Buenos Aires a partire dal cinema. Visioni, derive e agguati

(Traduzione di Giovanni Festa)

«Non ci siano dubbi: filmare le città scopre il loro mistero»

(J.-L. Comolli La città filmata)

 

Filmare una città impone una doppia dinamica. L'esaltazione del visibile, che organizza la città come spettacolo e avventura conoscitiva: il cinema dispone le sue cartografie di meraviglia e desiderio, esplora spazi abitabili e percorribili, registra il movimento delle folle e le mutevoli relazioni tra pubblico e privato, confronta i dissimili tempi di riposo e di accelerazione. Fornisce così nuovi punti di partenza per il cinema del reale e nuove piattaforme per le più diverse possibilità immaginarie che si aprono in quegli spazi, attraverso quella danza di corpi a velocità multipla, di luci e ombre che interagiscono sullo schermo. E queste stesse ombre aprono il passo sia alle luci della città sia al lato oscuro della vita urbana, che il cinema ha messo a fuoco con altrettanta cura, perché non è solo questione di rivelazione. Ciò che viene mostrato e ciò che viene narrato, nel gioco del campo e del fuori campo, rivela, e nello stesso tempo sostiene e alimenta, nel cinema un indissimulabile resto d’ombra, molto più intensa di quella proiettata dai suoi edifici alla luce del giorno o del buio che popola le sue notti. Ciò che il cinema rivela quando filma la città è, come afferma Comolli nell’epigrafe di questo scritto, né più né meno che il suo mistero.

Il rapporto tra la città abitata e transitata, goduta o subita, e la città vista sullo schermo non è speculare, non c'è niente che possiede quelle corrispondenze sicure caratteristiche di una riflessione. C'è piuttosto un'intera rete di operazioni, che assomigliano ai rapporti tra territori e mappe, e i cui legami oscillano tra descrizione e racconto. In entrambe, nella città fisica e in quella cinematografica, lo spazio si trasmuta in luogo. È necessario ricordare qui una distinzione fondamentale di Stephen Heath quando ha lavorato sullo spazio narrativo del cinema. Lo spazio è quella dimensione misurabile, di indole esterna, che può essere esplorata, anche negoziata, comprata e venduta, cioè appartiene a un ordine rigorosamente oggettivo.

Quello che chiamiamo luogo, invece, è un'estensione connessa a un'esperienza soggettiva, vettorializzata dal rapporto con il soggetto che vi è inscritto. Lì operano il desiderio, l'attrazione o il rifiuto, la percezione e il riconoscimento del proprio e dell’estraneo, l'accogliente e l’ostile. Vivere una città non significa solo riconoscere uno spazio, ma anche essere colpiti dalla forza di un luogo. Le città cinematografiche, come luoghi immaginari, proiettano il loro potere su spazi reali e producono potenti effetti di luogo, che si proiettano chiaramente anche sull'abitare fisico della città. La casa, la strada, il quartiere, il centro e i limiti dello spazio urbano sono contaminati dal cinema, medium che fin dai suoi esordi ha dato conto non solo di un nuovo regime di visibilità dell'urbano, ma tracciò anche, come intimo complice, le coordinate per viverlo in modo diverso.

In questo rapporto tra visibile e invisibile, tra impatto luminoso e mistero che si cela nell’ombra, il cinema raffigura le forme di una città che è più finzione che spettacolo, e lo fa sia nei film cosiddetti “documentari” sia nei film di finzione più avventurosi. In questo senso, la città resa visibile dal cinema, in senso lato, è molto più vicina alla città dei romanzieri che a quella degli architetti o degli urbanisti, o a quella dei sociologi, degli economisti e dei politici. C'è sempre una tensione, uno scarto verso la città come finzione. Gli spazi quotidiani si trasformano in scenari. Le cartografie sono promesse di scoperta o trame di allerta. C'è una vera chiamata a vivere la finzione dispiegata nello spazio. E il legame è reversibile: il risultato è che, nel tempo, le città fisiche iniziano a somigliare alle loro controparti cinematografiche. Buenos Aires non fa eccezione a questa regola generale, e questo fin dai primi film girati dentro il suo territorio.

Il cinema, fenomeno urbano per eccellenza, non poteva non prendere la città come uno dei suoi primi temi filmabili, anche se il primo cortometraggio girato da Eugenio Py nel 1897, La bandera argentina, oggi perduto, secondo le testimonianze si limitava a inquadrare l’asta e la bandiera sventolante nella centralissima Plaza de Mayo davanti al Palazzo del Governo. Il richiamo a un'identità nazionale sullo sfondo del cielo ebbero la meglio, nella mente del regista (un immigrato francese), sulla riproduzione della vita urbana. Poco più tardi i primi cortometraggi argentini registreranno accuratamente le visite dei politici, le celebrazioni e i momenti di svago negli spazi pubblici, in breve la lista abituale di temi in quelle visioni di attualità tipiche dei primordi. Ma in quegli stessi anni Buenos Aires ha iniziato a dispiegare in modo sincrono altre coordinate immaginarie e fittizie, offerte dal teatro, dai testi e dalla canzone popolare, fondamentalmente il tango, che plasmò tipi e archetipi. Ciò ha fatto sì che, durante il cinema muto, il labirinto urbano assumesse una forma sempre più complessa, dal quale oggi abbiamo ereditato una documentazione considerevole, anche se indiretta, ma pochissimi film sopravvissuti.

In realtà, la forma che opera nel rapporto tra cinema e città richiede il labirinto, ma in modo intrecciato. Il cinema prima esplora un labirinto spaziale il cui modello è chiaramente ispirato al XIX secolo. È quello dell'esperienza urbana della modernità nella grande città. Ma nel caso di Buenos Aires questa immagine è indiretta, viene da altre latitudini. Durante il periodo della città dei passages che abbagliarono Benjamin, Buenos Aires era contrassegnata ancora da figure e modalità del grande villaggio coloniale, che solo negli ultimi decenni del secolo cedettero il passo al progetto della città moderna. Sostituendo le strade e i luoghi nascosti o incombenti che rimandavano al grande borgo dell'800, iniziò presto a prendere forma un modello che in un paio di decenni, rapidamente, puntò sulla metropoli e la sua continua agitazione. Questo ci porta dentro un secondo labirinto, che si estende su un piano temporale.

È il labirinto di trasformazioni, tracce, impronte e vestigia che contaminano il presente e risignificano il passato, in un conflitto su vasta scala che a Buenos Aires, come in ogni grande città di recente esistenza, si manifesta in modo particolarmente acuto. Il cinema, sempre attraverso l'azione dei suoi tempi doppi, quello del presente della proiezione e del passato della cattura dell'immagine, e il film, come oggetto di memoria e riapparizione sullo schermo, dota la città di una forma ambigua, installata tra il corpo materiale e il fantasma. Oltre al visibile e all'invisibile, il labirinto del tempo richiede l'iscrizione e la cancellazione, la nostalgia e l'eccitazione per il presente intenso, per la dialettica tra il ricordato e il dimenticato, il rimosso e il suo eventuale ritorno. Non si tratta solo di immagine, ancor meno di rappresentazioni finite, ma di progettazione di reti che catturano una serie di relazioni del visibile, all'interno di una configurazione che ci ricorda che è un non-tutto visibile quello che, nella città filmata, ci attende.

