In La perla, di Emilio “el indio” Fernández un povero pescatore di perle, dopo l’ennesimo tuffo scorge, gli occhi ben aperti (wide) e annebbiati (shut) per l’acqua salsa, qualcosa nelle profondità torbide dell’oceano (che la lente di Figueroa trasforma in un acquario magico, cortazariano-rosselliniano). Risalito a galla scoprirà, insieme alla moglie che lo attendeva paziente nella barca, che si trattava, custodita dentro una conchiglia incrostata di alghe limacciosa, di una perla perfetta.

Chissà perché mi torna in mente con ostinazione proprio questa sequenza (forse perché fu uno dei film che mi avevi suggerito di vedere “quando sarai in Messico”): ogni film, ogni sequenza, ogni immagine possiede sempre, dicevi parlando di Rossellini, dietro il fatto apparente, un senso nascosto, «la traccia di una coerente fantasticazione», o, meglio, «l’attività fantasticante dell’uomo». Ma per scoprire l’ordito, il dettaglio, la cifra occulta nel tappeto jamesiano, il critico da recensore deve farsi filosofo (come il poeta doveva farsi veggente per Rimbaud) per scoprire, sollevare un testo che «sempre di più si rileva come testo nascosto, come enigma da aprire». Ma allora, cosa vede l’occhio che vede? Può lo sguardo farsi pensiero? Si, se si tratta dell’occhio «esercitato dei poeti», che riesce a vedere nelle ombre e nelle sporgenze (quindi anche o proprio, nell’abisso, come il cercatore di perle), molto più di quello che vediamo noi, «e rimette a questo vedere l’insostituibile (probabilmente) presenza creativa dell’occhio».

Georges Bataille parlava di una zona bianca sulla bocca del cuore, sede e maelstrom dell’affezione cieca (irriducibile a qualsiasi “radiografia” – è il cuore di Irene Girard in Europa 51); mentre tu, Edoardo, da qualche parte fai riferimento a Don Chisciotte, «en un lugar de la Mancha, de cuyo nombre no quiero acordarme», ponendo l’accento sulla seconda parte della frase (curioso come anche Ricardo Piglia, lo scrittore argentino autore de La ciudad ausente, faccia come te: per segnalare come, in questo trafiletto, il lettore post-poesco della letteratura poliziesca, divenuto paranoico e sensibile ad ogni ripiego e svolta accidentale del testo, faccia caso proprio a questa strana dimenticanza, ritrovandovi un indizio, una sporcatura dell’inconscio al lavoro - perché l’autore non vuole o non può ricordarsi del nome del posto dove ambienterà il suo racconto? - e comincia a dubitare dell’impalcatura e della veridicità dell’intera storia). Anche tu parli di questa Mancha, ti interroghi su questo grumo di visione, su questo occhio pesto, occhio nero che confonde il lettore, dicendo che «questo luogo di cui non voglio ricordare il nome è proprio quello della “macchia” (mancha), della zona cieca dell’occhio, la zona del pensiero, in cui l’immaginazione e la realtà sembrano coesistere e rivivono nella fantasia» e che diventa, poi, «inquietante zona nera dei corvi» del Campo di grano con corvi di Van Gogh, «che fisicizza uno stato di inquietudine e di tensione nella luminosità del paesaggio» e può estendersi fino a diventare grande plaga violacea, piega liscia e «molecola spaziale» nella Rothko Chapel di Houston.

Occhio annebbiato, occhio pesto, occhio, anche, tagliato nella vertigine del delirio buñueliano dove, secondo i dettami del montaggio spettrale del conte di Lautremont una nuvola, un rasoio, e un occhio possono essere accostati-uniti sul medesimo tavolo di montaggio-dissezione (di Dalì-Moreau, a cui accostavi il “ferro” di Paul Eluard ma anche il “ferro da stiro chiodato” di Ernst), e che però va montato insieme con un altro sguardo, quello incantato di Ingrid Bergman sul ciglio del vulcano di Stromboli, carponi nella polvere, mentre accetta l’irrimediabile e scandalosa poesia del visibile, nell’invisibilità di uno sguardo interiore che «procede nel cammino della conoscenza sul vulcano, radiografia di un sentire, di un trasalire, di un mutare». Ma anche occhio cieco del bambino spielberghiano dell’Impero del Sole, che ha visto il bianco solarizzato della bomba di Hiroshima (di cui Godard, in un frammento delle Histoire(s) racconta gli effetti attraverso la foto della silhouette d’ombra sui gradini di marmo dopo gli uccelli vangoghiani (di nuovo) e artaudiani di Hitchcock sovraimpressi sul volto sorridente di Marilyn mai così tanto «piccola sorellina minore»), cieco come quello dei pompeiani dissepolti di Viaggio in Italia, cieco come lo sguardo della statua di Antinoo in cui Katherine Joyce si imbatte nella sua visita al museo Archeologico, cieco come lo sguardo delle capuzzelle del Cimitero delle Fontanelle, orbite vuote che si spalancano su quelle fronti calve che la cura affettuosa, più che il tempo, ha trasformato in cupole di zucchero (sguardo della Bergman che “affonda”, come la Maddalena, dentro le orbite del teschio sul quale medita), in un campo e controcampo scivoloso come su un crinale, come su un filo teso simile a quello dell’acrobata nietzschiano e zemeckisiano e che fanno del cinema una reinvenzione continua del mondo.

