Tra le diverse pubblicazioni o riproposte delle opere di Sciascia nel centenario della sua nascita questo volumetto che raccoglie scritti cinematografici dell’autore siciliano trova nella nota al testo di Paolo Squillacioti l’indicazione che a guidarlo, nella sintetica indagine, sono i significativi saggi di Antonio Di Grado e di Emiliano Morreale, e le monografie di Maria Rizzarelli e Angela Bianca Saponari. La parte più cospicua del libro raccoglie intanto scritti sul cinema in generale, mentre il tema più intrigante è quello dedicato all’argomento “Dai libri ai film”, cioè al rapporto tra letteratura e cinema, considerato da uno scrittore molto presente, com’è noto, nella produzione cinematografica italiana di alcuni decenni fa.

Da Squillacioti Pasolini è intanto segnalato, non a caso da parte di Sciascia, come l’autore di cinema – in particolare per Salò o le 120 giornate di Sodoma, sugli schermi nei giorni seguenti l’assassinio del poeta – come emblematico di un regista destinato al consumo delle masse piuttosto che alla valutazione autentica della sua opera d’artista. Il cinema d’autore è infatti al centro dell’interesse del grande narratore; e, con esso, alcuni dei miti più noti della settima arte (Gary Cooper in pochi righi di “Due immagini del cinema”, e in “I miti del cinema” René Clair in “Il congedo da Clair, un’ultima ironica sequenza”, “L’ufficiale von Stroheim maschera di nostalgia” – ad esempio –). Ma, come dicevamo, “Libri e cinema” è la parte che incuriosisce di più degli interventi sciasciani: necessariamente, allora, rapide e acute riflessioni su A ciascuno il suo di Elio Petri e Il giorno della civetta di Damiano Damiani, che paradossalmente «accrebbero la notorietà di Sciascia in un periodo di intensa crisi esistenziale e creativa» (p. 146) da cui poi, tra il 1971 e il 1974, Sciascia venne fuori con Il contesto e Todo modo passati a due film rispettivamente di Francesco Rosi e ancora Elio Petri.

Lascia un po’ stupiti che il punto di vista dello scrittore, in questa sezione del libretto, si manifesta come tendenzialmente ostile a immaginare una qualche organicità di rapporto tra letteratura e cinema, restando di fatto ancorato a una posizione negativista («Questo non è un racconto») che a lungo ha dominato il breve tempo della storia dei film. Tuttavia qui si insiste, com’è giusto, a presentare le testimonianze proprio di uno scrittore di romanzi e di racconti, Sciascia, per una qualche forma di scrittura per il cinema, con la presentazione di tre soggetti originali – non realizzati –, destinati a Carlo Lizzani (“Vedova della mafia”), Lina Wertmüller e Sergio Leone (per il quale il curatore del libro ricorda un memorabile incontro tra scrittore e regista). Inoltre, a questo proposito, resta interessante anche il capitoletto dedicato al tema, sicuramente peculiare alla visione delle cose dello scrittore, “Dal soggetto al film” (pp. 66-70, del 1960). Sciascia parla, un po’ autoironicamente, di «rari e fuggevoli contatti che abbiamo avuto col mondo del cinema», e di «caos che è il lavoro di preparazione letteraria». Autore del film è pertanto più di ogni altro il regista: «Perciò riteniamo che un regista [ad esempio il Fellini della Dolce vita] che abbia da esprimere poesia o giudizio sul mondo, che abbia una originale visione della vita, che insomma sia artista, non debba mai misurarsi con opere già complete nella loro forma letteraria».

E Il bell’Antonio di Bolognini, tratto non certo da un capolavoro assoluto come il pur ottimo romanzo di Brancati, può alla fine risultare, per Sciascia – ingiustamente –, un «insulso film». La mia opinione, in qualche modo pasoliniana, è invece che, a partire dall’idea della letteratura come sogno, il cinema tratto da un’opera letteraria di qualsiasi valore è sogno da sogno. E Pasolini, così ammirato da Sciascia, sta certo tra crudeltà dello scrittore (radicale realismo), come Sciascia narratore, e impoliticità, come Sciascia di fatto, del sogno: e tanto più di sogno da sogno come il cinema. Il cinema, a parte la sua densità anche in lunghissimi film, che non sono la stessa cosa delle serie (vedi Heimat, o le pellicole di Malick), e, nonostante la volatilità delle immagini sullo schermo, s’infiamma – anche nei film più comici, dietro la spinta che resta sostanzialmente onirica dell’ispirazione – come visione dal profondo nell’irripetibile fascino del buio della sala cinematografica.

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