Filmare le strade, i viali, le case, gli spazi pubblici, i negozi e i luoghi di svago e divertimento, tutto questo il cinema lo assunse sin dall'inizio come missione, e ciò è palese nella scelta dei suoi temi. Ma se ha disegnato una cartografia, lo fece in una direzione assolutamente contraria a quella degli schemi e delle visibilità fornite dai poteri che esercitavano il controllo urbano. Fu grazie all'aiuto del racconto letterario, della cronaca giornalistica, del dramma scenico o dei testi del tango che il cinema costruì i suoi luoghi porteños [di Buenos Aires, N.d.T.]. Dalla grande città il cinema trae il movimento costante che lo affascina, il formicaio umano, le vite anonime che si intersecano, i loro arrivi e le loro partenze. Ecco perché una cornice privilegiata per tanti film, al di là delle loro storie particolari, è quella del traffico nel centro urbano e degli spostamenti e dei movimenti della grande stazione ferroviaria o del porto.

La vita in periferia o nella quiete dei vecchi quartieri, in contrasto con l'anonimato dei grandi palazzi e la folla che attraversa i viali, vengono mostrate attraverso un montaggio concitato, la frammentazione delle cornici, la scoperta o il riconoscimento di alcuni luoghi. È impossibile vedere tutto, ogni storia girata nella grande città ci avverte che è solo una tra tante possibili, che è impossibile scorgere lì la totalità: in quel brulicare di tempi paralleli e storie intrecciate solo il parziale può essere visto. La città filmata è la città del desiderio e anche la città del proibito, della fantasia e della trasgressione, di ciò che si vede e di ciò che si sottrae alla vista. Prevalgono, in condizioni uguali, il conosciuto e l'ignoto, l'oggetto del desiderio e il pericolo latente.

Un genere immancabile quando si allude al rapporto tra cinema e città è quello delle sinfonie urbane, quei canti d'amore alla città che forse non sono canti della città vera, ma di quella che risiede nello spirito dei suoi abitanti, o di quella che può fiorire nell'attesa di chi la conosce solo attraverso le sue immagini. Buenos Aires non aveva, nel periodo d'oro delle sinfonie urbane e dei loro canti di esaltazione della modernità, un documento come il brasiliano Sao Paulo: a sinfonia da Metrópole (Lustig & Kemeny, 1929). Nel cinema argentino questi canti alla città si verificano dentr alcune sequenze di generi diversi: commedie, melodrammi, musical o polizieschi. Quando l'ambientazione è la grande città, la dinamica delle riprese in studio, dove il mondo intero cerca di costruirsi in un set, cede occasionalmente a brevi sequenze in cui lo stile narrativo e il montaggio sembrano far rivivere, insieme alla musica, il linguaggio del cinema muto, e la città è presente nell'intrigo e nel gioioso riconoscimento degli spettatori.

Ad esempio, c'è un intenso erotismo latente dell'urbano, che viene percepito e attirato in Muñequita porteña (José Agustín Ferreira, 1931), il primo film sonoro argentino. In questo film, colonna sonora del sistema sound-on-disc di Movietone, una storia sentimentale trova la sua cornice a Buenos Aires già a partire dalle sequenze di apertura, dove la coppia protagonista inizia la sua storia d’amore nel centro della città porteña: al di là di un plot sostanzialmente fondato sugli interni , la città reale prevale anche nel finale, che si svolge nell'area portuale, conferendo alla visione dell'urbano un potere di seduzione pari a quello della storia di fantasia. Nonostante siano andati perduti i dischi della colonna sonora, e con essi i dialoghi (non si conserva nemmeno la sceneggiatura del film), nella dinamica delle immagini è comunque evidente la tensione tra modernità e tradizione. Il restauro della banda visiva di Muñequita porteña rivela la vitale complicità tra città, tango e cinema, levigata da un regista che ha svolto anche un'attività di compositore musicale, innervata sul popolare.

 Il cinema argentino classico, fin dall'inizio del suono, costruì una Buenos Aires progettata in un certo modo su misura, i suoi spazi delimitati appartenevano al campo della scenografia poiché, i film venivano realizzati soprattutto all'interno degli studios. Nonostante gli esterni ripresi nella grande città potessero dare respiro alla finzione durante brevi sequenze, il cinema sonoro tendeva a ricostruire gli spazi sui set. Così per quasi vent'anni vennero progettate quelle visioni di migliaia di abitazioni, spazi di lavoro o di svago ricreati artificialmente. Particolarmente interessante è il fatto che i direttori artistici del cinema argentino fossero anche architetti, per cui la moderna Buenos Aires costruita nei film era un intricato miscuglio di una città reale filmata in rari esterni, che facevano appello all’immagine semi-documentaria, e una sofisticata creazione artificiale di interni o presunti esterni ricostruiti in studio.

Questa miscela rispondeva a un modello di creazione che, nonostante le risorse materiali spesso scarse, aveva i suoi riferimenti nella Hollywood o nel cinema tedesco degli anni Venti. In quel periodo, però, si registrarono anomalie pionieristiche tipiche di una modernità cinematografica attenta al mondo esterno agli studios, come quella de La vuelta al nido (Leopoldo Torres Ríos, 1938). Questo primo film degli studi EFA (società i cui set vennero installati proprio nel centro di Buenos Aires, moderni per risorse tecniche ma non troppo attrezzati per produzioni onerose), racconta una storia in cui il grigiore della vita quotidiana e una crisi di gelosia del protagonista si inserisce nelle dinamiche della città moderna. Con una poetica in parte ispirata a The Crowd (King Vidor, 1928), l'enfasi sui tempi morti e le riflessioni del protagonista perso nella città anonima, il film è stato maltrattato dalla maggior parte della critica e disdegnato dal pubblico.

Tuttavia, per queste stesse caratteristiche, verrà riscoperto due decenni dopo dalla giovane generazione del cinema argentino degli anni Sessanta. Non solo il film mostrava una sensibilità diversa dai canoni del suo tempo in termini di narrazione e rappresentazione, ma le inquadrature della città, nonostante apparissero integralmente solo in alcuni brevi passaggi esterni, elevavano quegli spazi a una tensione drammatica decisiva. L'esteriorità e l’interiorità del personaggio, il macroscopico e il microscopico, venivano combinati per raccontare una crisi esistenziale. Appariva così suggestivamente attiva una certa dimensione dello sguardo cinematografico che André Malraux avrebbe descritto ad André Bazin qualche anno dopo.