Occhi, occhi, occhi! ciechi, annebbiati, pesti, incantati, che quindi, in un istante di pericolo dove tutto sembrava spacciato o perduto per sempre, hanno imparato a vedere, a dire, facendo a pezzi quel dispositivo implacabile che è la finestrità ottusa di Alberti (sul quale, è bene dirlo, il cinema comunque si fonda), occhio che ha imparato a dire «io penso», ma anche, immediatamente dopo, rimbaudianamente, «ho visto quello che gli uomini credono di vedere». Lo sguardo, una volta abbandonato il semplice rispecchiamento passivo, non importa se fotografico, perché inadeguato «a cogliere l’aura indistinta, il movimento interno, la tensione a un continuo modificarsi, a rendere il processo creativo» attraverso e al prezzo di una rivoluzione-circumnavigazione su se stesso si scopre capace di cogliere il lato dinamico delle cose in direzione di una nuova «possibilità di esperienza»: l’arte non ripropone ma propone e alla pura riproduzione-contemplazione come «senso immobile della storia» sostituisce la costruzione in senso dinamico e materialistico della realtà. Aveva ragione Epstein (ma anche Eistenstein, Balazs e Barbaro e Della Volpe tutti alla affannosa ricerca del campo-senso perduto e della forma come contenuto), al cinema «non esistono nature morte».

Bisogna quindi aggiungere uno sguardo in più, lo sguardo operoso, lo sguardo che si fa tatto del Messia di Rossellini dove Gesù, in una scena che citavi sempre, in uno spiazzo di mercato antico (bello come il riquadro di una predella medioevale), circondato dai bambini, mentre racconta le sue parabole, fa piccoli lavori di carpenteria, manutenzione ordinaria che diventa atto creativo, ossia montaggio, quella capacità sovrana (davvero umanissimamente “divina”) di «cambiare la pesantezza delle cose, giocando con tutta libertà contro l’inettitudine della materia». Gesù che guarda (ciò che manipola) mentre parla, che ha superato di slancio l’impasse dell’Angelo della Malinconia di Dürer (che al contrario non sa come manipolare, utilizzare gli oggetti che ha davanti), perché «vedere è parlare, pensare nell’interstizio, nella disgiunzione».

È la conoscenza attraverso uno sguardo che pensa: «conosco il film attraverso la vista, vedo le immagini come supporto per entrare nel visibile, conosco attraverso l’udito, sento le voci, i sussurri, i rumori che dilatano lo spessore delle immagini, che danno senso all’aria che circola attorno, e conosco attraverso il tatto che, come un terzo occhio, mi permette di intuire le pieghe di un drappeggio inesistente, di rilevarne la materialità», perché «non basta vedere per comprendere, vedere è un atto intellettivo, vedere è saper vedere, come comprensione della pluralità dei mondi» fino a cogliere, quel «nodo pensiero-immagine» che è una delle grandi scommesse del pensiero filosofico. E allora capiamo che quei pezzi di legno in uno “spiazzo miserabile” di Palestina sono come i gouches dècoupes di Matisse, che come «fotogrammi di colore, hanno proprio questo valore autonomo» e questa capacità, auratica, di assemblaggio, o come le immagini che le grandi vetrate della cattedrale di Chartres rilasciano nel mutare della penombra, «in un montaggio ideale, una serie di proiezioni sui pavimenti, “figure” penetrate dal sole, come pellicole, in campi lunghi e in movimenti virtuali, che solo l’occhio sa cogliere»  riflessi di un lavoro profondamente umano, dove l’albero, il cavaliere, il santo, visti, toccati, sentiti, non sono più soltanto un albero, un cavaliere, un santo, «ma anche un’emozione, una sensazione, un modo di esprimere il nostro pensiero» perché, davvero, il cinema è ovunque o come dicevi sempre, «Tutto è cinema».

PS L’essere allergico di Uzak alle note a piè (per una prassi metodologica precisa che è quella di non interrompere il flusso di immagini-pensiero della scrittura) mi “obbliga” ad un piccolo a-parte. TUTTE le parti virgolettate sono prelevate, disordinatamente, dopo qualche troppo colpevolmente frenetica rilettura notturna, da due libri di Edoardo, Film: altro reale, ed. Il formichiere, Trento 1978 e al collage di scritti, a cura di Daniela Turco, L’occhio probabilmente. Un percorso poetico-politico, Manifestolibri, Roma 2016, più vari lacerti da filmcritica, la rivista fondata da Edoardo Bruno nel 1950 che in 70 anni, 700 numeri e 35000 pagine è una colossale Babele di visioni, appunti, immagini-pensiero, ma anche un battello ebbro divenuto barchetta di carta stampata, che il bambino-demiurgo lancia, divorandola con gli occhi, sullo stagno, e noi capiamo o sappiamo all’improvviso che costruire una torre o osservare il piccolo abbordaggio di una barchetta di carta vicino ad una foglia, fanno parte forse dello stesso sogno, o sono, come la via che sale e la via che scende, la stessa e identica cosa.

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