Questa ricerca monografica di Marco Luceri non presenta solo varietà di occasioni, esperienze e contesti, insieme a complessi incroci culturali, ma è una parabola dell’opera di Polanski che lascia emergere uno straordinario ossimoro: tenebre (paesaggi di dolore e di morte) splendenti, al di là del fascino eccezionale e unico di questo cinema. È una tragicità che conquista: l’ottica del negativo è costantemente presente, e splendente appunto, attraversando l’intera attività biografica e artistica del regista polacco, che è seduttiva quant’altre mai. L’ analisi dei lungometraggi di Polanski si apre con un’acuta introduzione segnando la dialettica tra Coltello nell’acqua, Repulsione e Cul de sac.

Vi è uno spazio nettamente circoscritto ma senza tempo, ovvero con un tempo che passa, lentamente pesando, e poi si dissipa sorprendentemente già nel Coltello nell’acqua (1962), nel denso disegno scenografico di una barca e del lago che essa va solcando con a bordo soli tre personaggi, desiderosi e disperati. Il mistero, l’assurdo, il grottesco infittiscono palpabili – alla maniera del surreale di Buňuel  – la scena morale, e poi, più tardi, nel 1965, in Repulsione si ritrovano accolti nel personaggio di Carol – paranoica infantile e bella assassina – : il film è già girato fuori dai confini polacchi, in Europa occidentale, ma l’impronta dell’infelicità assunta dal cupo regime sovietico è ancora stringente, per trasformarsi in una sorta di caccia ai fantasmi, o caccia alla morte, l’anno dopo, nel castello semideserto di Cul de sac (strada senza uscita).

Per Luceri è il dominio del freudiano perturbante che deriva dalla paura e assale l’inconscio, dallo sconvolgimento, dal gelo vissuto da Polanski all’ombra disumana dello sterminio nazista che ha spazzato via quasi tutta la sua famiglia di ebrei, lui ancora bambino (Luceri: «La natura segreta delle cose angoscianti chiarisce la cruciale importanza dell’uso linguistico del termine tedesco heimlich -da Heim, casa, quindi confortevole, tranquillo, familiare, abituale - e perché esso può trapassare nel suo contrario unheimlich, perturbante -. Se l’Heimliche è ciò che è familiare, ma tenuto nascosto/rimosso, l’Unheimliche è dunque lo svelamento del rimosso, e in ciò stesso risiede la sua natura traumatica, ansiogena e disturbante. Per Freud … spesso e volentieri l’essere umano si trova esposto a un effetto perturbante quando il confine tra realtà e fantasia si fa labile, quando ciò che prima appariva ai nostri occhi come qualcosa di fantastico appare reale, quando cioè un simbolo assume a pieno la funzione e il significato di ciò che simboleggia», p.16). Col tempo, intanto, l’Europa spinge Polanski (con altri prestigiosi registi polacchi come il suo collaboratore Skolimowski, Kieslowski, K. Zanussi, W. Leszczynski, A. Zulawski, sulla scia del grande Andrzej Wajda) a dissipare in qualche modo l’assolutezza della sua originalità: anzi a raccogliere il perturbante intorno a trame legate a schemi da consolidati film di genere. Ed è questa la seconda direzione secondo cui si articola questo cinema, essendo stata la prima quella della percezione del reale che modella il linguaggio e lo stile del regista.

È il passo verso la struttura produttiva hollywoodiana, che terrà sempre insieme libertà creativa e dimensione commerciale: si comincerà da Per favore, non mordermi sul collo!, e i punti culminanti giungeranno con Chinatown e Frantic. La terza direzione, poi, intrapresa dalla filmografia polańskiana sarà quella di una ricomposizione, attraverso il cinema, di una possibile identità del regista dell’Est divenuto apolide tra America ed Europa: ci sarà ancora il perturbante (Rosemary’s baby, L’inquilino del terzo piano, Carnage, un film che impressiona molto l’Europa, fino alla forma assai meno cruda che la commedia da camera assume, ad esempio, nell’italiano Dobbiamo parlare di Rubini). La parabola aperta nella singolare connessione tra realtà e fantasia dal regista porta la sua opera a diventare perfettamente, intorno a personaggi separati dalla fluidità del postmoderno, un autore del tutto contemporaneo che vive perfino le nuove angosce di un – giustamente per violenze sessuali – perseguitato dalla legge attraverso film come i recenti L’uomo nell’ombra e L’ufficiale e la spia.

D’altro canto Polański porta alla sua oscura-splendente dimensione drammatica alcuni grandi testi letterari (Tes, Macbeth, Oliver Twist, La morte e la fanciulla, Quello che non so di lei), e conferisce il giusto equilibrio ancora di genere in Luna di fiele, mentre da von Sacher-Masoch ricava la straordinaria bellezza figurativa e drammatica di Venere in pelliccia, che ha i suoi punti di forza nella regia intensa (alle prese con due soli personaggi prigionieri di un dismesso e deserto teatro come contenitore claustrofobico) nel sesso smagliante di Emmannuelle Seigner, nella figura via via sempre più avvilita e inebetita del protagonista (Mathieu Amalric) cui è imposta con il suo pieno consenso l’abbandono della mascolinità, nella musica di Alexandre Desplat che echeggia con ironia Alban Berg e il primo Novecento. Non si può non tener conto, infine, di un film che riassume l’oscurità storica che avvolge la vita e la mente con un magma buio in un grande film come Il pianista, con cui si chiude idealmente la parabola polańskiana, puntando decisamente sulla fascinosa carica destabilizzante della «banalità del male» di cui aveva scritto Hannah Arendt: è così che il regista raggiunge livelli paragonabili a quelli di grandi autori come Orson Welles, Stanley Kubrick, Martin Scorsese, e, magari, David Lynch.

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