Si legge in una lettera dell'8 marzo 1946: «Ciò che mi interessa nel cinema è il mezzo per unire artisticamente l'uomo al mondo (come cosmo) attraverso mezzi diversi da quelli del linguaggio. Puoi sempre far passare la cinepresa attraverso le nuvole e i russi hanno banalizzato questa procedura, ma esistono anche mezzi più sottili e acuti. Se dovessi fare un altro film, le immagini essenziali sarebbero quelle della formica che corre nel mirino della mitragliatrice, cosa che lei ha ben osservato». Malraux ricordava un passaggio evidenziato da Bazin dove più che l'immagine stessa contava quella cura verso il dettaglio quasi impercettibile, quello scrutinio dello sguardo che arriva a un contatto al limite del tattile. Nelle derive urbane di film come questo, queste “immagini essenziali” di una città sono importanti o più importanti di quelle provenienti da vedute aeree o da grandi inquadrature generali: è una città che tocca i corpi e colpisce gli spiriti come un principio attivo. Percorrerli significa esplorare zone interne.

Nella Buenos Aires costruita dal cinema, le derive urbane possiedono un aspetto di sogno ad occhi aperti, di gioiosa passeggiata senza meta con protagonisti personaggi che attivano le loro mappe esistenziali a piedi o a bordo di qualche veicolo (spesso il trasporto pubblico, come estensione degli spazi dell'anonimato rispetto alle automobili caratterizzate da un opposto prolungamento del particolare e del privato); a questo stato se ne oppone un altro, antitetico, che si esprime nelle forme di un vagabondaggio irregolare e angosciante. Dai primi esempi, già citati, di Muñequita porteña come emblema della prima forma e dai passaggi in esterno de La vuelta al nido come esempio della seconda, è possibile verificare la ricorrenza delle due tendenze, che si sono susseguite nel corso degli anni, dai decenni del cinema classico in studio fino alle giovani generazioni del cinema degli anni Sessanta. Sarebbe eccessivo qui cedere alla tentazione della lista dei film, tanto cara alla pulsione cinefila. Ma per mostrare la frequentazione di immagini di Buenos Aires tipica di quegli anni, è possibile accennare ad una critica che Jorge Luis Borges scrisse, con la sua consueta perspicacia anticipatoria, quando recensiva film per la rivista Sur.

A proposito del rilevante film poliziesco La Fuga (Luis Saslavsky, 1937), che si svolgeva sia in un'inconfondibile Buenos Aires sia in contesti rurali, e dove la città era filmata in modo notturno e succinto, Borges evidenziava: «Saslavsky ci perdona il Congresso, il porto del Riachuelo e l'Obelisco», entrambe icone che già abbondavano sul grande schermo, anche se, curiosamente, l'ultimo era stata inaugurato solo un anno prima. Come significativa informazione a margine va notato che la costruzione dell'obelisco di Buenos Aires fu accompagnata dalle riprese di un cortometraggio molto interessante di Horacio Coppola, fotografo e regista che aveva partecipato al Bauhaus, e che realizzò quel film a nome delle autorità di Buenos Aires, per una mostra mai realizzata e poi a lungo dimenticata, fino alla sua riscoperta e all’attuale diffusione.

Así nació el obelisco (1936), in soli 5 minuti e senza suono, nello stile delle sinfonie urbane, permette di osservare non solo le alternative alla costruzione del monumento, ma soprattutto un dialogo con una città in ammodernamento accelerato, e sebbene non arrivi a mostrare l'obelisco finito, permette di osservare dalla sua sommità i grattacieli che cominciano ad apparire in mezzo al «viale più largo del mondo», come la gente di Buenos Aires è solita ripetere da generazioni. Negli anni Cinquanta, nell'ultimo decennio del cinema in studio, queste sequenze che si sporgono sulla città reale tendono a moltiplicarsi. Pioniere di questa tendenza fu un teso film poliziesco, Apenas un delincuente (Hugo Fregonese, 1949), definito «una storia della città»: facendo appello allo stile semi-documentario, venne girato in gran parte all'interno del Penitenziario Nazionale, oggi demolito, che era situato nel nord di Buenos Aires. Molte delle sue scene di strada furono riprese con cineprese nascoste in diversi scenari della capitale.

L’idea di filmare una Buenos Aires reale che costituisse il punto di partenza per la finzione, sporadicamente accennato negli anni del cinema in studio, viene perseguito con la massima enfasi dalla cosiddetta generazione degli anni Sessanta, una nuova onda che, in sintonia con altri nuovi cinema di quegli anni ad altre latitudini, filma la città facendone la protagonista privilegiata. Si possono evidenziare, tra i tanti, i film di David José Kohon, che in Tres veces Ana (1961) e soprattutto in Breve Cielo (1969) mise in scena drammi intimi, dove i giovani dell'epoca guardano all'amore, all'incomprensione o alla disperazione esistenziale, in un tono che segna evidenti consonanze con gli Antonioni di quegli anni.

È necessario segnalare il 1969 come momento privilegiato dell'incontro tra Buenos Aires e il cinema. Oltre al già citato film di Kohon, quello è anche l'anno dell'imprescindibile Invasión (Hugo Santiago) e di Tiro de gracia (Ricardo Becher). Il film di Santiago, con una trama di Jorge Luis Borges e Adolfo Bioy Casares, narra di un gruppo di porteños all'antica, che anacronisticamente, con stile e codici d'altri tempi, resistono a un'invasione tecnocratica e anonima che devasta la città dall’aria, dal fiume e dai suoi confini terrestri. In Invasión la città non è esattamente Buenos Aires, ma una città mitica, molto più limitata, chiamata Aquilea. Ma le sue immagini sono inconfondibilmente quelle della capitale, la stessa mappa ha contorni simili. In un tono che mescola la storia laconica di un film di genere americano stilizzato con l'immagine e il suono tipiche dell'ascetismo di Robert Bresson, Invasión rielabora le mitologie urbane e le rilancia in nuove prospettive distopiche, che possono essere apprezzate anche in senso visionario, nonostante il film sia ambientata in un ipotetico 1957.

Per molti anni, fino all’era recente dei supporti digitali,  è stato un film maledetto e si tratta di un’opera imprescindibile per qualsiasi confronto tra cinema e Buenos Aires. Questo vale anche per l’appartato Tiro de gracia, dove parteciparono alcuni intellettuali e artisti della Buenos Aires dell'epoca per raccontare la deriva, edonista e angosciosa, di un gruppo di giovani nella città seducente e sinistra. Non è solo una cronaca della modernità di Buenos Aires in un'enclave fondamentale del centro cittadino oggi scomparsa, ma anche, con una colonna sonora che rimanda ai tempi della fondazione del rock argentino, un film che entra nei suoi sogni e nei suoi incubi, anticipando la violenza sociale e politica che avrebbe caratterizzato il decennio successivo.

