videográficas). Subsiguiente a la quiebra del videoclub Griffith, especializado en cine clásico, la Videoteca Aquilea (que tuvo a Edgardo Cozarinsky como padrino) fue inaugurada en 1998 y recibió el nombre de la ciudad de Invasión (1968), imaginada por Borges, Bioy Casares y Hugo Santiago: se trataba en este sentido de resistir con el cine. El fundador y entonces administrador de la videoteca, C. G., trasladó a Plaza Islas Malvinas una montaña de videocasetes que constituyeron el catálogo inicial del espacio que fue acrecentándose. Antes de concluido ese primer periodo correspondiente a la gestión del primer encargado, con el desarrollo del DVD, el lugar prácticamente contaba con las filmografías de Rossellini, Herzog, Wenders, Fassbinder, la Nouvelle Vague y otras nuevas olas del cine mundial y con numerosas películas de cineastas clásicos como Keaton, Lang, Hitchcock, Welles, Ford, Ray, Sirk, Hawks o Preminger.

El momento histórico de transición entre el video analógico y el digital conllevó una progresiva y creciente aceleración del tráfico de películas: gracias a la cinefilia de Internet, en los últimos años la videoteca ganó inmediatez acompasándose a cualquier centro mundial a la hora de ofrecer las novedades cinematográficas más recientes. En veinte años se pasó de considerar como un hallazgo la adquisición de una copia en VHS de Le Mépris a añadir semana tras semana los últimos títulos de directores como Rivette, Varda, Lynch, Verhoeven, Jarmusch, los hermanos Safdie, Petzold, Almodovar, Scorsese, De Palma, Godard, Panahí, Sokurov, Bela Tarr, Sion Sono, Claire Denis, Loznitsa, Kiarostami, Kaurismaki, Pawlikowski, Ceylan, Ferrara, Apichatpong Weerasethakul, Tsai Ming-liang, Wong Kar-wai, Takeshi Kitano, Raúl Ruiz, Patricio Guzmán, Naomi Kawase, Manoel de Oliveira, entre muchas otras y muchos otros cineastas. El crecimiento exponencial del catálogo durante la última larga década se lo debemos a M. C., encargado histórico de ese prodigioso archivo, aunque algo secreto, uno de los más importantes del país. Alguien que posee un conocimiento sobre cine japonés clásico y contemporáneo tan vasto y preciso que es capaz de deslumbrar al público cinéfilo de ese país asiático. Amante del cine, especialmente el del periodo clásico, buscaba las películas que le pedían como un sabueso, casi siempre con resultados satisfactorios.

No es posible reponer aquí el número ni la diversidad de películas disponibles en el lugar (que sumaban varias centenas por año), que contó con un inagotable reservorio de cine clásico de Hollywood, pero también de todo el mundo. La tarea de arconte fue por último confiada a un tercer joven, R. S., aficionado este al cine moderno, se cumplía así una especie de dialéctica que la pandemia de Covid-19 interrumpió, en un momento en que los discursos sobre la muerte del cine no terminan de probarse verdaderos. Guardados en un pequeño cuarto, los innumerables discos modestamente conservan la historia del cine mundial, pero corren el riesgo de la obsolescencia tecnológica, a la espera de que cinéfilos y amigos (como el crítico cinematográfico Román Ganuza o el poeta Juan Pablo Calleja) confluyan nuevamente por las avenidas hacia ese punto infinito de misterio y asombro.

Finalmente, no hay (no hubo) traspaso: a la hora de dejar la ciudad concitada, saldremos de ella como se sale del cine; y si, de alguna extraña manera, su facies inexistente aparece entrevista en unos signos, no será sino a causa de una imaginación trasnochada. Perdura, sin embargo, cierta imposibilidad supersticiosa para abandonar La Plata (sin haber ingresado allí). Quisiéramos demorarnos en la memoria de la poesía platense y en su transmigración; desearíamos contemplar la belleza del río en la obra de Galuk: la ciudad que se derrama hacia su afuera (Berisso, Ensenada) y transcurre cadenciosamente y muta como el movimiento fluvial de sus aguas.

Textos citados

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