Da quanto si è detto si evince che il fascino e l'esaltazione della città moderna, o la nostalgia dei tempi passati, le derive del cinema classico e moderno girato in Argentina, hanno avuto un palcoscenico decisivo a Buenos Aires, al punto che la grande città-porto costruì un immaginario che prevalse in modo quasi totalizzante, ostacolando il consolidamento cinematografico di altre città fino ad anni recenti Questa città sognata, desiderata e vissuta negli spazi fisici, secondo i segni dati dallo schermo, ha le sue tensioni e zone di oscurità. Alcuni dei titoli citati di seguito si ramificano da una prospettiva che non disdegna l'infausto: l’agguato ha infatti anch’esso un posto nei modi in cui Buenos Aires è stata vista a partire dal cinema.

Questa è la prospettiva condivisa da uno dei film chiave del nuovo cinema argentino degli anni '90: Pizza, birra, faso (1998, Adrián Caetano e Bruno Stagnaro), che inizia come un'incipiente sinfonia urbana per concentrarsi, pochi minuti dopo, sulla cronaca di un'aggressione, in un dramma di strada la cui asprezza rievoca quella di Los olvidados (Luis Buñuel, 1950). I giovani marginali di Pizza, birra, faso compiono il loro crimine in una Buenos Aires ostile, che li soffoca e insieme fornisce loro gli elementi per sopravvivere, da un punto di vista che delinea come negativi i luoghi comuni e riconoscibili della città. L’obelisco, onnipresente nel cinema di Buenos Aires, diventa qui teatro di un'avventura squatter, dove i protagonisti entrano nel monumento e ne raggiungono la cima, per poi osservare la città dal più insolito dei margini.

Quella nel cortometraggio di Horacio Coppola era stata una ripresa istituzionale trova qui una controparte inaspettata, notturna e sovversiva, quasi un manifesto dello smantellamento di certe convenzioni di rappresentazione che una buona parte del giovane cinema argentino proponeva allora, al di là del fatto che, da quel punto in avanti, non è poi riuscito a proseguire in tale direzione in forma coerente.

A coronamento di questo viaggio, vale la pena citare un eccezionale film dell'ultimo decennio, che rinnova questa dimensione di agguato che, rimasta a lungo attiva a Buenos Aires, si intensifica a tratti e, anche se limitata soprattutto alla narrativa poliziesca, arriva al suo parossismo sul piano politico durante l'ultima dittatura. La città assediata, abitata da un'infinità di sguardi che scrutano la vita quotidiana, il transito e le azioni del comune viandante, è stata ritratta in modo unico ne La larga noche de Francisco Santis (Francisco Márquez e Andrea Testa, 2016), al punto da delineare una vera psicogeografia della paura urbana, che è inequivocabilmente porteña.

Basato su un romanzo scritto nel 1984 da Humberto Constantini, il film di Testa e Márquez si basa sulla sublimazione di una dimensione fobica inerente alla messa in scena. D'altra parte, il film ha saputo tendere al massimo e rafforzare il rapporto tra estetica e politica essendo, insieme, un film politico e un film horror. Le peregrinazioni del suo protagonista Francisco Sanctis, sia nel romanzo originale che nel film, tracciano una mappa della città durante la dittatura. Nel romanzo questo peregrinazione percorre spazi caratteristici, localizzabili nella geografia della città reale. Nel film, invece, gli stessi luoghi sono messi in scena con un tale grado di stilizzazione da diventare ambientazioni da incubo, con dimensioni e interconnessioni instabili. Il fuori campo, le risorse ottiche dello sfocato, l'oscurità e le ellissi tra un settore e l'altro costruiscono una Buenos Aires condensata in linee essenziali, così come alcuni esempi di film horror o noir seppero farlo in un altro quadro di genere. Gli spazi sono si riconoscibili, ma tutto minaccia di diventare segno di qualcos'altro, e ogni segno si tramuta in un pericolo imminente e palpabile.

 In questo film, Buenos Aires è diventata un labirinto notturno e mortale durante il periodo più brutale della repressione militare. Una violenza ovattata invade ogni spazio e i riferimenti urbani rimangono identificabili, sebbene la rarefazione imponga continuamente un regime di visione che non riguarda solo la relazione tra il protagonista e ciò che lo circonda, ma anche la percezione della città da parte dello spettatore. Si tratta, senza dubbio, della paura, ma non della paura che nasce come risposta immediata a un evento specifico, quanto piuttosto di una paura continua, gestita politicamente, accompagnata da un offuscato senso di colpa. Come ha giustamente sottolineato Jean Delumeau, la politica della paura è sempre accompagnata da un oscuro progetto di colpabilità.

E così Francisco Sanctis si muove dentro la sua stessa notte, cercando di avvertire qualcuno che non conosce di qualcosa che ha scoperto per caso: stanno per arrestarlo per convertirlo in un'altro desaparecido. Ne La larga noche de Francisco Sanctis c'è anche quella forma di affetto che Patrick Boucheron ha chiamato paura brechtiana, ispirata dall'emozione descritta in Terrore e miseria del Terzo Reich. Non si tratta della paura suscitata da un evento improvviso o da un rischio imminente, ma di una lenta catastrofe, che sgretola lo spirito in un quadro di banalità, e che si nota particolarmente nel linguaggio. Buenos Aires è quindi la città della paura lenta, brechtiana, attaccatasi al protagonista e agli spettatori.

La Buenos Aires costruita da questo film configura una psicogeografia la cui messa in scena opera dal campo del visibile, ancor prima che un'immagine si sedimenti come rappresentazione. Il protagonista viaggia così dal centro ai quartieri popolari, e da lì ai margini della capitale, dove gli spazi urbani, i fantasmi e i reali rischi della repressione, del pericolo e della lenta paura si fondono, facendo dell'ultimo tratto del film un'incursione di Francisco Sanctis in uno spazio che, senza cessare di appartenere alla quotidianità, diventa mutevole come la Zona di Stalker. Il gioco tra visibile e invisibile designa la presenza di un potere che si cela in ogni sguardo, in ogni angolo.

Infine, il film di Testa e Marquez offre al protagonista la forma di evocare la paura attraverso una decisione solitaria, che è nello stesso tempo politica ed etica. Evocare la paura non per attenuarla o placarla, ma per renderla compatibile con la necessaria dose di lucidità affinché si possa confrontare con un vero oggetto. Quello che Invasión aveva mostrato in un registro distopico ed epico infinito, quello che Pizza, birra, faso prelevava dal film criminale aprendolo alla critica sociale, si espande ne La Larga Noche di Francisco Sanctis in un'operazione che traduce la città, al di là della ricostruzione storica, in uno spazio allarmato da una dimensione politica e tragica.

Insomma, questa città così vasta e intensamente filmata, lungi dal cristallizzarsi nelle ripetizioni del luogo comune, resta un campo di operazioni aperto per il cinema. Buenos Aires non smette, dopo ogni tentativo cartografico, di riconfigurarsi assumendo nuove sfumature, e mantenendo inalterati la sua vita e il suo mistero.




Buenos Aires, a partir del cine. Visiones, derivas y acechos

“Que no quepa duda: filmar las ciudades nos descubre su misterio”

Jean-Louis Comolli

La ville filmée

 

Filmar una ciudad impone una doble dinámica. Por un lado apunta a la exaltación de lo visible, la constituye en tanto espectáculo y aventura cognitiva. El cine dispone sus cartografías de asombro y de deseo, explora espacios habitables y transitables, registra el movimiento de multitudes y las relaciones cambiantes de lo público y lo privado, coteja los tiempos disímiles del reposo y la aceleración. Brinda así nuevos puntos de partida para el cine de lo real y plataformas para las más diversas posibilidades ficcionales que se abren en esos espacios, esa danza de cuerpos y velocidades, de luces y de sombras interactuando en pantalla. Y esas mismas sombras abren paso tanto a las luces de la ciudad como a la parte oscura de la vida urbana, que el cine ha enfocado con igual cuidado, porque no se trata solamente de un asunto de revelación. Lo mostrado y lo narrado, en el juego del campo y del fuera de campo, revela pero a la vez sostiene y alimenta en el cine un indisimulable dejo de sombra, que es mucho más intensa que aquella arrojada por sus construcciones bajo la luz del día o la que puebla sus noches. Lo que el cine revela al filmar las ciudades es, como afirma Comolli en el acápite de este escrito, es ni más ni menos que su misterio.

La relación entre esa ciudad que se habita y transita, que se goza o padece, y la ciudad vista en pantalla no es especular, no hay allí nada que posea esas correspondencias seguras que son propias de un reflejo. Más bien existe todo un entramado de operaciones, que hacen a las relaciones entre territorios y mapas, cuyos vínculos oscilan entre la descripción y el relato. En ambas, en la ciudad física y la cinematográfica, el espacio se trasmuta en lugar. Es preciso recordar aquí una distinción fundamental que alguna vez trabajó Stephen Heath al indagar el espacio narrativo propio del cine. El espacio es esa dimensión mensurable, de índole exterior, que se puede recorrer, incluso negociar, comprar y vender, esto es, pertenece a un orden rigurosamente objetivo. En cambio, lo que llamamos lugar es una extensión conectada con una experiencia subjetiva, vectorizada por la relación con el sujeto que allí se inscribe. Allí operan el deseo, la atracción o el rechazo, la percepción y el reconocimiento de lo propio y lo ajeno, lo acogedor y lo hostil. Vivir una ciudad no implica solamente reconocer un espacio, sino ser afectado por el poder de un lugar. Las ciudades cinematográficas, como lugares imaginarios, proyectan su poder sobre los espacios reales y producen poderosos efectos de lugar, que incluso se proyectan nítidamente en el habitar de la ciudad física. El hogar, la calle, el barrio, el centro y los confines del espacio urbano, son contaminados por el cine, un medio que desde sus propios comienzos no sólo dio cuenta de un nuevo régimen de visibilidad de lo urbano, sino que, como íntimo cómplice, trazó coordenadas para vivirlo de un modo distinto.

En esa relación entre lo visible y lo invisible, entre el impacto luminoso y el misterio en las sombras, el cine traza las formas de una ciudad que es más ficción que espectáculo, y lo hace tanto en los films llamados documentales como en las ficciones más aventuradas. En ese sentido, la ciudad que hace visible el cine, en sentido amplio, está mucho más cerca de la ciudad de los novelistas que la de los arquitectos o urbanistas, o la de los sociólogos, economistas o políticos. Siempre hay una tensión, un desplazamiento hacia la ciudad como ficción. Los espacios cotidianos mutan en escenografías. Las cartografías son promesas de descubrimiento o trazados de alerta. Hay allí un verdadero llamado a vivir la ficción desplegada en el espacio. Y el vínculo es reversible, por lo cual, con el tiempo, las ciudades físicas comienzan a asemejarse a sus pares cinematográficas. Buenos Aires no será la excepción a esa regla general, desde las primeras películas filmadas en su territorio. El cine, fenómeno urbano por excelencia, no podía dejar de tomar la ciudad como uno de sus primeros temas filmables, aunque el primer corto filmado por Eugenio Py en esta ciudad en 1897, La bandera argentina, hoy perdido, según los testimonios de la época se limitó a recortar el mástil y la bandera flameando en la céntrica Plaza de Mayo frente a la Casa de Gobierno. El reclamo de una identidad nacional con el fondo del cielo prevaleció como primera película para el inmigrante francés, antes que el registro de la vida urbana. Poco más tarde, los primeros cortos argentinos ya registraban con esmero las usuales visitas de políticos, las celebraciones y las actividades de momentos de ocio en espacios públicos, en fin, la lista habitual de temas en aquellas vistas de actualidades propias de los tiempos pioneros. Pero en esos mismos años, Buenos Aires comenzaba a desplegar sincrónicamente otras coordenadas imaginarias y ficcionales, ofrecidas por el teatro, las letras y la canción popular, fundamentalmente el tango, que moldeó tipos y arquetipos. Esto hizo que el laberinto urbano cobrase una forma crecientemente compleja durante el cine silente, de la que hoy hemos heredado una documentación considerable aunque indirecta, pero muy pocas películas sobrevivientes.

En realidad, la formación que opera en la relación entre cine y ciudad convoca a lo laberíntico, pero de modo entrelazado. Por un lado el cine explora un laberinto espacial cuyo modelo se asienta claramente en el siglo XIX. Es el de la experiencia urbana de la modernidad en la gran urbe. Pero en el caso de Buenos Aires esta imagen es indirecta, viene de otras latitudes. Durante el tiempo de la ciudad de los pasajes que encandilara a Benjamin, Buenos Aires aún acarreaba figuras y modalidades de la gran aldea colonial, que sólo fue dejando paso en las últimas décadas de la centuria al proyecto de la ciudad moderna. Reemplazando las calles y parajes morosos o acechantes que remitían a la gran aldea del siglo XIX, pronto comenzó a delinearse un modelo que en un par de décadas, aceleradamente, apuntó a la metrópolis y su agitación constante. Y eso trae a cuestión al segundo laberinto, que se extiende en un plano temporal. Es el laberinto de las transformaciones, las trazas, las huellas y vestigios que contaminan el presente y resignifican un pasado, en un conflicto a escala masiva que en Buenos Aires, como en toda gran ciudad de corta vida como tal, se manifiesta en forma especialmente agudo. El cine, siempre con la acción de sus dobles tiempos, el del presente de la proyección y el pasado de la captura de imagen, y la película, como objeto de memoria y de reaparición en pantalla, otorga a la ciudad una forma ambigua, instalada entre el cuerpo material y el fantasma. Además de lo visible y lo invisible, el laberinto del tiempo llamó a la inscripción y al borramiento, a la nostalgia y la excitación por el intenso presente, a la dialéctica entre lo recordado y el olvido, lo reprimido y su eventual retorno. No se trata solamente de una cuestión de imagen, menos aún de representaciones acabadas, sino del diseño de redes que capturan una serie de relaciones de lo visible, dentro de una configuración que nos recuerda que es un no-todo visible eso que en la ciudad filmada nos aguarda.

Filmar las calles, las avenidas, las viviendas, los espacios públicos, los comercios y los lugares del ocio y diversión, todo eso tomó el cine como misión desde sus mismos comienzos en la elección de sus temáticas. Pero si trazó una cartografía, lo hizo en un sentido absolutamente contrario al de los trazados y visibilidades previstas por los poderes que ejercen el control urbano.

Fue con la asistencia del relato literario, la crónica periodística, el drama escénico o las letras del tango que el cine construyó sus lugares porteños. De la gran ciudad, el cine toma ese movimiento constante que lo fascina, el hormiguero humano, las vidas anónimas que se entrecruzan, sus llegadas y partidas. Por eso un escenario privilegiado de tantos films, más allá de sus historias particulares, es el del tránsito en el centro urbano y los movimientos de la gran estación ferroviaria o los puertos. La vida en los suburbios o en la apacibilidad de los viejos barrios, contrastada con el anonimato de los grandes edificios y las muchedumbres que cruzan las avenidas son atendidas con el montaje agitado, la fragmentación de los fotogramas, el descubrimiento o reconocimiento de las locaciones. Resulta imposible verlo todo, cada historia filmada en la gran ciudad advertirá que sólo es una más entre tantas, que es imposible ver allí la totalidad, en ese enjambre de tiempos paralelos, historias entrelazadas sólo se puede ver lo parcial. La ciudad filmada es la ciudad deseante y también la ciudad de lo prohibido. La del deseo y la transgresión, de lo que se ve y de lo que se oculta. Imperan allí, en iguales condiciones, lo conocido y lo desconocido, el objeto del deseo y el peligro latente.

Un género inevitable cuando aludimos a la relación entre cine y ciudad, es el de las sinfonías urbanas, esos cantos de amor a la urbe que no son tal vez cantos a la ciudad real, sino a aquella que reside en el espíritu de sus habitantes, o la que puede sembrarse en la expectativa de aquellos que no la conocen más que por sus imágenes. Buenos Aires no tuvo, en los años de apogeo de las sinfonías urbanas y sus cantos de exaltación de la modernidad, una pieza como la brasileña Sao Paulo: a sinfonia da Metrópole (Lustig & Kemeny, 1929). En el cine argentino esos cantos a la ciudad se verifican en ciertas secuencias a lo largo de distintos géneros: comedias, melodramas, musicales o  policiales. Cuando el escenario es la gran urbe, la dinámica de la filmación en estudios, donde el mundo entero intenta construirse en un set, cede ocasionalmente a breves secuencias donde el estilo narrativo y el montaje parecen revivir, junto a la música, el lenguaje del cine mudo, y la ciudad se hace presente en la intriga, y en el gozoso reconocimiento de los espectadores.

Por ejemplo, hay un intenso erotismo latente de lo urbano, que se percibe y fascina en Muñequita porteña (José Agustín Ferreira, 1931) el primer film sonoro argentino. En esta película, sonorizada por el sistema sound-on-disc de Movietone, una historia sentimental se enmarca en Buenos Aires desde sus secuencias iniciales, donde la pareja protagónica inicia su relación en el centro de la urbe porteña y más allá de un transcurso fundamentalmente fundado en interiores, la ciudad real también se impone en el final, que transcurre en la zona portuaria, dando a la  visión de lo urbano un poder de seducción que se iguala al de su historia ficcional. A pesar de que los discos que contenían el sonido se perdieron, y con ellos los diálogos, ya que no se conserva el guion del film, la tensión entre modernidad y tradición se evidencia en la dinámica de las imágenes. La restauración de la banda visual de Muñequita porteña deja ver la vital complicidad entre ciudad, tango y cine, pulida por un cineasta que también sostenía una actividad de compositor musical, fundada en la mirada sobre lo popular.

El cine clásico argentino, desde los comienzos del sonido, construyó una Buenos Aires diseñada en cierto modo a medida, ya que en cuanto a los espacios acotados perteneció al campo de las escenografías, ya que en lo posible las películas intentaban realizarse dentro de los estudios. A pesar de que los exteriores tomados en la gran ciudad podían dar aire a las ficciones durante cortas secuencias, el cine parlante tendió a recrear los espacios en los sets. Así fueron diseñadas esas visiones de tantos hogares, espacios de trabajo o esparcimiento artificialmente recreados durante casi veinte años. Es especialmente interesante el hecho de que los directores de arte del cine argentino solían ser arquitectos, por lo cual la Buenos Aires moderna que se construía en los films era una intrincada mezcla de ciudad registrada en algunos exteriores, que incluso apelaba a lo semidocumental en algunos pasajes, y una sofisticada creación artificial de interiores o de presuntos exteriores pero reconstruidos en estudio, en otros momentos. Esa mixtura respondía a un modelo de creación que, pese a los recursos materiales frecuentemente escasos, tenía sus referentes en Hollywood o el cine alemán de los años veinte. En ese período, no obstante, hubo anomalías pioneras en una modernidad cinematográfica atenta al mundo fuera del estudio, como el de La vuelta al nido (Leopoldo Torres Ríos, 1938). Esta primera película de los estudios EFA, empresa cuyos sets estaban instalados en pleno centro porteño, moderna en sus recursos técnicos aunque no demasiado provista para las producciones onerosas, narra una historia donde la grisura de lo cotidiano y una crisis de celos de su protagonista se encuadran en la dinámica de la ciudad moderna. Con su poética en parte inspirada en The Crowd (King Vidor, 1928) y su énfasis en los tiempos muertos y las cavilaciones de su protagonista perdido en la ciudad anónima, la película fue ante su estreno maltratada por la mayor parte de la crítica y desdeñada por el público. No obstante, por esos mismos rasgos sería reivindicada dos décadas más tarde por la joven generación del cine argentino de los años sesenta. No solamente el film manifestaba una sensibilidad diferente a los cánones de su tiempo en términos narrativos y de representación, sino que los planos de la ciudad, a pesar de que aparecían plenamente sólo en algunos pasajes de exteriores, elevaban a esos espacios a un rango dramático decisivo. Lo exterior y el interior del personaje, lo macroscópico y lo microscópico estaban aunados para narrar una crisis existencial. Allí aparecía sugestivamente activa cierta dimensión de la mirada cinematográfica que unos años más tarde André Malraux iba a describir a André Bazin.  Leemos en una carta fechada el 8 de marzo de 1946: “Lo que me interesa en el cine es el medio para unir, artísticamente, el hombre al mundo (en cuanto cosmos) por un medio distinto al del lenguaje. Siempre se pueden hacer pasar las cámaras por las nubes y los rusos han banalizado el procedimiento, pero hay medios más sutiles y agudos. Si hiciese otra película, las imágenes esenciales serían de tipo de la hormiga que corre por el punto de mira de la ametralladora, que usted bien ha observado.” Malraux recordaba allí un pasaje destacado por Bazin donde más que la imagen en sí, importaba esa atención al detalle casi imperceptible, ese escrutinio de una mirada que llega hasta un contacto al borde de lo táctil. En las derivas urbanas de films como éste, esas “imágenes esenciales” de una ciudad son tanto o más importantes que aquellas otras, procedentes de las vistas aéreas o los grandes planos generales: se trata de una ciudad que toca a los cuerpos y afecta a los espíritus como un principio activo. Recorrerlas es explorar zonas interiores.

En la Buenos Aires construida por el cine, las derivas urbanas poseen un costado de ensoñación, de gozosa caminata sin rumbo protagonizada por personajes que activan sus mapas existenciales a pie o a bordo de algún vehículo (mucho más preferibles aquellos del transporte público como extensión de los espacios de anonimato que los automóviles con su prolongación de lo particular y privado), pero a este estado se enfrenta otro antitético, que apunta hacia la deambulación errática y angustiante. Desde los tempranos ejemplos, ya citados, de Muñequita porteña como emblema de la primera forma y de los pasajes de exteriores en La vuelta al nido como muestra de la segunda, es posible verificar la recurrencia de las dos tendencias, que se han sucedido a lo largo de las décadas del cine clásico de estudios y que posteriormente serían cultivadas por de joven generación del cine de los años  sesenta. Sería excesivo aquí ceder a la tentación del listado de films, tan cara a la pulsión cinéfila. Pero para dar muestra de la frecuentación de imágenes características de Buenos Aires en esos años, es posible reparar en cierta comprobación que realizó Jorge Luis Borges, con su perspicacia habitual y de manera temprana, en los tiempos en que reseñaba películas para la revista Sur.

Al escribir sobre el notable policial La Fuga (Luis Saslavsky, 1937), que se desarrollaba por una parte en una inequívoca Buenos Aires y por otra parte en escenarios rurales, pero donde la ciudad era trazada de un modo nocturno y sucinto, Borges destacaba: “Saslavsky nos perdona el Congreso, el puerto del Riachuelo y el Obelisco”.  Iconos que ya abundaban en la pantalla local, aunque curiosamente el último se había inaugurado sólo un año antes. Como información lateral aunque significativa: cabe destacar que la construcción del obelisco porteño fue acompañada por la filmación de un muy interesante cortometraje de Horacio Coppola, fotógrafo y realizador que había participado en la Bauhaus, y que realizó ese film por encargo de las autoridades porteñas, para una muestra que no llegó a concretarse y luego fue largamente olvidada, hasta su redercubrimiento y su difusión actual. Así nació el obelisco (1936), en escasos 5 minutos y sin sonido, con el estilo de las sinfonías urbanas, permite ver no solamente las alternativas de la construcción del monumento, sino un diálogo con la ciudad en modernización acelerada, y aunque no llega a mostrar el obelisco terminado, sí deja observar desde su cúspide los rascacielos que comienzan a asomar en la urbe, desde el medio de la “avenida más ancha del mundo”, como acostumbran repetir los porteños hace generaciones.

En los años cincuenta, durante la última década del cine de estudios, estas secuencias que se asoman a la ciudad real suelen redoblarse. Pionera en esta tendencia fue un tenso policial, Apenas un delincuente (Hugo Fregonese, 1949), definida como “una historia de la ciudad”, que apelando al estilo semidocumental fue filmado en buena parte dentro de la Penitenciaría Nacional, hoy demolida, que se emplazaba en la zona norte de Buenos Aires. Muchas de sus secuencias callejeras fueron tomadas con cámaras ocultas en distintos escenarios porteños.  Pero la senda de filmar a la Buenos Aires real como punto de partida para la ficción, esporádicamente ensayada durante los años el cine de los estudios, fue proseguida con el mayor énfasis por la llamada generación del 60, una nueva ola que, en sintonía con otros nuevos cines de esos años en otras latitudes, filmó a la ciudad como protagonista privilegiada. Entre ellos es posible destacar, entre muchos, los films de David José Kohon, quien en Tres veces Ana (1961) y sobre todo en Breve Cielo (1969) desplegó dramas intimistas, donde los jóvenes de la época se asoman al amor, al desencuentro o a la desesperanza existencial, en un tono que marca evidentes consonancias con el Antonioni de aquellos años.

Es necesario anotar a 1969 como un instante privilegiado para el encuentro entre Buenos Aires y el cine. Además del citado film de Kohon, ese fue también el año del estreno de la ineludible Invasión (Hugo Santiago) y de Tiro de gracia (Ricardo Becher). La película de Santiago, con argumento de Jorge Luis Borges y Adolfo Bioy Casares, narra el conflicto entre un grupo de porteños a la vieja usanza, que anacrónicamente, con estilo y códigos de otros tiempos, resisten una invasión tecnocrática y anónima, que asola a la ciudad desde el aire, el río o sus confines terrestres. En Invasión la ciudad no es exactamente Buenos Aires, sino una urbe mítica, mucho más acotada, llamada Aquilea. Pero sus imágenes son inconfundiblemente porteñas, incluso su mapa tiene similares contornos. En un tono que mezcla el relato lacónica de un estilizado cine de género norteamericano y las exigencias con la imagen y el sonido propias del ascetismo de Robert Bresson, Invasión refunda las mitologías urbanas y las relanza a nuevas perspectivas distópicas, que hasta cabe apreciar en un sentido visionario, a pesar de que su ficción transcurre en un hipotético 1957. Durante muchos años fue un film maldito, hasta su difusión en soporte digital en este siglo, pero resulta un film imprescindible para cualquier cotejo entre el cine y Buenos Aires. Esa condición fue compartida por la también recóndita Tiro de gracia, donde participaron algunos referentes del arte y la intelectualidad porteña de entonces para narrar la deriva entre hedonista y angustiosa de un grupo de jóvenes en la ciudad seductora y amenazante. No solamente es una crónica sobre la modernidad porteña en un enclave fundamental del centro porteño, hoy desaparecido, sino que también, con una banda sonora que remite a los tiempos fundantes del rock argentino, entra en sus ensueños y pesadillas, anticipando incluso la violencia social y política que oscurecería la década siguiente.

Por todo lo expuesto puede advertirse que a la fascinación y la exaltación de la ciudad moderna, o la nostalgia por los tiempos pasados, las derivas del cine clásico y el moderno filmado en la Argentina han tenido en Buenos Aires un escenario decisivo, al punto de que la gran ciudad-puerto construyó un imaginario que se impuso casi con exclusividad, dificultando la consolidación cinematográfica de otras urbes hasta años recientes. Esa ciudad soñada, deseada y vivida en los espacios físicos, en consonancia con las señas otorgadas por la pantalla, también posee sus tensiones y zonas de oscuridad. Algunos de los títulos aquí citados se extienden en este ángulo que no desdeña lo ominoso: esto es, el acecho también tiene un lugar en los modos en que Buenos Aires ha sido avistado a partir del cine. Esa es la perspectiva que comparte uno de los films clave del nuevo cine argentino de los años noventa: Pizza, birra, faso (1998, Adrián Caetano y Bruno Stagnaro), que también comienza en su primera secuencia como una incipiente sinfonía urbana para instalarse pocos minutos después la crónica de un asalto, y se extiende en un drama callejero cuya dureza evoca a la de Los olvidados (Luis Buñuel, 1950). Los jóvenes marginales de Pizza, birra, faso ejercen su delincuencia en una Buenos Aires hostil, que tanto los asfixia como les brinda los elementos para subsistir, desde un punto de vista que perfila como en negativo los lugares comunes y reconocibles de la ciudad. Ese obelisco omnipresente en el cine porteño se convierte aquí en escenario de una aventura squatter, donde los protagonistas ingresan al monumento y llegan hasta arriba, mirando la ciudad desde el más inusual de los márgenes. Lo que había sido una toma institucional en el cortometraje de Horacio Coppola encuentra aquí una contraparte inesperada, nocturna y subversiva, casi como un manifiesto del desmantelamiento de ciertas convenciones de representación que buena parte del joven cine argentino propondría por entonces, más allá de que en lo sucesivo no prosiguiera de una manera consistente en ese rumbo.

Para culminar este recorrido vale citar un film destacado de la última década, que renueva esa dimensión de acecho que permanece activa largamente en Buenos Aires y se intensifica durante diversos períodos, y que usualmente quedó más bien instalada dentro de la ficción policial, pero que llegó a su paroxismo en un plano político, durante la última dictadura. La ciudad sitiada, habitada por infinidad de ojos posándose en la vida cotidiana, el tránsito y acciones del paseante común, fueron retratados de modo singular en La larga noche de Francisco Santis (Francisco Márquez y Andrea Testa, 2016), al punto de delinear una verdadera psicogeografía del miedo urbano, que es inequívocamente porteña. Basada en una novela escrita en 1984 por Humberto Constantini, el film de Testa y Márquez  fundó su trabajo en el cultivo de una dimensión fóbica que es inherente a la puesta en escena cinematográfica. Por otra parte, la película supo tensar al máximo y potenciar la relación entre estética y política, ya que es una ficción política, al mismo tiempo que es también una película de miedo. El deambular de su protagonista Francisco Sanctis, tanto en la novela original como en la película, traza un mapa de la ciudad durante la dictadura. En la novela esta circulación transcurre por espacios característicos, muy ubicables en la geografía de la ciudad real. En el film, estos lugares son escenificados con tal grado de estilización que se transforman en escenarios de pesadilla, con dimensiones y una interconexión cambiantes. El fuera de campo, los recursos ópticos del fuera de foco, la oscuridad y las elipsis entre uno y otro sector construyen una Buenos Aires condensada en unos trazos esenciales, de similar modo en que algunas muestras del cine de terror o del cine negro supieron hacerlo en otro marco genérico. Los espacios son reconocibles, poseen una significación posible, pero lo fundamental es que todo amenaza con ser signo de otra cosa, y todo signo deriva en amenaza palpable.

En este film, Buenos Aires se ha convertido en un laberinto nocturno y mortífero durante el período más intenso de la represión militar. Una violencia asordinada invade cada espacio y las referencias urbanas son reconocibles, aunque la rarefacción impone un régimen que no solo afecta a las relaciones entre su protagonista y su entorno, sino a la percepción de esa ciudad por parte del espectador. Se trata, sin duda, del miedo, pero no del temor que nace como respuesta inmediata a un acontecimiento concreto, sino de un miedo continuo, políticamente gestionado, acompañado de un turbio sentimiento de culpa. Como lo ha señalado certeramente Jean Delumeau, la política del miedo siempre viene acompañada de un proyecto de culpabilización. Y así se desplaza en su noche Francisco Sanctis, intentando avisar a alguien que no conoce sobre algo de lo que se enteró por casualidad: están por detenerlo para convertirlo en un desaparecido más. En La larga noche de Francisco Sanctis opera también esa forma de afección que Patrick Boucheron ha denominado como miedo brechtiano, inspirado en la emoción descripta en Terror y miseria del Tercer Reich. No se trata del pavor despertado por un acontecimiento súbito o un riesgo inminente, sino de una catástrofe lenta, que desmorona el espíritu en un marco de banalidad, y que se advierte particularmente en el lenguaje. Buenos Aires es así la ciudad del miedo lento, brechtiano, pegado a su protagonista y a sus espectadores.                                                                                     

La Buenos Aires construida por este film configura una psicogeografía cuya puesta en escena opera desde el campo de lo visible, incluso antes que una imagen sedimente como representación. Así el personaje principal transita desde el centro a los barrios porteños, y desde allí a los confines de la ciudad, donde los espacios urbanos, los fantasmas y los riesgos reales de la represión, el peligro y el miedo lento se conjugan, haciendo del último tramo de la película una incursión de Francisco Sanctis en un espacio que sin dejar de pertenecer a lo cotidiano se hace tan cambiante como la Zona de Stalker. El juego entre lo visible y lo invisible designa la presencia de un poder que acecha en cada mirada, en cada rincón. Finalmente, la película de Testa y Marquez ofrece a su protagonista la forma de conjurar el miedo a partir de una decisión solitaria, que es a la vez fundamentalmente política y ética. Se trata de conjurar el miedo no como un modo de atenuarlo o apaciguarlo, sino de hacerlo compatible con la necesaria dosis de lucidez para que pueda confrontarse con un objeto verdadero. Lo que Invasión había desplegado en un registro distópico y eventualmente épico, o lo que Pizza, birra, faso toma del film criminal abierto a la crítica social, se expande en La larga noche de Francisco Sanctis como una operación que traduce a la ciudad, más allá de la reconstrucción histórica,  en un espacio tensado por una dimensión política y trágica. En suma, esta ciudad tan extensa e intensamente filmada, lejos de cristalizarse en las reiteraciones del lugar común, sigue abierta y dispuesta como campo de operaciones para el cine. No cesa de reconfigurarse, a cada intento cartográfico, con nuevos matices, donde se sostienen tanto su misterio como su vida misma.

 

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